L'allarme. Minoranze linguistiche, un patrimonio che rischia di finire nel
silenzio
Chiara Zappa venerdì
17 agosto 2018
In Italia ce ne sono varie e molte vanno sparendo:
walser, tabarchino, arbëreshë, ladino, grico, occitano. Ma in alcuni casi il
recupero oltre che identitario diventa motore di sviluppo economico
Donne arbëreshë
danzano in Calabria (CreativeCommons)
Da Pecetto, la più alta tra le nove
frazioni di Macugnaga, dove finisce la strada che rimonta l’aspra valle
Anzasca, Anne può ammirare ogni volta che ne ha voglia le maestose quattro cime
della parete est del Monte Rosa. Da bambina, ricorda, «io e i miei fratelli
andavamo a prendere i carichi di legna per l’inverno, perché non avevamo il
riscaldamento, e mentre lavoravamo ci richiamavamo da un alpeggio all’altro con
lo jutzu, il nostro jodel. Cantavamo sempre, qui si sentivano
sempre voci nell’aria».
Quelli che hanno accompagnato
l’infanzia di Anne, minuta signora di 91 anni, sono i canti walser,
tramandati per generazioni dai discendenti dei coloni svizzeri che, nel XIII
secolo, attraverso il passo del Monte Moro raggiunsero queste zone ostili
all’uomo dell’attuale Piemonte, chiamati dai monasteri o dai feudatari che
chiesero loro di bonificarle.
La lingua walser, nei suo diversi
dialetti locali, si è conservata intatta, “ibernata” come in uno dei ghiacciai
che dominano il panorama, tanto che gli svizzeri o i tedeschi che passano di
qui sono felici di sentire parole che da loro non esistono più da secoli. Il
walser è un idioma della memoria, un po’ come, nel cuore della Basilicata,
l’arbëreshë, l’albanese portato nel '500 dagli esuli in fuga dalla
dominazione ottomana.
O come il tabarchino,
che ufficialmente è solo una variante del dialetto genovese, ma ha un’identità
assolutamente specifica e stupefacente: a parlarlo, in due isole sarde dell’arcipelago
del Sulcis, sono gli eredi dei coloni genovesi giunti da Tabarka,
in Tunisia, poco meno di trecento anni fa. Questi migranti avevano vissuto
per due secoli nel regno dei Bey tunisini, impiegati dalla
"madrepatria" ligure alla pesca del corallo, e lì avevano mantenuto
la loro parlata assorbendo però alcune espressioni e molti aspetti della
cultura locale, a cominciare dalla gastronomia: il cuscus ( cascà in
tabarchino) è oggi un piatto tipico a Calasetta e Carloforte.
Le storie di queste isole
linguistiche che resistono, ormai a fatica, in mezzo al mare
dell’italiano, così come l’occitano e il grico del
Salento, sono raccontate nel libro Stiamo scomparendo. Viaggio
nell’Italia in minoranza (Ctrl Books; autori vari, pagine 124, euro
18,00), accompagnate dal suggestivo reportage fotografico di Emanuela Colombo.
«La lingua crea un’identità individuale e di gruppo», si legge nella
prefazione. «La lingua, al contempo, può essere un elemento di differenza. E di
conservazione delle differenze. Un antidoto a quel tipo di potere che,
consciamente o inconsciamente, uniforma e appiattisce. Forse chi lavorò intorno
alla Carta che avrebbe regolato la vita civile dell’Italia liberata dal
fascismo aveva in mente qualcosa di simile: la Costituzione della
Repubblica Italiana tutela, con l’articolo 6, le minoranze linguistiche.Nel
momento di una nuova unificazione, i padri costituenti decisero di proteggere
le differenze».
A 70 anni dall’entrata in vigore
dello Costituzione, gli autori del libro compiono così un viaggio narrativo e
per immagini, dalla Basilicata alle Alpi, in questa Italia sull’orlo
del silenzio. Per scoprire quanto le parole siano inscindibili dalla
cultura di una comunità.
A Carloforte i capi delle tonnare,
che hanno fatto la fortuna dei tabarchini, si chiamano rais e
sono figure quasi mitiche. Ad Alagna Valsesia le case sono costruite con la
tecnica del blockbau, a incastro, tipica dei popoli germanici. La
cultura ma anche la fede. Nella chiesa di San Costantino il Grande, a San
Costantino Albanese, la messa si celebra in rito bizantino e in lingua
arbëreshë. A Pomaretto (Lou Poumaré in occitano) all’imbocco della Val
Germanasca, la maggioranza degli abitanti segue il culto valdese: questa valle
sperimentò la pace, dopo secoli di terrore e persecuzioni, solo nel 1848,
quando Carlo Alberto di Savoia riconobbe ai valdesi pieni diritti civili e
politici.
Si tratta di identità
ancestrali tanto preziose quanto, frequentemente, inconsapevoli.
Chi parla una lingua in via di estinzione spesso non si rende nemmeno conto del
patrimonio che mastica quotidianamente. Franco Bronzat, linguista nato a Torino
da genitori della Val Chisone, se ne accorse casualmente al liceo. Nell’ora di
letteratura, la professoressa aveva letto una poesia del grande trovatore
provenzale Arnaut Daniel, spiegando che era scritta in occitano, «una lingua
morta». Franco alzò la mano: «Sarà morta per lei. Ma a me sembra la stessa roba
che parliamo noi a casa».
Una naturalezza che aumenta il
rischio di lasciare scivolare via, piano piano, le parole e quello che
significano: uno stile di vita, un’identità di singolo e di gruppo.
Tutte le comunità minoritarie d’Italia, anche se in modi e a livelli diversi,
stanno affrontando la sfida del declino. Gli anziani se ne vanno e si
portano via i proverbi, le canzoni, i pezzi di un mondo.A meno che non ci
sia qualcuno che, realizzato il valore di ciò che si sta perdendo, incoraggi la
collettività alla riscoperta delle proprie radici.
In molti casi sta succedendo. Nello
storico centro polifunzionale di Alagna, Davide Filié tiene un corso di titzschu, la
versione locale del walser, per i ragazzini del paese. «Una lingua è ancora
viva se due bambini, almeno due, la usano per giocare», afferma convinto. E i
bimbi sono tornati anche a Ostana, minuscolo borgo occitano della
Valle Po dove il regista Giorgio Diritti ha ambientato il film Il
vento fa il suo giro. All’inizio del Duemila, quassù
vivevano sei persone, oggi i dati della municipalità parlano di 85 abitanti. Si
valorizzano le risorse tradizionali unendole ai nuovi modelli di sviluppo
sostenibile, si organizzano corsi e seminari e un festival internazionale
dedicato alle "scritture in lingua madre".
Similmente, tra gli ulivi
della Grecia salentina si comincia a pensare che il
recupero della memoria sia anche sinonimo di economia, e i comuni si sono
uniti per difendere le loro peculiarità, a cominciare da quella linguistica.
«In questi paesi ora non si costruiscono palazzine. La gente è fiera dei propri
canti, del proprio cibo. La modernità non è stata rinnegata, ma internet
convive con la pizzica».
Certo, qui, come in tutte le altre
isole minoritarie d’Italia, il timore è che la cultura locale si trasformi in
semplice folklore a uso dei turisti. Un rischio, tuttavia, che vale la pena di
correre, se non si vuole scomparire.
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