martedì 25 dicembre 2018

Limena, il simbolismo della Natività nell’oratorio della B. V. del Rosario. Pastori, pellegrini, angeli e animali alla greppia di Betlemme


Limena, il simbolismo della Natività nell’oratorio della B. V. del Rosario. Pastori, pellegrini, angeli e animali alla greppia di Betlemme
di Bruno Trevellin

(Limena, Oratorio della B. V. del Rosario, predella dell'altare, Natività (sec. XVII) 


La predella dell’altare nell’oratorio della Beata Vergine del Rosario di Limena è un pregevole bassorilievo marmoreo di autore anonimo del XVII secolo. In un’atmosfera di solenne stupore troviamo rappresentata la Natività di Gesù Cristo a Betlemme. Proprio perché l’oratorio è intitolato alla Vergine, la cui statua marmorea domina alta sull’altare, la base dello stesso non poteva che essere la sua natività, quasi a sottolineare la verità del parto verginale di Maria[1].

La scena centrale è dominata da un giovane pastore imberbe (gli altri tre hanno tutti la barba, compreso Giuseppe) inginocchiato e scalzo che, a mani giunte, contempla il Bimbo Gesù nella greppia. La lieve veste sembra solo velare la giovane e forte muscolatura. A tracolla tiene una bisaccia che pare contenga solo poche cose essenziali, come dovrebbe essere per la vita di ciascun credente. L’umiltà che caratterizza la sua vita, e che gli consente di accogliere da subito l’invito degli angeli a recarsi alla grotta, è ben raffigurata dal piede scalzo e dal ginocchio sicuro che aderiscono al terreno. È lui, infatti, un giovane pastore, il primo uditore e testimone della Parola.

Maria sostiene il figlio seduto sulla paglia, avvolto da fasce che gli coprono solo il bacino e le gambe e sembra offrirlo ai nuovi arrivati. Le fasce sono infatti segno di un’incarnazione verace, non illusoria e le fasce in cui Maria avvolge il Bambino “provano che Dio ha «vestito» (per cosi dire) la condizione umana in maniera non fittizia, bensì reale”[2]. 

Giuseppe in piedi, alle spalle di Maria, è un uomo preso dallo stupore per l’evento della nascita di quel suo figlio; lo dicono le mani con le dita aperte, una in alto e una sul petto. La sua folta chioma chiude la diagonale che parte dall’agnellino legato a terra, passando per le teste di Gesù e di Maria.

Sopra il pastore, un viandante pellegrino sembra appena giunto. È raffigurato nell’atto di togliersi il cappello a larghe tese (serviva per ripararsi dal sole e dalla pioggia). Altri elementi che lo caratterizzano come pellegrino sono la cappa (mantello per il freddo della notte e per le intemperie), il bastone (chiamato ‘bordone’, utile per appoggiarsi, ma anche per difendersi) e le scarpe robuste (indispensabili per percorrere sentieri spesso accidentati). Anche l’altro personaggio che sta arrivando sulla destra è un pellegrino, con in più, attaccato al bastone, un cesto con dentro omaggi per la sacra famiglia (si riconosce una gallinella, viva, simbolo di fertilità, che non doveva essere proprio per un Gesù appena nato, che nella scena, tra l’altro, sembra un bimbo di quasi un anno).

Ai lati della predella stanno due angeli bambini in piedi. Uno ha la bocca aperta e canta (il Gloria) tenendo in mano uno spartito e uno tutto nudo suona uno strumento ad arco. Sono gli annunciatori della buona novella. Li fiancheggiano altri due angeli che tengono in mano una corona di rose e di altri fiori (l’oratorio è dedicato alla Madonna del Rosario). Le loro ali sono penne e piume che assomigliano molto a fronde di palma. Sappiamo dal vangelo di Giovanni che la palma indica la vittoria di Cristo sulla morte e la sua resurrezione e nell’Apocalisse ricorda il trionfo dei martiri. Tutti e quattro gli angeli rivolgono lo sguardo al Gesù Bambino.

Ai piedi della greppia, vicino alle ginocchia del giovane pastore, è poggiato un mansueto agnellino con le gambe legate, che il Bambin Gesù e sua madre sembrano guardare con inquietudine. L’agnello legato nel presepe non è altro che una prefigurazione del sacrificio finale di Cristo, vittima innocente per la salvezza dell’umanità. Nello stesso tempo agnello e pastore sono anche metafora di Cristo buon pastore, che lascia le novantanove pecore per cercare tra i dirupi quella smarrita.

Nella scena centrale troviamo il bue e l’asino, calmi e buoni, ad alitare sulla la testa di Gesù. Nelle rappresentazioni medioevali i due animali hanno volti quasi umani e infatti anche nella nostra predella li notiamo con ciuffi di capelli simili a quelli degli altri protagonisti. Sul significato della loro presenza nel presepe facciamo nostra la lezione di papa Ratzinger.
“Il bue e l’asino del presepe non sono semplici prodotti della pietà e della fantasia, ma sono diventati ingredienti dell’evento natalizio a motivo della fede della Chiesa nell’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento. In Isaia leggiamo: ‘il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende’.
I padri della Chiesa videro in queste parole una profezia che fa riferimento al nuovo popolo di Dio, alla Chiesa composta di giudei e pagani. Davanti a Dio tutti gli uomini, giudei e pagani, erano come buoi ed asini, privi di intelligenza e conoscenza. Ma il Bambino nella mangiatoia ha aperto loro gli occhi, cosicché ora essi riconoscono la voce del proprietario, la voce del loro Signore.
Ciò era perfettamente logico, perché essi avevano il valore di segno profetico dietro cui si nasconde il mistero della Chiesa, il nostro mistero, secondo il quale noi che di fronte all’eterno siamo buoi e asini, buoi e asini cui nella Notte Santa sono stati aperti gli occhi, si chè ora riconoscono nella mangiatoia il loro Signore”[3].

Sulla destra in basso lo scultore ha collocato un tronco d’albero con delle foglie alla base. Anche questo ci sembra un richiamo cristologico al tronco di Jesse del profeta Isaia. “Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici”[4]Starebbe a testimoniare la discendenza davidica del Salvatore (Davide è il più piccolo dei figli di Jesse e prima di diventare re d’Israele faceva il pastore) e la sua regalità.

Non mancano in basso a sinistra alcune pietre di una casa già in costruzione, la Chiesa. Quella in alto è solo appoggiata, non è ancora ben sistemata. Aspetta la mano di qualcuno che continui l’opera iniziata con l’incarnazione del Redentore del mondo.


Un ultimo particolare, che però non può passare inosservato: il velo sul capo di Maria lievemente mosso da un vento. È l’unica in questa Natività su cui sembra soffiare una brezza proveniente non si comprende se da oriente o da sud, in ogni caso solo su di lei, proprio perché “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,7-8)”. Se consideriamo che lei è la ‘piena di grazia’ sulla quale è intervenuto lo Spirito di Dio (e il vento nel Nuovo Testamento è simbolo dell’azione dello Spirito Santo), troviamo spiegato quel suo velo sollevato che ci mostra intero il volto della Madre di Dio.


[1] Il dogma della verginità perpetua di Maria venne definito dal secondo concilio di Costantinopoli (553). Per un approfondimento sullo stesso di veda http://www.latheotokos.it/modules.php?name=news&file=article&sid=190
[2] (in: http://www.latheotokos.it/modules.php?name=News&file=print&sid=976).

[3] Joseph Ratzinger, “Immagini di speranza: Le feste cristiane in compagnia del Papa

[4] Isaia, 11.1

mercoledì 21 novembre 2018

Limena, un Giardino dei Giusti (Yad Vashem) su via Dante


Limena, un Giardino dei Giusti (Yad Vashem) su via Dante
«E per loro io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome ("yad vaShem") [...] che non sarà mai cancellato» (Isaia 56,5)
di Bruno Trevellin


Il comune di Limena nel 2010 dà vita al Giardino dei Giusti nell’area a parco pubblico di via Dante (di fronte alla scuola secondaria Beato Arnaldo da Limena).
Ogni anno le classi della scuola primaria e secondaria partecipano alla commemorazione del Giorno della Memoria (27 gennaio), presentando testi e canzoni e ricordando quanti nei momenti più tragici della storia hanno scelto di adoperarsi per salvare la vita di altre persone.
La cerimonia si svolge alla presenza delle autorità e si conclude con l’affissione di una targa su un cippo ligneo a leggio e con la piantumazione di un albero a memoria del giusto ricordato in quell’anno.
Il primo ‘giusto’ commemorato nel Giardino di Limena è stato Giorgio Perlasca che, nell'inverno del 1944, nel corso della seconda guerra mondiale, fingendosi Console generale spagnolo, salvò la vita di oltre cinquemila ebrei ungheresi strappandoli alla deportazione nazista e alla Shoah.

Chi sono i Giusti tra le nazioni
«Chi salva una vita, salva il mondo intero» (Talmud)
Dopo la seconda guerra mondiale, il termine Giusti tra le nazioni è stato utilizzato per indicare i non-ebrei che hanno agito in modo eroico a rischio della propria vita e senza interesse personale per salvare anche un solo ebreo dal genocidio nazista della Shoah. È inoltre una onorificenza conferita dal Memoriale ufficiale di IsraeleYad Vashem fin dal 1962, a tutti i non ebrei riconosciuti come "Giusti".
Elenco delle persone ricordate nel Giardino dei Giusti di Limena
2010           Giorgio PERLASCA
2011           Carlo ANGELA
2012           Giovanni PATALUCCI
2013           Odoardo FOCHERINI
2014           Gino BARTALI
2015           Adele ZARA
2016           Clelia CALIGIURI
2017           Umberto ADAMOLI-Ercole DI BARTOLOMEO
2018           Alessandro WIEL-Brunetta LUISA
Un nome, una pianta
Il Giardino dei Giusti celebra ciascun Giusto con una targa commemorativa e con una pianta, proprio perché l'idea di piantare un albero, e quindi il concetto di generare una vita, riprende quella di aver dato la possibilità a un uomo di salvarsi, di poter vivere, di poter testimoniare il bene ricevuto davanti alle successive generazioni.
Una canzone
La canzone ebraica, cantata dai ragazzi della scuola di Limena durante la cerimonia del Giorno della Memoria

Gam-Gam-Gam Ki Elekh
Be-Beghe Tzalmavet
Lo-Lo-Lo Ira Ra
Ki Atta Immadì (2v.)
Šivtekhà umišantekhà
Hema-Hema yenahmuni (2v.)






Testo ebraico:
גַּם כִּי-אֵלֵךְ
בְּגֵיא צַלְמָוֶת,
לֹא-אִירָא רָע
כִּי-אַתָּה עִמָּדִי
שִׁבְטְךָ וּמִשְׁעַנְתֶּךָ,
הֵמָּה יְנַחֲמֻנִי







Traduzione:
Anche se andassi nella
valle oscura non
temerei nessun male,
perché Tu sei sempre
con me; Perché Tu sei
il mio bastone, il
mio supporto. Con Te io mi sento tranquillo.



martedì 30 ottobre 2018

LIMENA (che non c’è!) La peschiera tombinata di via Roma


LIMENA (che non c’è!)
La peschiera tombinata di via Roma (di fronte alla barchessa)
La supplica di Vincenzo Fini per captare acqua dal Brentella. Il Magistrato sopra i beni incolti e le bonifiche. La villa amministrativa di Limena. Il tombinamento della roggia
Attività di ricerca con ausilio di mappe e foto realizzata a scopo didattico
da Bruno Trevellin

(Peschiera della villa di Piazzola sul Brenta. Quella di Limena doveva essere molto simile)
(Limena, la cosiddetta ‘peschiera’ fino a prima dei lavori in corso oggi)

I limenesi di una certa età chiamano ancora ‘peschiera’ il percorso ciclo-pedonale davanti alle barchesse, che corre parallelo a via Roma (strada provinciale 47) dall’edicola al semaforo. E non senza ragione, perché il percorso, ora asfaltato, è stato ricavato dal tombinamento della roggia[1] fatta costruire da Vincenzo Fini nel 1722. Oggi un ‘nascondimento’ di questo tipo non sarebbe proprio concesso, rientrando le rogge dei centri abitati in quella categoria di beni culturali che un territorio è chiamato invece a tutelare e valorizzare. Ma all’epoca del tombinamento (anni ’60 del secolo scorso) non c’era ancora questa sensibilità e così la roggia, che oggi darebbe un significato diverso e migliore al centro del paese, è finita sotto una colata d’asfalto. Del resto, se pensiamo che a Padova quasi nello stesso periodo si procedeva all’interramento di quella che oggi è Riviera dei Ponti Romani e Riviera Tito Livio, intervento che ha di fatto sepolto sotto la pavimentazione stradale i ponti romani di Porta Altinate e di San Lorenzo, non dobbiamo stupirci più di tanto per un intervento simile anche a Limena.
In ogni caso, tanti limenesi sanno che la peschiera è in realtà una roggia tombinata, dove fino a cinquant’anni fa’ correva l’acqua derivata dal Brentella e dove vivevano pesci.
(Padova, foto Ponte Altinate prima dell’interramento avvenuto nel 1959)
Lavori di tombinamento della ‘peschiera’[2]
Negli anni ’60 dunque si procedette al tombinamento della peschiera e alla realizzazione dell’attuale percorso ciclo-pedonale davanti alle due barchesse. La foto sopra, pubblicata in un libro dello storico Renato Martinello, mostra le macchine operatrici in sosta all’altezza degli attuali pilastri centrali.
La cartolina con la peschiera[3]


La peschiera è ancora ben visibile in una cartolina di Limena, che possiamo far risalire agli anni ’50, che ne mostra il bacino davanti all’oratorio della Beata Vergine del Rosario. L’acqua era incanalata all’interno di due muretti in mattoni sormontati da lastre di trachite, dei quali rimane ancora quello a est, su via Roma. La peschiera nelle ville signorili serviva da ornamento, ma anche per l’allevamento del pesce[4].
La mappa con la supplica di Vincenzo Fini per la ‘peschiera’ di Limena (1722)[5]
La mappa del 1722 mostra il complesso di villa Fini (oggi scomparsa) con il sistema perimetrale di rogge e l’indicazione per la presa dell’acqua dal Brentella che il Fini doveva realizzare tra i due segni uscenti dalle dita della mano indicatrice. L’acqua verrà presa con una ‘ruota stabile’ sistemata sopra sandoli (sandoni)[6] per un quantitativo pari a sei once.


Il particolare della mappa mostra le estremità a monte e a valle dove collocare la ruota per la captazione dell’acqua dal Brentella. Il testo recita: ‘Fra li due sini conottati dalla presente mano dove mellio potrà (…)ire al N. H. M. Vicenzo Fini per supplica intende di poter costruire una ruotta stabile overo sopra sandoni per poter estrare once N. 6 di acqua con la medesma dalla Brentea per servirsene per l’uso domestico et di peschiera suplicato’.
Testo della supplica:
‘Disegno formato da me Antonio Gornizai, perito ordinario del Magistrato Eccellentissimo dei Beni Inculti, sopra la supplica presentata in esso Eccellentissimo Magistrato li 26 Novembre 1722 per parte e nome del Nobile Homo Messer Vincenzo Fini, Procuratore di San Marco, nel quale resta delineato l’uso domestico et di peschiera per la sua casa domenicale situatta nella villa di Limena, teritorio Padovano; il quale intende di restar investito di oncie numero 6 di acqua della Brenta per dover quella condurre, trare et scolare in conformità dell’anottazioni et linee rosse che nel presente si contengono. Ho havuto per collega domino Domenico Garzoni, perito straordinario. Terminato in Venetia, li 17 Decembre 1722’.
In pratica il nobile Fini chiede al Magistrato sopra i Beni Incolti di poter trarre sei once d’acqua da incanalare dentro le rogge poste a perimetro della sua villa padronale[7].
Il Magistrato dei Beni Incolti si occupava proprio della concessione di acqua per campi e giardini[8].
(La supplica mostra che la strada principale, oggi provinciale 47, aveva la roggia sia a destra che a sinistra, come nella villa di Piazzola sul Brenta)
Come le rogge di Piazzola sul Brenta
Le foto sottostanti mostrano la valenza monumentale e paesaggistica delle rogge davanti alla villa di Piazzola sul Brenta. La conservazione di quella limenese ci avrebbe lasciato forse qualcosa di simile.


La corsa alla terra e le bonifiche nel Veneto del ‘500
Nel ‘500 il Veneto cambiò volto. Il patriziato veneziano investì fortemente in terraferma, dando avvio all'esaltante ‘stagione non solo dell'acquisto della campagna, ma anche della sua valorizzazione (…). Dunque le bonifiche e la "civiltà della villa", le grandi barchesse, l'investimento del capitale. Alvise Cornaro ma anche Palladio, economia e cultura, dove il secondo termine della diade legittima e completa il primo, a coronamento di un'operazione voluta, pianificata, realizzata anzitutto dallo Stato che, a quanto pare, per l'occasione seppe fondere consenso sociale ed efficienza organizzativa’[9].
Quando Limena era una ‘villa’. Il particolarismo veneziano in terraferma
Nella supplica si fa riferimento al palazzo dei Fini che si trova nella ‘villa’ di Limena. Con tale termine, villa appunto (da non confondere con l’edificio), dobbiamo intendere l’entità territoriale con compiti di autogoverno, amministrata da assemblee di capi famiglia.
‘Lo Stato di Terraferma era anzitutto uno spazio politico, composito, giurisdizionale, frammentato e suddiviso in centinaia d’insediamenti che esprimevano modi assai diversi d’intendere il governo, o i governi del territorio e del suo ambiente circostante. Si passava, infatti, dalle piccole entità territoriali (villaggi o ville) amministrate da assemblee di capi famiglia – le comunità di villaggio: communi, Regole, vicinie -, sino alle grandi città rette da consigli formati da oligarchie aristocratiche’.
‘Ognuna di queste organizzazioni sociali della Terraferma era gelosissima delle proprie prerogative territoriali, politiche, fiscali e amministrative in precedenza concessegli. Nel corso della potestà veneziana, i territori si sarebbero sovente richiamati a questi antichi diritti per ottenere un riconoscimento da parte del Principe’.
‘Una volta acquisita, la Terraferma restò suddivisa nelle circoscrizioni consolidate attorno ai centri maggiori - lasciando di fatto inalterati i rapporti di sudditanza città-contado creati nel passato -, laddove la Serenissima inviava regolarmente i propri Officiali (Rettori) a gestire, unitamente a una corte, il buon governo attraverso la conservazione dell’ordine politico, sociale, giuridico, economico e fiscale’[10]
Terminologia specifica
Barchessa, Bonifica, Magistrato per i beni incolti, Peschiera, Roggia, Sandoli, Supplica, Villa



[1] ròggia (o róggia) s. f. [lat. *rugia, di origine preromana] (pl. -ge). – Nome con cui sono chiamati nell’Italia settentr. (spec. nella sua parte occidentale) i canali artificiali di non grande portata costruiti per dare acqua ai mulini, a piccole centrali elettriche, e per l’irrigazione. In: http://www.treccani.it/vocabolario/roggia/
[2] Foto pubblicata in RENATO MARTINELLO, Limena 1866-1970, Storie di uomini, uomini nella storia, Limena, 1992, p. 172
[3] La cartolina in oggetto è stata messa in vendita online.
[4] peschièra s. f. [variante settentr. di pescaia]. – 1. a. Bacino dove si tengono o si allevano pesci marini o d’acqua dolce: per lo più in muratura, scavato nel terreno e alimentato da acqua corrente; era già in uso presso i Romani, e continuò a esserlo più tardi nelle ville signorili, servendo sia per l’allevamento dei pesci sia per ornamento (in: http://www.treccani.it/vocabolario/peschiera/). 

[5] La mappa in questione è pubblicata in GIORGIO GALEAZZO-RENATO MARTINELLO, La barchessa Fini, Il recupero di una testimonianza di architettura e di storia, Limena, 2004, p. 33
[6] Per il tipo di imbarcazione chiamata sandolo si veda: https://venicewiki.org/wiki/Imbarcazioni_tipiche_della_laguna
[7] La diffusione delle ville nello stato da terra della Serenissima ebbe inizio proprio dopo la crisi cambraica, con l’avvio della riconversione del patriziato da ceto mercantile ad aristocrazia terriera: il governo mirava ad arginare la fuoriuscita annua di moneta pregiata necessaria per l’acquisto di grano all’estero (in: http://www.progetti.iisleviponti.it/Le_forme_dei_numeri/html/magistrato.html)
[8] Alvise Cornaro, studioso di idraulica e imprenditore agricolo, nel 1541 inviò al doge una lettera nella quale sosteneva che spettasse alla Signoria e non ai privati l’esecuzione dei lavori di bonifica. Divenne così l’ideatore del Magistrato dei Beni inculti che si occupava delle concessioni di acqua per l’irrigazione dei campi e dei giardini, e della bonifica dei terreni. Nel 1545 il Governo spedì dei periti a visitare tutti i territori e dopo nove anni di diligente esame il Senato nominò tre Provveditori che avevano il compito di sorvegliare e coordinare gli sforzi dei privati consigliandoli con elementi tecnici. A questi l’interessato doveva presentare una supplica, accompagnata da uno schizzo del terreno, spiegando quanta acqua voleva e per quali scopi. Venivano quindi mandati sul posto dei periti per redigere una mappa dettagliata e stendere una relazione, procedura simile ai moderni permessi edilizi. Questo permetteva di mediare gli interessi di tutti e di creare un enorme archivio di mappe, tuttora conservato. Le opere di irrigazione e di bonifica comportavano costi onerosi, ma le licenze concesse promettevano benefici enormi ed erano quindi fondi di rendita per lo Stato. Esenzioni fiscali, sovvenzioni, incoraggiamenti di ogni genere andarono ad incrementare sempre più quel movimento di “educazione” della terraferma: si crearono tanti consorzi quanti erano i fiumi da controllare. Con un sistema di saracinesche e di argini, l’acqua cominciò a seguire il corso voluto dall’uomo: le paludi vennero prosciugate, i territori aridi furono riforniti dell’acqua necessaria per ottenere raccolti costanti. Edifici stupendi come regge, collocati al centro di vasti poderi, sorsero accanto ai fiumi ricondotti su alvei sopraelevati, vicino ai porti fluviali o al centro di vaste radure strappate alle paludi. Grazie a questa politica unitaria, che durò fino alla caduta, la Serenissima rese possibile la fioritura delle ville che permise al Palladio di operare in tutte le province venete (in: http://www.progetti.iisleviponti.it/Le_forme_dei_numeri/html/magistrato.html). 

«[...] Dopo un primo tentativo nel 1541 [...], fallito per l'opposizione del magistrato alle acque, provveditori "sopra li luochi inculti", con prevalente funzione di informazione e di studio, furono istituiti nel 1545 [...] ed ancora nel 1549 [...]. In forma definitiva i provveditori sopra beni inculti ebbero origine nel 1556 [...]. Essi erano competenti in materia di bonifica e di irrigazione [...]. Dal 1768 [...] vennero eletti al loro interno due deputati all'agricoltura, con incarico di studiare perfezionamenti tecnici per migliorare la produzione sia agricola che di carne bovina, in armonia con il progresso scientifico, e di stimolare le accademie agrarie che sorgevano in ogni città in risposta all'invito del senato [...]. Nel 1780 i provveditori furono integrati da un aggiunto per il retratto (bonifica) delle Valli Veronesi, che operava di concerto con i Provveditori all'Adige ed era interessato anche a questioni confinarie con Mantova [...] (Guida generale, IV, p. 962) «I Provveditori ai Beni Inculti furono istituiti dal Senato nel 1566, per sopravegliare alle bonifiche e alle culture che si erano rese necessarie nel territorio della Repubblica. [...] Fu a questi nuovi officiali affidata la sorveglianza sulle bonifiche in corso, il promuovere consorzi a tale scopo e dare parere sui progetti dei tecnici [...]. Accanto a questi officiali vi era un Deputato all'Agricoltura con l'incarico di dare opportuni consigli tecnici» (Da Mosto, I, p. 168). (In: http://www.archiviodistatovenezia.it/siasve/cgi-bin/pagina.pl?Tipo=ente&Chiave=301)
[9]GIUSEPPE CULLINO, Quando il mercante costruì la villa, in: http://www.treccani.it/enciclopedia/dal-rinascimento-al-barocco-venezia-e-il-dominio-da-terra-e-da-mar-quando-il-mercante-costrui-la-villa-le-proprieta-dei-v_%28Storia-di-Venezia%29/
[10] ROBERTO BRAGAGGIA, Tra leggi et privileggi, p. 3-4, in: http://diritto.regione.veneto.it/?p=35