domenica 27 ottobre 2019

BRUNO TREVELLIN, L’essenza del padre di famiglia in Peguy: avventuriero, ostaggio e mistico


BRUNO TREVELLIN, L’essenza del padre di famiglia in Peguy: avventuriero, ostaggio e mistico


In Véronique, Dialogo della storia e dell’anima carnale Charles Péguy (1873-1914), autore tra i più amati anche da Albino Luciani (papa Giovanni Paolo I), che lo definisce ‘cantore della speranza’, si spinge a delle considerazioni sulla vita del padre di famiglia che solo a prima vista possono sembrare audaci e sorprendenti, quando in realtà non fanno che confermare l’essenza di un ruolo che né gli intellettuali né i chierici del suo (e del nostro) tempo riusciranno a cogliere.
In Veronique (opera iniziata nel 1909, ma mai portata a termine dall’autore) è la storia, Clio, che parla, la “storia che arriva sempre in ritardo”, che sta sempre alla ricerca di “vane tracce”, limitandosi Veronique, la Veronica della salita di Gesù al Calvario, ad ascoltare, lei “un’ebrea da niente, una ragazzina”, che però si è trovata al momento giusto e nel punto giusto a raccogliere col suo fazzoletto la traccia dell’evento più importante nella storia dell’umanità. E questo suo ragionamento Peguy lo fa a partire dai trent’anni di vita passati da Gesù in famiglia, anni di cui i vangeli non parlano, ma che è “la vita più coinvolta nel mondo che al mondo ci sia” e che solo per un errore stupido e grossolano si può ritenere “ritirata dal mondo”. È esattamente il contrario, dice Peguy, che evidentemente parla per esperienza diretta. È la vita di famiglia a essere la più coinvolta nel mondo, anzi

 “c’è un solo  avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo moder­no: è il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventu­rieri non sono nulla, non lo sono per niente al suo confronto. Non corrono assolutamente alcun perico­lo, al suo confronto”.

Nel mondo moderno tutto sembra organizzato contro di lui, che risulta disprezzato per la sua stoltezza, per la sua imprudenza, per l’audacia che ha avuto nel mettere su famiglia, avendo moglie e figli, ma che proprio per questo è un avventuriero, l’unico vero avventuriero in questo mondo, l’unico che attraversa un’avventura. Gli altri, quelli che non sono padri, soffrono infatti solo per se stessi, mentre lui invece soffre per altri, dei quali è responsabile. La moglie e i figli diventano i suoi ostaggi. Mentre gli altri “possono infischiarsene” di ciò che accade nel mondo, lui, il padre di famiglia, è invece costantemente coinvolto nel mondo e non può scantonare.

“Capo e padre di ostaggi, anche lui stesso è sempre ostaggio”.

Può infatti accadere di tutto: guerre, rivoluzioni, guerre civili, guerre straniere e gli altri non rischierebbero che la loro testa. Lui no, perché lui

“è il luogo d’appuntamento di tutte le tempeste”.

E vi è coinvolto non solo per il presente e per il futuro, ma
“anche in tutto il passato, nella memoria, in tutta la storia (…). Niente di quello che succede, niente di storico è per lui indifferente. Soffre di tutto. Soffre dappertutto (…). Chi non ha mai avuto un bambino malato non sa cosa sia la malattia. Chi non ha perso un bambino, che non ha avuto, che non ha visto morto il suo bambino, non sa cosa sia il dolore. E non sa cosa sia la morte”.

E il suo è un destino di sconfitta, è condannato a non riuscire. Il peso della famiglia lo rende inadatto alla corsa. E Peguy non usa mezzi termini per quest’uomo. Un padre di famiglia è grosso, ha come un tessuto adiposo che lo ostacola in un mondo, quello moderno, che è solo “concorso e concorrenza”. Così gli altri corrono e arrivano, lui invece no. E tutti lo disprezzano. In primis i chierici, essendo lui, il padre di famiglia, così coinvolto nel mondo da risultare il più lontano dalla regola, dalla clericatura, al punto che un istinto segreto avverte il chierico che quello là, il padre di famiglia, è il più vicino al pubblico peccatore.
Contrariamente a quello che si pensa, non è il celibe a essere un avventuriero, ma il padre di famiglia,

“colui che vive non solo alcune avventure, ma una sola, una grande, un’immensa, una totale avventura; l’avventura più terribile, la più costantemente tragica; la cui vita stessa è un’avventura”.

Questo fa di lui il vero avventuriero, caratteristica che non potrà mai essere, appunto, propria del celibe.
È proprio questa vita di famiglia che Gesù ha prediletto, vivendola per trent’anni, da uomo ordinario, gli altri tre essendo tutta un’altra cosa.

“Durante quei trent’anni era un uomo privato, come tutti noi, un semplice singolo, viveva la vita di famiglia; (…). Lavorava con le sue mani nella casa di suo padre. Sappiamo con certezza che era un buon lavoratore. Falegname, lavorava come falegname nella casa di suo padre falegname”.

Gesù, cioè, ha scelto una vita che fosse la più coinvolta nel secolo. Anzi, continua Peguy nella sua riflessione, anche gli ultimi tre anni non sono stati affatto un ritirarsi dal mondo, ma “un potente, infinito muoversi verso il secolo”, in quelli che furono veramente anni impegnati nella storia, “anni mistici, storicamente mistici”, nei quali realizza la fondazione di una “città mistica, nel secolo, lavorando il secolo per l’eternità”. Era questa la mistica di Gesù: “nessuna separazione tra secolo e regola”, ma una penetrazione continua, intima, un’infusione “che raggiunge, tinge, penetra fino in fondo i tessuti stessi” della carne in modo capillare. In quei tre anni fluì

“una sorgente mistica infinita, eterna, una sorgente di vita, che si vivifica da sé, una sorgente di grazia infinita. (…) Chi potrà raccontarti, amico mio, chi ti ridarà i tre anni di quella storia; durante tre anni storici. (…) I tre anni della storia più grande. Qui io, la storia, sono proprio insufficiente, lo sai. È troppo per me. (…) Tutto quello che posso fare io , lo sai, è registrare qualche risultato. Quando sono bell’e fatti, (…) belli incorniciati, -bell’e morti”.     

Il testo di CHARLES PEGUY e un saggio di ALAIN FINKIELKRAUT

Da C. Peguy, Veronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale, p. 65-72, Marietti, 2013

Tutto nel mondo moderno, e so­prattutto il disprezzo, è organizzato contro lo stolto, contro l’imprudente, contro il temerario,
Chi sarà tanto prode, o tanto temerario?
Contro lo sregolato, contro l’audace, contro l’uomo che ha tale audacia, avere moglie e bambini, contro l’uomo che osa fondare una famiglia. Tutto è contro di lui. Tutto è sapientemente organizzato contro di lui. Tutto si rivolta e congiura contro di lui. Gli uomini, i fatti; l’accadere, la società; tutto il congegno automatico delle leggi economiche. E infine il resto. Tutto è contro il capo famiglia, contro il padre di famiglia; e di conse­guenza contro la famiglia stessa, contro la vita di fami­glia. Solo lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura. Perché gli altri, al maximum, vi sono coinvolti solo con la testa, che non è niente. Lui invece ci è coinvolto con tutte le sue membra. Gli altri, al maximum, si giocano solo la loro testa, il che non è niente. Lui invece mette in gioco tutte le membra. Gli altri soffrono solo per se stessi. Ipsi. Al primo grado. Lui solo soffre per altri. Alii patitur. Al secondo, al ven­tesimo grado. Fa soffrire altri, ne è responsabile. Lui solo ha degli ostaggi, la moglie, il bambino, e la malattia e la morte possono colpirlo in tutte le sue membra. Gli altri navigano a secco di vele. Lui solo, qualunque sia la forza del vento, è obbligato a navigare a piene vele. Tutti hanno vantaggio su di lui e lui non ha vantaggio su nes­suno. Si muove continuamente con i suoi ostaggi, in lungo e in largo tra quei terribili fortunali. Le cose che accadono, i guai, la malattia, la morte, tutto ciò che accade, tutti i guai hanno vantaggio su di lui, sempre; è sempre esposto a tutto, in pieno, di fronte, perché navi­ga su una larghezza immensa. Gli altri scantonano. So­no corsari. Sono a secco di vele.
Ma lui, che naviga, che è obbligato a governare la nave su questa rotta immen­samente larga, lui solo non può assolutamente passare senza che la fatalità si accorga di lui. E allora è lui che è coin­volto nel mondo, e lui solo. Tutti gli altri possono infi­schiarsene. Lui solo paga per tutti. Capo e padre di ostaggi, anche lui stesso è sempre ostaggio. Che impor­ta agli altri di guerre e rivoluzioni, guerre civili e guer­re straniere, l’avvenire di una società, ciò che accade alla città, la decadenza di tutto un popolo. Non rischia­no mai altro che la testa. Niente, meno di niente. Lui invece non solo è coinvolto dappertutto nella città pre­sente. Dalla famiglia, dalla sua razza, dalla sua discen­denza da quei bambini è coinvolto dappertutto nella città futura, nello sviluppo ulteriore, in tutto il tempo­rale accadere della città. Si gioca la razza, si gioca il popolo, si gioca la società, mette come posta la società. Si gioca (tutta) la città, presente, passata, a venire. Tale è la sua posta in gioco. Gli altri scantonano sempre. Sono carene leggere, sotti­li come lame di coltello. Lui è la nave grossa, pesante bastimento da carico. È il luogo d’appuntamento di tutte le tempeste. Tutti i venti del cielo congiurano e si mettono d’accordo, si abbattono da tutti gli angoli del cielo, accorrono e si intersecano da tutti i punti del­l’orizzonte per assalirlo. Lui scopre alla sorte, alla for­tuna, alla sfortuna che vigila, alla fatalità una larghezza (di spalle) (su cui abbattersi), una superficie, un vo­lume incredibile. Non è coinvolto solo nella cit­tà presente.
È coinvolto dappertutto nell’avvenire del mondo. E anche in tutto il passato, nella memoria, in tutta la storia. È assalito dagli scrupoli, straziato dai rimorsi, a priori, (di sapere) in che città di domani, in quale ulteriore società, in quale dissoluzione di tutta una società, in quale miserabile città, in quale deca­denza, in quale decadenza di tutto un popolo lasceran­no, consegneranno, domani, stanno per lasciare, entro qualche anno, il giorno della morte, quei bambini di cui i padri  si sentono così pienamente, così assoluta­mente responsabili, di cui sono temporalmente i pieni autori. Quindi per loro nulla è indifferente. Niente di quello che succede, niente di storico è per loro indiffe­rente. Soffrono di tutto. Soffrono dappertutto. Solo loro hanno esaurito la sofferenza temporale, tutto il dolore di chi vive nel tempo. Chi non ha mai avuto un bam­bino malato non sa cosa sia la malattia. Chi non ha perso un bambino, chi non ha visto morto il suo bambino non sa cosa sia il dolore. E non sa cosa sia la morte. E, coinvolti da ogni parte nelle sof­ferenze, nelle miserie, in tutte le responsabilità, sono tutti  ingolfati nell’esistenza, sono pesanti e impacciati, sono goffi, impediti nelle manovre; sembrano deboli e vili; non solo lo sembrano; sono deboli, sono vili, sono codardi. Nella manovra. Capi responsabili e appesanti­ti, carichi e responsabili di una banda di prigionieri, prigionieri essi stessi, carichi, responsabili di una banda di ostaggi, ostaggi essi stessi, non fanno un passo che non sia vigliacco, sembrano, sono circospetti, sono prudenti, non fanno una mossa che non sia sconcertante. E tutti li disprez­zano e, quel che è peggio, hanno ragione a disprezzarli. Gli altri scantonano sempre. Non hanno bagagli. Vili, scantonano con districamenti politici. Coraggiosi scan­tonano con districamenti eroici, con districamenti d’au­dacia. Temporali, scantonano verso la carriera e le domi­nazioni temporali. Spirituali, scantonano, si defilano verso le osservanze della regola. Storici, scantonano verso le carriere della gloria. Riescono sempre, sia nella regola, sia nel secolo.
II padre di famiglia è solo, e condannato a non riuscire affatto. Non può mai scanto­nare. Deve sempre passare in tutta la sua larghezza. Ed è molto semplice, non ci passa. Non ci passa mai. Non passa da nessuna parte. Non riesce né nella regola né nel secolo. Non riesce nella regola, la regola si oppone. Prima di cominciare. Non riesce nel secolo. Il secolo si oppone prima, durante, dopo. Non riesce nella poli­tica e non riesce nell’audacia. È troppo grosso. Ha tutta la famiglia attorno al corpo. È come la donnola di La Fontaine, ma dopo che è ingrassata. Ha socialmente un grasso, un tessuto adiposo sociale, che lo rende inadatto alla corsa. Ora, temporalmente tutto non è altro che corsa, non è altro che concorso e con­correnza. Gli altri corrono, intanto, gli altri arrivano, quelli magri, fini, sottili, socialmente scarichi, sgombri di bagagli. Così tutti lo disprezzano; in sua presenza, tra di loro, lo schermi­scono; sordamente, involontariamente congiurano con­tro di lui. Più di tutti gli altri, lo disprezzano i preti. Perché hanno questo (di bello), quando si accaniscono su qualcuno, ci si riaccaniscono di preferenza. Prefe­renzialmente. E quello che chiamano la carità.
Bisogna sottolineare attentamente che la vita di famiglia è la vita più impegnata nel secolo, la vita meno conforme, la meno simpatica, la meno affine alla regola. Vuol dire lasciarsi prendere, lasciarsi ab­bindolare dalle apparenze più grossolane, commettere l’errore più smaccato, e anche naturalmente il più co­mune, l’errore più frequente, quello di dire che la vita pubblica è vivace, e la vita di famiglia è silen­ziosa, e la regola, la vita regolare è anche lei silenziosa; e quindi la vita pubblica è non ritirata, e la vita di fa­miglia è ritirata, e la regola, la vita regolare è anche lei ritirata; e concluderne, credere, che sia la vita di famiglia che è vicina alla vita di regola, apparentata alla vita di regola, e che sia la vita pubblica che se ne è allontanata. Questo è lasciarsi prendere dalle più grossolane apparenze. È diame­tralmente il contrario.
La vita di famiglia è agli antipodi della vita della regola. Nessun uomo al mondo è coin­volto nel mondo, nella storia e nel destino del mon­do quanto l’uomo di famiglia, tanto quanto il padre di famiglia, così pienamente, così carnalmente. L’uomo pubblico invece, il vir politicus, non è affatto coinvolto nel mondo, non è affatto coinvolto nella storia e nel destino del mondo. Cosa importa all’uomo politico, al demagogo, al tribuno, all’oratore, al legislatore, all’eloquente, anche all’uomo politico serio, all’uomo pubblico, all’uomo di Stato, all’uomo di governo, (e a maggior ragione) al capo di partito (come tali), cosa importa al militare e al giudice, al generale e al presidente di corte e al presidente di camera, (come tali, come tali), che importa come tali al funzionario e al magistrato, al generale, al deputato, al senatore, al giornalista, al pubblici­sta, all’esattore, e all’usciere del ministero, cosa importa al signor sindaco; cosa importa come tale a ogni uomo pubbli­co delle sorti della città presente, le sorti ulteriori, la destinazione e il destino; cosa gli importa di cosa sarà di questo popolo, cosa faremo di questo popolo; vi sono coinvolti solo con la testa e qualcuno con la gloria; al massimo con l’onore, quando ne hanno: niente, meno di niente. Non ci rischiano che la testa, al più, al maximum; al meno, di solito l’avanzamento, la carriera, al più del meno l’apice; miserie. Gloria tem­porale, onore temporale; niente, meno di niente. Avan­zamento temporale, carriera temporale, apice temporale, testa temporale; miserie. E le gioie e le miserie del dominio. E le gioie e le miserie del denaro. Ecco tutto quello che si giocano. Come tali. Se intanto, se insieme sono padri di famiglia, cosa estremamente rara, l’ope­razione è tutta diversa, il comportamento e l’azione pubblica è tutta diversa, tutta diversa la situazione anche per così dire topografica, geografica, demogra­fica. Cosa importa loro, come tali, una rivoluzione, una guerra civile o straniera, un sabotaggio di tutto un po­polo. Una diminuzione, una decrescita; una perdita, forse irrimediabile; una decadenza, forse irreparabile, irrevocabile. Tutt’al più si giocano, nel temporale, una gloria del loro nome, la gloria, ulteriore, l’onore o il discredito sul loro nome. Di solito questo tipo di con­siderazione li lascia abbastanza freddi. Sono abba­stanza poco sensibili a considerazioni di questo tipo. Di solito.
Solo il padre di famiglia mette in gioco, rischia, impegna infinitamente di più nella destinazione del mondo, nel secolo, nella destinazione di tutto un popolo; nel futuro di una razza. Nel destino di tutto questo popolo, nell’avvenire di questa razza impegna tutto, mette tutto, la sua carne e di più; si gioca la razza, si gioca davvero il popolo, si gioca la sua discendenza. II solo padre di famiglia, il padre di famiglia da solo. Ed è un pover’uomo. Tormentato da scrupoli, assalito, invaso, tormentato da rimorsi, per crimini che non ha affatto commesso, che non commetterà mai, che altri mille, che tutti gli altri commetteranno, sente oscura­mente, molto profondamente, che è lui, in effetti, che è lui davvero il responsabile. Perché è padre di famiglia. È uno dei casi più significativi che ci siano di responsa­bilità senza colpa, di colpevolezza senza colpa. Eppure di responsabilità reale, di colpevolezza reale; comune; misteriosa; di fatalità, anche; infinitamente più profonda; segreta; in comunità, in comunione; con la crea­zione con (tutto) il mondo; infinitamente più grave delle nostre proprie responsabilità, personali, particola­ri, limitate, note, individuali e collettive; infinitamente più profonda; infinitamente più vicina alla creazione stessa; e quasi (oscuramente ce ne accorgiamo), quasi infinitamente più giusta, attinente alla creazio­ne stessa, al mistero, al segreto della creazione; una col­pevolezza, allora, infinitamente più seria delle nostre colpevolezze propriamente criminali.
Per il padre di famiglia (questo è lo stato, costante, uno stato situazionale; è la sua stessa patente, la sua condizione ab urbe condita, una volta fondata la famiglia. È la sua stessa definizione, il pane di tutti i (suoi) giorni, il cruccio delle sue notti. È il midol­lo, stesso, della sua vita, il segreto della sua esistenza, la sua regola interiore, la sua regola esteriore, la regola del suo secolo, la sua regola di secolo. Ed è un pover’uomo; innocente criminale; innocente responsabile; innocente colpevole; innocente assalito da scrupoli; innocente tormentato dai rimorsi; legato, incatenato da ogni parte, mani, piedi, da tutti i lacci, da tutte le catene, è lui, amico mio, è lui, e lui solo, che ha le relazioni peri­colose; confuso, prigioniero, ostaggio, manette alle ma­ni, ganasce ai piedi, capo, responsabile dei prigionieri, capo, responsabile degli ostaggi, fa pena, è esposto a tutto, ai quodlibet, alle ingiurie, al peggio di tutto: a una sorta di riprovazione, di malevolenza universale, di presa in giro, di tacita ingiuria, (peggiore, infinitamen­te più grave di quella formale), perché se è così tacita, se può essere così sottintesa, come se andasse da sé, per così dire; non vale la pena di parlarne, perché tutti lo sanno bene; è una cosa intesa, senza che ci si pensi, una cosa alla quale tutti consentono, a cui tutti danno la mano. È infinitamente peggio di una cosa infinitamen­te concertata, che una cosa universalmente concertata. È una cosa universalmente non concertata. Così è infi­nitamente meno demolibile. Una cosa che va da sé. Che si sappia. Allora tutti ci calpestano sopra.
Allora, rin­galluzzito, anche il prete ci calpesta sopra. Clericus. Il sacerdote se ne accorge bene, un istinto di casta lo av­verte, uno degli avvertimenti, uno degli istinti più si­curi, uno degli istinti più infallibili, un segreto orgo­glio infallibile lo avverte che è lui il nemico, il più lontano, il più straniero, che l’uomo di famiglia, che il padre di famiglia è l’uomo più lontano dalla regola e dalla clericatura, l’uomo del mondo più coinvolto nel mondo, un istinto segreto lo avverte che lui è infinita­mente più vicino al pubblico peccatore; e reciproca­mente; che il tribuno, l’oratore, l’eloquente, l’uomo della tribuna è infinitamente più vicino all’uomo del pulpito, infinitamente più imparentato all’uomo del pulpito, che l’uomo del meeting, della pubblica riunio­ne è infinitamente più vicino all’uomo della predica e all’uomo del sermone; più pronto, per l’uno e per l’al­tro, sia per diventarlo, sia per subirne l’effetto, sia insie­me l’uno e l’altro, che sono dello stesso genere, che si passa comodamente e quasi continuamente dall’uno all’altro, che c’è tra loro un’intesa, interna, un accordo segreto, una somiglianza, almeno di modo, e in più che appartengono allo stesso mondo; e per la regola che il celibe, l’uomo libero, il non prigioniero, il non ostag­gio, lo slegato, il non legato, l’inlegato, il mai legato, lo scantonatore, il pié leggero, il corridore, il bombarolo, il festaiolo, l’uomo all’erta è infinitamente più vicino; e più pronto, più disponibile; che lui piace di più; che con lui ci si capirà meglio, ci si intenderà sempre. E poi è lui che è un personaggio gradevole. Il padre di fami­glia è un povero essere. Tirar su solo tre bambini, pensa un po’. Che grottesco, che ridicolo. Tutte le forze della società sono congiurate, si congiurano contro una cosa del genere. Ora, il sacerdote è una forza della società, fa parte delle forze della società. Allora tutti calpestano il padre di famiglia. Allora il sacerdote, ardi­to, lo calpesta. Non ha che indulgenza, e che indulgenze, per tutti gli altri. Si crede di solito che il celibe, l’uomo senza famiglia è un uomo di fortuna(e), un avven­turiero, che vive di avventure.
Invece è l’uomo di fami­glia che è un avventuriero, che vive non solo alcune avventure, ma una sola, una grande, un’immensa, una totale avventura; l’avventura più terribile, la più costan­temente tragica; la cui vita stessa è un’avventura, il tes­suto stesso della vita, la trama e l’ordito, il pane quoti­diano. Ecco l’avventuriero, il vero, il reale avventuriero.

Da ALAIN FINKIELKRAUT, Le mécontemporain. Peguy, lecteur du monde moderne, Gallimard, 1991, p. 34-41, traduzione)

Peguy rimprovera ai cattolici del suo tempo o più precisamente ai chierici, ai “fondatori del potere dell’eterno”, di avere commesso un “errore di mistica” nel disprezzare il temporale e nel trascurare la creazione. Perché un errore di mistica? Perché quella che definisce operazione mistica non è, come si dice comunemente, l’immediatezza del contatto con il cielo, è il fatto, per l’anima, di tenere i piedi sulla terra. Et homo factus est. Gesù non si è ritirato dal mondo, ci è entrato, ci si è avventurato, ha assunto “lealmente e senza inganni” tutti i predicati, tutte le limitazioni della condizione umana. “Gesù stesso è stato carnale, Gesù è stato un martire, un giusto e un santo, non un angelo”. Giocando la regola contro il secolo, destituendo il quaggiù, perpetuando il dualismo metafisico tra la carne e lo spirito, i chierici moderni negano, anzichè meditare, il mistero dell’Incarnazione, vale a dire dell’iscrizione dello spirituale nel carnale. Confondono, tale è il loro controsenso e tale è la loro empietà, il più grande dei santi per il primo degli angeli. C’è chi conduce questi devoti a separare la devozione dall’impegno e a erigere a modello la disincarnazione piuttosto che il disinteresse e il distacco dal mondo per amore di Dio, piuttosto che il distacco da sé per amore del mondo.
Evasione dalla realtà, disastrosa acosmia alla quale Peguy oppone inopinatamente la figura del padre di famiglia: “Non c’è che un avventuriero al mondo, e particolarmente nel mondo moderno: è il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventurieri non sono niente, non sono nulla in confronto a lui”. Questa affermazione è deliberatamente e indubbiamente provocatoria, dato che al posto della santità fa l’elogio dell’avventura e come avventuriero sembra scegliere M. Prudhomme. Peguy lo sa: niente è, in apparenza, più pantofolaio, più (piccolo-) borghese del padre di famiglia. Egli sa anche che i libertini, i festaioli, gli esploratori, quelli che bruciano le candele da entrambe le parti, tutti quelli che rivendicano per sé l’aura dell’avventura, scherniranno all’infinito questo zoticone goffo e pusillanime. Ma lui conosce ugualmente, per averne fatto lui stesso esperienza, la strana particolarità, la espropriante proprietà di cui è provvisto il padre di famiglia: “Gli altri non soffrono che per se stessi. Ipsi. Al primo grado. Lui solo soffre per gli altri. Alii patitur”. Lui solo, detto diversamente, supera i limiti della finitezza: il suo essere supera il suo io. E ciò che gli procura questa prodezza ontologica, non è un potere maggiore, è una vulnerabilità più grande. Egli soffre per gli altri, che chiamiamo a torto i suoi, perché non sono loro per lui, ma lui per loro: lui non è il loro possessore, è lui il loro possesso, egli appartiene a loro, egli è consegnato a loro, egli è, arrischia lo stesso Peguy, il loro ‘ostaggio’. Per dirla con un’altra metafora, questo capofamiglia non è un pater familias, ma un re decaduto che ha fatto, nel fondare un focolare, il sacrificio della sua libertà sovrana. Prima di avere un carico di anime e di corpi, è stato il solo padrone della sua vita; ed eccolo ormai assoggettato, dipendente, privato della possibilità di trovare rifugio in se stesso: il conforto per quanto lo riguarda gli è definitivamente interdetto.
Pertanto il borghese non è colui che pensiamo: letteralmente e costantemente fuori di sé, il padre di famiglia conduce un’esistenza nello stesso tempo la più avventurosa e la più responsabile che si possa concepire. Da una parte, egli è esposto a tutto e il destino, per raggiungerlo, non ha bisogno di cecchini d’elite, gli è sufficiente colpire a caso uno qualunque dei suoi membri: “E’ lui, amico mio, che li ha, e lui solo, i legami pericolosi”. D’altra parte, egli è responsabile di tutto, del medesimo avvenire, del medesimo mondo in cui lui non entrerà: “Egli è assalito dagli scrupoli, straziato dai rimorsi, a priori (di sapere) in quale città del domani, in quale società ulteriore, in quale dissoluzione di tutta una società, in quale miserabile città, in quale decadenza, in quale degrado di tutto un popolo lasceranno, consegneranno, domani, stanno per lasciare, tra qualche anno, il giorno della morte, questi figli di cui essi si sentono così pienamente, così assolutamente responsabili, di cui sono temporalmente i pieni autori. Anzi, niente di loro li è indifferente. Niente di ciò che passa, niente di storico è per loro indifferente”. Consumato dai rimorsi, dice Peguy, e ci dà a intendere con questo partecipe allo stesso tempo del tormento e della goffaggine. Infatti gli schernitori hanno ragione: il padre di famiglia è grossolano. È due volte troppo grossolano. Troppo maldestro per decollare dal mondo e troppo grossolano per evolversi con qualche chance di successo. Troppo grossolano per salire al cielo e troppo grossolano per la corsa, la competizione e la concorrenza, vale a dire per la legge politica del temporale. Troppo grossolano per fuggire, troppo grossolano per vincere. In breve, è handicappato. Ma, aggiunge subito Peguy in risposta al sarcasmo dei sottili, è precisamente questo doppio impaccio, questa goffaggine e questa aderenza ontologica che condannano il padre di famiglia all’avventura e che costituiscono il valore mistico della sua vita.
Vediamo: quando Peguy parla di mistica, egli non si mette dalla parte della fede contro le opere, né della morale convenzionale e della sua purezza di cuore contro il problema d’efficienza inerente la morale della responsabilità. Egli difende la responsabilità per il mondo davanti alla doppia tentazione del carrierismo e dell’angelismo, del puro interesse e della pura spiritualità.
Sicuramente noi non possiamo idealizzare di più il padre di famiglia con la stessa evidenza e la stessa aplomb di Peguy, perché tra lui e noi c’è stato Himmler che non è stato né un bohemien come fu Gobbels, né un criminale sessuale come Streicher, né un fanatico pervertito come Hitler, né ancora un fanatico pervertito come Goering, ma precisamente “un buon padre di famiglia fedele alla sua donna e preoccupato di garantire un avvenire dignitoso ai suoi figli”. Più generalmente, noi oggi sappiamo che le macchine totalitarie hanno trovato i loro esecutori più docili in questi borghesi rispettabili e sistemi che assopiscono sulle famiglie il loro amore del prossimo e che non provano per molto tempo scrupoli o responsabilità che dentro la cerchia familiare. Con tutta la bellezza del suo paradosso e le difficoltà della sua situazione personale, Peguy ha celebrato l’uscita, per quanto riguarda lui, del padre di famiglia senza interrogarsi sulle temibili potenzialità, per quanto riguarda noi, domestiche. Egli non ha pensata alla contraddizione tra la preoccupazione borghese dei suoi e la preoccupazione civica del mondo. Egli non ha visto, come dice Hannah Arendt, “il grande criminale” che dorme nel grande avventuriero del mondo moderno. Egli non ha visto, nello stesso tempo, con il concetto di ostaggio, che lui stesso ha dato la chiave di tale fenomeno. È precisamente per il fatto che “soffre per altri” che il padre di famiglia è più facile da tenere e da controllare di colui che non impegna che se stesso allorquando si impegna nel mondo. Quand’anche non andasse così lontano nell’obbedienza e nello zelo burocratico dei casi estremi o estremamente ordinari meditati da Hannah Arendt, la sua famiglia è il suo punto debole, la sua famiglia è la sua prigione. Lei lo blocca, lei lo inibisce, lei lo incatena, lei gli mette –è Peguy che parla- “le manette alle mani, le ganasce ai piedi”, lei lo trattiene, nel nome di ciò che deve ai suoi, dal rispondere alle sollecitazioni esterne e dall’occuparsi dell’ingiustizia della città. È la piccola ragione dello Stato interiore, l’immorale Super-io che combatte le sue buone mosse e che lo richiama all’ordine quando è tentato dalla rivolta oppure semplicemente dalla generosità. lo rimuove, è vero, dalla sua sovranità, ma per farlo marciare dritto, non all’avventura, e se egli si espone non è solamente ai rigori della sorte, è anche e soprattutto al ricatto dei potenti. Se la vostra vita non vi appartiene –definizione peguyniana del padre di famiglia-, come metterla in gioco quando le circostanze, quando i tempi bui lo esigono? Come essere padre di famiglia e resistente? Ce ne sono stati di certo, ma fu in disprezzo e non in virtù della loro condizione.
La descrizione stessa del padre di famiglia di Peguy ci impedisce di sottoscrivere le sue stesse conclusioni, per quanto profonde e seducenti esse siano. Resta l’essenziale, sapere che il disastro, per lui come del resto per Hannah Arendt, si definisce come scomparsa del pro mundo nel pro domo, dell’amore del mondo nell’interesse di sé, della virtù pubblica, vale a dire della politica, nel senso che la Arendt ha contribuito a rendere a questo termine, nel calcolo interessato e nel movimento egoista della vita, vale a dire la politica nel senso di Peguy.