martedì 25 dicembre 2018

Limena, il simbolismo della Natività nell’oratorio della B. V. del Rosario. Pastori, pellegrini, angeli e animali alla greppia di Betlemme


Limena, il simbolismo della Natività nell’oratorio della B. V. del Rosario. Pastori, pellegrini, angeli e animali alla greppia di Betlemme
di Bruno Trevellin

(Limena, Oratorio della B. V. del Rosario, predella dell'altare, Natività (sec. XVII) 


La predella dell’altare nell’oratorio della Beata Vergine del Rosario di Limena è un pregevole bassorilievo marmoreo di autore anonimo del XVII secolo. In un’atmosfera di solenne stupore troviamo rappresentata la Natività di Gesù Cristo a Betlemme. Proprio perché l’oratorio è intitolato alla Vergine, la cui statua marmorea domina alta sull’altare, la base dello stesso non poteva che essere la sua natività, quasi a sottolineare la verità del parto verginale di Maria[1].

La scena centrale è dominata da un giovane pastore imberbe (gli altri tre hanno tutti la barba, compreso Giuseppe) inginocchiato e scalzo che, a mani giunte, contempla il Bimbo Gesù nella greppia. La lieve veste sembra solo velare la giovane e forte muscolatura. A tracolla tiene una bisaccia che pare contenga solo poche cose essenziali, come dovrebbe essere per la vita di ciascun credente. L’umiltà che caratterizza la sua vita, e che gli consente di accogliere da subito l’invito degli angeli a recarsi alla grotta, è ben raffigurata dal piede scalzo e dal ginocchio sicuro che aderiscono al terreno. È lui, infatti, un giovane pastore, il primo uditore e testimone della Parola.

Maria sostiene il figlio seduto sulla paglia, avvolto da fasce che gli coprono solo il bacino e le gambe e sembra offrirlo ai nuovi arrivati. Le fasce sono infatti segno di un’incarnazione verace, non illusoria e le fasce in cui Maria avvolge il Bambino “provano che Dio ha «vestito» (per cosi dire) la condizione umana in maniera non fittizia, bensì reale”[2]. 

Giuseppe in piedi, alle spalle di Maria, è un uomo preso dallo stupore per l’evento della nascita di quel suo figlio; lo dicono le mani con le dita aperte, una in alto e una sul petto. La sua folta chioma chiude la diagonale che parte dall’agnellino legato a terra, passando per le teste di Gesù e di Maria.

Sopra il pastore, un viandante pellegrino sembra appena giunto. È raffigurato nell’atto di togliersi il cappello a larghe tese (serviva per ripararsi dal sole e dalla pioggia). Altri elementi che lo caratterizzano come pellegrino sono la cappa (mantello per il freddo della notte e per le intemperie), il bastone (chiamato ‘bordone’, utile per appoggiarsi, ma anche per difendersi) e le scarpe robuste (indispensabili per percorrere sentieri spesso accidentati). Anche l’altro personaggio che sta arrivando sulla destra è un pellegrino, con in più, attaccato al bastone, un cesto con dentro omaggi per la sacra famiglia (si riconosce una gallinella, viva, simbolo di fertilità, che non doveva essere proprio per un Gesù appena nato, che nella scena, tra l’altro, sembra un bimbo di quasi un anno).

Ai lati della predella stanno due angeli bambini in piedi. Uno ha la bocca aperta e canta (il Gloria) tenendo in mano uno spartito e uno tutto nudo suona uno strumento ad arco. Sono gli annunciatori della buona novella. Li fiancheggiano altri due angeli che tengono in mano una corona di rose e di altri fiori (l’oratorio è dedicato alla Madonna del Rosario). Le loro ali sono penne e piume che assomigliano molto a fronde di palma. Sappiamo dal vangelo di Giovanni che la palma indica la vittoria di Cristo sulla morte e la sua resurrezione e nell’Apocalisse ricorda il trionfo dei martiri. Tutti e quattro gli angeli rivolgono lo sguardo al Gesù Bambino.

Ai piedi della greppia, vicino alle ginocchia del giovane pastore, è poggiato un mansueto agnellino con le gambe legate, che il Bambin Gesù e sua madre sembrano guardare con inquietudine. L’agnello legato nel presepe non è altro che una prefigurazione del sacrificio finale di Cristo, vittima innocente per la salvezza dell’umanità. Nello stesso tempo agnello e pastore sono anche metafora di Cristo buon pastore, che lascia le novantanove pecore per cercare tra i dirupi quella smarrita.

Nella scena centrale troviamo il bue e l’asino, calmi e buoni, ad alitare sulla la testa di Gesù. Nelle rappresentazioni medioevali i due animali hanno volti quasi umani e infatti anche nella nostra predella li notiamo con ciuffi di capelli simili a quelli degli altri protagonisti. Sul significato della loro presenza nel presepe facciamo nostra la lezione di papa Ratzinger.
“Il bue e l’asino del presepe non sono semplici prodotti della pietà e della fantasia, ma sono diventati ingredienti dell’evento natalizio a motivo della fede della Chiesa nell’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento. In Isaia leggiamo: ‘il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende’.
I padri della Chiesa videro in queste parole una profezia che fa riferimento al nuovo popolo di Dio, alla Chiesa composta di giudei e pagani. Davanti a Dio tutti gli uomini, giudei e pagani, erano come buoi ed asini, privi di intelligenza e conoscenza. Ma il Bambino nella mangiatoia ha aperto loro gli occhi, cosicché ora essi riconoscono la voce del proprietario, la voce del loro Signore.
Ciò era perfettamente logico, perché essi avevano il valore di segno profetico dietro cui si nasconde il mistero della Chiesa, il nostro mistero, secondo il quale noi che di fronte all’eterno siamo buoi e asini, buoi e asini cui nella Notte Santa sono stati aperti gli occhi, si chè ora riconoscono nella mangiatoia il loro Signore”[3].

Sulla destra in basso lo scultore ha collocato un tronco d’albero con delle foglie alla base. Anche questo ci sembra un richiamo cristologico al tronco di Jesse del profeta Isaia. “Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici”[4]Starebbe a testimoniare la discendenza davidica del Salvatore (Davide è il più piccolo dei figli di Jesse e prima di diventare re d’Israele faceva il pastore) e la sua regalità.

Non mancano in basso a sinistra alcune pietre di una casa già in costruzione, la Chiesa. Quella in alto è solo appoggiata, non è ancora ben sistemata. Aspetta la mano di qualcuno che continui l’opera iniziata con l’incarnazione del Redentore del mondo.


Un ultimo particolare, che però non può passare inosservato: il velo sul capo di Maria lievemente mosso da un vento. È l’unica in questa Natività su cui sembra soffiare una brezza proveniente non si comprende se da oriente o da sud, in ogni caso solo su di lei, proprio perché “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,7-8)”. Se consideriamo che lei è la ‘piena di grazia’ sulla quale è intervenuto lo Spirito di Dio (e il vento nel Nuovo Testamento è simbolo dell’azione dello Spirito Santo), troviamo spiegato quel suo velo sollevato che ci mostra intero il volto della Madre di Dio.


[1] Il dogma della verginità perpetua di Maria venne definito dal secondo concilio di Costantinopoli (553). Per un approfondimento sullo stesso di veda http://www.latheotokos.it/modules.php?name=news&file=article&sid=190
[2] (in: http://www.latheotokos.it/modules.php?name=News&file=print&sid=976).

[3] Joseph Ratzinger, “Immagini di speranza: Le feste cristiane in compagnia del Papa

[4] Isaia, 11.1