martedì 2 marzo 2021

John Ruskin e l’insolito ateismo dei Fini, signori di Limena, sulla facciata di San Moisè a Venezia (di Bruno Trevellin)

 

John Ruskin e l’insolito ateismo dei Fini, signori di Limena, sulla facciata di San Moisè a Venezia

di Bruno Trevellin



John Ruskin (1819-1900), docente di Storia dell’Arte a Oxford, nel suo libro più famoso Le pietre di Venezia (1852)[1] si occupa brevemente della chiesa del San Moisè, la cui facciata marmorea venne realizzata nel 1668 da Enrico Meyring su disegno dell’architetto Alessandro Tremignon per volontà della famiglia Fini quale monumento sepolcrale della stessa. I Fini erano tra le famiglie più in vista della Serenissima,[2]  proprietari di un notevole palazzo sul Canal Grande e di una villa padronale con vasti possedimenti terrieri a Limena (oltre 1300 campi, circa un terzo dell’attuale territorio comunale).[3]

Ebbene, Ruskin in questo sua opera, omaggio al suo amore infelice per Venezia, città morta, che ha influenzato tra gli altri Proust, Mann, Visconti, non usa mezzi termini per definire questa facciata “volgare” e “come manifestazione d’insolito ateismo” oltre che come “culmine d’ogni follia architettonica”, dedicata al culto di una famiglia anziché a Dio. Ancor più taglienti sono stati i giudizi di Pietro Selvatico, di Jacob Burckkardt, di Alvise Piero Zorzi.[4]

Su di essa, tra putti e ornamenti floreali, dominano a sinistra il busto di Girolamo Fini, a destra quello del nipote Vincenzo e al centro su di un obelisco quello del capo famiglia Vincenzo Fini “con relative lapidi indicanti onori e uffici, meriti civili munificenza religiosa e le date di morte a memoria perenne di gloria. Le figure di cammelli sopra la porta centrale indicano le vie del loro mercato”.[5] Inoltre, la figura della Fama che suona la tromba sembra voler proclamare nei secoli la loro gloria. Il busto di Vincenzo reca l’iscrizione: omne fastigium implet Vincentius Fini (Vincenzo Fini riempie di virtù ogni fastigio). Simile nella volontà celebrativa doveva essere anche l’iscrizione posta sul frontone della villa limenese che col suo fermo annuncio: nondum finis voleva dichiarare al  mondo il destino perpetuo della potente famiglia.[6]

Sappiamo come andò a finire. La villa limenese scomparsa, le proprietà terriere vendute nel 1813 dalla vedova di Girolamo Vincenzo Fini per il sostentamento della famiglia e per l’educazione dei figli,[7] il palazzo sul Canal Grande, dopo la caduta della Serenissima, prima frazionato e affittato, poi definitivamente venduto e trasformato in Grand Hotel e dal 1972 proprietà della RegioneVeneto.


(Tomba sepolcrale di Girolamo Fini in San Moisè)



[1] JOHN RUSKIN, Le pietre di Venezia, Milano, 2019, pag. 334

[2] “Vincenzo Fini (1606-1660), appartenente a una nobile famiglia di origine cretese, a Venezia divenne in breve tempo un avvocato di successo. Nel 1649 ottenne che la sua famiglia fosse iscritta nel Libro d’oro della nobiltà veneta, sborsando 100 mila ducati. In Maggior Consiglio molti furono i voti contrari come i commenti sprezzanti nei confronti di questo avvocato cretese, che pretendeva di entrare nel novero della nobiltà veneziana, ma la grave situazione in cui versavano le casse dello stato obbligò i boriosi patrizi ad acconsentire. Nel 1658 Vincenzo ottenne con supplica al doge anche l’importante carica di Procuratore de citra (la più alta carica dopo quella del doge) pagando altri 100 mila ducati (di solito erano sufficienti 20 mila)”. La facciata venne finanziata con un primo lascito testamentario di 30 mila ducati da Vincenzo e con un secondo di 60 mila da Girolamo. Citazione da ALESSANDRO BULLO, La facciata di San Moisè, 2017 (https://www.venicecafe.it/la-facciata-di-san-moise/)

[3] RENATO MARTINELLO, L’oratorio della Beata Vergine del rosario a Limena, Padova, 1993, pag. 4

[4] Per il Selvatico è “il culmine d’ogni architettonica follia, sregolatezza di una meschina mente a cui manca l’ingegno e per il Burckhardt non si tratta di “vera architettura, bensì di lavori di ebanisteria eseguiti in marmo” (BULLO)

[5] ATTILIO COSTANTINI, Chiesa di San Moisè, Genova, 2007, pag. 4

[6] MARTINELLO, pag. 5

[7] MARTINELLO, pag. 9-10


venerdì 29 gennaio 2021

UN RAGAZZO NEL LAGER, di Bruno Trevellin. L'intervista

 

UN RAGAZZO NEL LAGER, di Bruno Trevellin

 

Intervista rilasciata da Nicolò Piccolo, limenese, deportato nel ’43 a 19 anni nel lager di Allendorf. Fu uno dei 600 mila soldati italiani che dissero ‘no’ al rimpatrio come combattenti nelle milizie nazi-fasciste

 


(Nicolò Piccolo a 19 anni)



(Nicolò Piccolo, 97 anni,  nella sua casa di via Buonarroti a Limena)

 

Il signor Piccolo è oggi ancora ben cosciente e conserva ricordi vivissimi del periodo vissuto in prigionia.

 

Signor Piccolo, a che età è stato chiamato alle armi e come è finito ad Allendorf?

Il 24 maggio del ’43, all’età di diciannove anni, venni arruolato nel XXI Guardia alla Frontiera di stanza in Friuli, a Cividale. Portavamo un cappello come quello degli alpini, ma senza la penna. L’8 settembre, dopo una breve sparatoria, fummo catturati dai Tedeschi e trasferiti a Gorizia. Alla consegna delle armi, venimmo da loro derisi perché dicevano che noi Italiani non sapevamo proprio portarle le armi, visto che i nostri fucili non erano per niente puliti e oliati come i loro. Caricati su un treno bestiame ‘sigillato’, dopo tre giorni di viaggio, arrivammo al campo di concentramento di Allendorf, passando per Monaco di Baviera.

Che lavoro eravate costretti a fare?

Lavoravamo in una fabbrica di armi, tutti i giorni, senza riposo, ‘da buio a buio’. Solo dopo molto tempo ci venne concesso il riposo domenicale. Ricordo che le bombe fabbricate, il nostro lavoro consisteva principalmente nel riempire granate, venivano accatastate in grandi quantità. Ce n’erano di vario tipo e dimensioni.

Signor Piccolo, lei è partito per la guerra che pesava più di 70 kg. ed è ritornato ridotto a 39. Qual era l’alimentazione di voi prigionieri ad Allendorf?

Ci davano una brodaglia molto annacquata, che ci versavano dentro un bussolotto di metallo. Una volta che ebbi l’ardire di osservare che dentro non c’era neanche una patata (glielo dissi in veneto: “Ma gnanca ‘na patata!”), mi venne tolto il bussolotto e fui accusato di essere un badogliano, cioè un traditore della Germania, perché Badoglio aveva firmato l’Armistizio. Ma il cibo principale erano le bucce di patate e gli avanzi della mensa dei Tedeschi. La ‘caccia’ al cibo era il pensiero quotidiano. Arrivavamo a frugare (‘a rumare’, precisa) nei letamai, proprio come fanno le galline pur di recuperare qualcosa da mettere in bocca. Quando uscivamo dal campo in fila per andare a lavorare, chi stava davanti rubava il piatto con gli ossi che davano ai cani e qualche volta sono riuscito anch’io a rubare al cane gli ossi congelati, mettendoli sotto la giacca. E più avanti, quando ci concessero di uscire dal campo, andavamo a carità dalle famiglie del posto. Abbiamo trovato persone buone, ci davano brodo, a volte carne. Si rubava anche qualcosa in giro, polli specialmente. La fame era sempre tanta. Una volta i Tedeschi avevano portato me e un altro prigioniero in mezzo al fiume congelato, largo come il nostro Brenta, e noi dovevamo spaccare il ghiaccio per far scorrere l’acqua. Loro col fucile puntato hanno fatto marcia indietro e ci hanno lasciato lì in mezzo al fiume. La paura di annegare era tanta! Ma abbiamo anche pensato che volessero ammazzarci lì sul posto. Mentre uno spaccava e l’altro faceva leva sul ghiaccio, ho trovato un piccolo pesce congelato. Ero stato fortunato! l’ho preso e messo in bocca così com’era.

Parliamo degli alloggi, della condizione igienico-sanitaria.

Si dormiva in baracche, in letti a castello. Io dormivo in alto sul terzo ripiano. In mezzo a cimici e pidocchi. In due anni ci fecero fare un’unica doccia sotto un’acqua bollente. Non ho mai visto medici, anche perché, per fortuna, sono sempre stato bene. Nel campo c’era un’infermeria, ma per modo di dire. Basti pensare che al posto delle garze veniva usata una sorta di carta assorbente.

Che vestiario, che scarpe avevate?

Stracci, solo stracci. Al posto delle scarpe, avevamo zoccoli di legno e come calzini usavamo stracci che avvolgevamo attorno ai piedi.

Ricorda in particolare qualche compagno di prigionia? Che rapporto c’era tra voi?

Io ero con uno di Ancona, con uno che poi si è stabilito in Germania e con Elio Visintini, un friulano che sono andato anche a trovare a casa sua. Tra prigionieri si era tutti come fratelli.

È mai stato messo in carcere?

Ho fatto un mese in un carcere delle SS perché avevo osato saltare il turno di lavoro in un giorno di festa, di una grande festa (non ricorda se Natale o Pasqua). Mi presi un pugno terribile in bocca dalla guardia tedesca che mi spaccò i denti e che mi fece così male che ancora mi pare di sentirlo. Quella volta temevo che mi uccidessero, invece dopo un mese mi fecero rientrare al campo per necessità lavorative.

Gli era stato proposto di rientrare in Italia, arruolandosi nell’esercito della RSI (Repubblica Sociale Italiana)?

Certo, ma rifiutai, come fecero quasi tutti. Ho preferito restare nel campo di prigionia, piuttosto che rientrare ed essere costretto a combattere in Italia contro i nostri.

Avevate la possibilità di comunicare con i familiari?

No, sono stato un anno e mezzo senza avere notizie di casa, poi mi fu concesso di scrivere due volte, ma da casa non ho mai ricevuto nessuna lettera, nessuna informazione. Da casa ho ricevuto solo due pacchi, perché gli altri me li hanno rubati. Mio papà si faceva fare una cassettina di legno da Milieto Piva, che era falegname, e quando arrivava il pacco con dentro il pane biscotto, lo mangiavamo tutti assieme. I pacchi li tenevo nascosti nella lavanderia.

 Aveva dei soldi quando arrivò al campo? Vi davano una paga?

Avevo 150 lire di carta che arrotolai per bene e che nascosi dentro la fessura di una trave della baracca, ma quel mio nascondiglio venne scoperto quasi subito da una guardia che mi rubò i soldi. In Germania mai visto paga. Quando si era ancora in Friuli, a Cividale e a Piedicolle, ci davano la paga militare di 40 centesimi al giorno, ma non potevamo spendere niente, così li ho risparmiati, ma finirono nelle mani dei tedeschi.

Nel campo c’era una chiesa per i prigionieri italiani? Si pregava in quelle condizioni?

No, non c’era. In due anni non ho mai visto un prete e non sono mai stato a una messa. Nei paesi vicini c’erano chiese protestanti e chiese cattoliche. Avevamo imparato a distinguerle perché sul campanile di quelle protestanti c’era una banderuola con un gallo e su quello delle chiese cattoliche una croce. Avrò anche pregato qualche volta, ma tutti avevamo solo in mente di mangiare, avevamo fame.

 Piangeva?

Piangevo sempre la sera, quando non c’era nulla da mangiare e avevo fame.

 Vi arrivavano informazioni su come stava andando la guerra?

Un sergente ci teneva informati su come stava andando la guerra. Ovviamente le informazioni viaggiavano attraverso ‘radio scarpa’ o attraverso ‘radio reticolato’, così chiamavamo quel nostro sistema di comunicazione, quello cioè del passaparola.

 C’erano altri campi di concentramento vicino al vostro?

Vicino al nostro c’era un campo di concentramento femminile, in cui erano rinchiuse 1500 donne ungheresi (Si seppe poi che erano tutte ebree).

 Ha mai pensato alla fuga?

E dove si andava? Manco sapevamo dove si trovava l’Italia.

Sa di qualcuno dei vostri morto nel lager?

No, non ho ricordo di questo

Vi hanno mai dato permessi per uscire dal campo?

Scherzi! Non c’erano permessi, se ci vedevano fuori ci ammazzavano (questa affermazione pare si riferisca allo status di IMI, non a quello in cui passò poi di ‘lavoratore civile’).

C’erano rifugi antiaereo?

C’erano rifugi dentro il campo, sottoterra, ma se cadeva una bomba avrebbe fatto un flagello.

Come avete capito che la vostra prigionia era finita?

Una mattina trovammo i cancelli del campo aperti e nessuna delle guardie a custodire il campo. Abbiamo capito in quel momento che per noi era arrivata la liberazione. Poi arrivarono gli alleati, americani e inglesi. Gli Americani erano più buoni degli Inglesi. Ci davano cibo e sigarette. Ho imparato da loro a fumare.



(foto aeree del bombardamento di Allendorf da parte degli Alleati)

Ci parli del suo ritorno in Italia, a Limena

Io e gli altri siamo ritornati con mezzi di fortuna, su treni merci o bestiame principalmente. Io tornai a casa il 24 maggio (o giugno) del ’45. Quando arrivai a Limena fu Raimondo Piva che si precipitò ad avvisare i miei che stavo per tornare. Mio cugino Cesare, che stava lavorando i campi con i buoi, mollò tutto e corse ad incontrarmi con tutti gli altri di casa, che mi credevano morto.

Signor Piccolo, qual è stato il sentimento che più lo ha accompagnato in tutto il periodo della prigionia?

Ogni giorno si viveva con la paura di morire, con la paura di morire da un momento all’altro.

 

Nicolò Piccolo nel 1954 si sposò con Ortensia ed ebbe tre figlie. Nella vita fece prima il contadino, poi lavorò per due aziende di Limena. Non ottenne nessun riconoscimento e nessun indennizzo per i venti mesi trascorsi nel campo di concentramento tedesco di Allendorf. Fu anche lui un IMI (Internato Militare Italiano), privato di ogni diritto spettante ai prigionieri di guerra in base alle convenzioni internazionali, privato di ogni dignità, per due anni schiavo. Il crimine commesso nei suoi confronti e nei confronti degli altri 600 mila prigionieri italiani che come lui finirono nei campi di concentramento è oggi considerato un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità.

Nell’intervista non ha accenni d’odio o di rancore il signor Piccolo, solo il dolore per un ricordo che lo porta ogni tanto a fermarsi per non mettersi a piangere, anche durante l’intervista. Soprattutto gli rimane ancora il dubbio che quanto ci ha raccontato non venga creduto, che non lo si consideri come realmente accaduto.

 

(intervista pubblicata in UN RAGAZZO NEL LAGER, di Bruno Trevellin, 2020)


domenica 27 dicembre 2020

JEAN BASTAIRE, Prefazione a Il portico del mistero della seconda virtù di C. Peguy

 

JEAN BASTAIRE, Prefazione a Il portico del mistero della seconda virtù di C. Peguy, ed. Gallimard (1986)

(traduzione di B. Trevellin)

 


All’anemia dell’essere Peguy oppone una terapeutica spirituale radicale che ha come strumento il poema il cui compito più alto non è di abbellimento, ma di conversione, di morte-resurrezione.

Con una stupefacente intuizione Peguy fa della dannazione un esilio e un fallimento di Dio che, per evitarlo, si riduce a sperare nel peccatore, prendendo Lui l’iniziativa, contando sul peccatore, trepidando per lui nell’attesa che si ravveda.

Il mistero centrale del cristianesimo è l’incarnazione e perciò ogni disprezzo per la carne, ogni disprezzo del temporale è un abominio, perchè Dio ha tanto amato il mondo, non solamente le anime, ma anche i corpi, la terra, la creazione, al punto che per essi ha donato suo Figlio.

Una creatura, Maria, è il prototipo della nuova umanità resuscitata in Cristo, superiore agli uomini e agli angeli, perché lei sola totalmente terrestre e totalmente divinizzata.

Peguy inoltre stabilisce un accostamento fondamentale tra infanzia e resurrezione. L’innocenza dei bambini è esplosiva, loro non conoscono il dubbio, corrono per correre e non per arrivare, sono puro slancio, irresistibili, hanno la freschezza di una terra parusiaca.

 

 

Un gran testo non è solamente bello. Crea della vita, ha un’influenza seminale. Così per i Miserabili o le Illuminazioni. Tra le opere di Peguy nessuna ha meglio giocato questo ruolo fecondante quanto Il portico del mistero della seconda virtù. Innumerevoli lettori ne sono stati beneficiati. Certamente ne hanno attinto la forza di una resurrezione intima.

Si tratta di ben altra cosa che di una fortuna temporanea, legata al clima di una generazione. Il punto d’impatto del Portico è la ferita dalla quale sgorga, in ogni uomo, il sangue dell’anima. All’anemia dell’essere, quando non ha che voglia di dormire e di morire, Peguy oppone una cura radicale. Egli non ne fa un motivo di ragionamento, ancor meno con ammonimenti o consigli. Egli ha orrore della morale e si fa beffe della psicologia. La sua terapeutica è spirituale. Ha come strumento il poema.

Non c’è poeta veritiero che non sia un avventuriero dello spirito. Peguy illustra questa definizione che esclude gli edonisti della penna e i pettegoli pieni di miasmi. Non si entra sotto il suo portico, dall’aspetto piccolo, senza mettere tutto a rischio. O piuttosto ci si sente spinti dal rischio supremo di perdere il coraggio e di cadere nel vuoto.

Peguy si è assunto questo impegno, in un campo di rovine. A parte i propri figli, non c’era niente altro di sicuro in grado di dare senso alla sua vita. La tradizione dreyfusiana e l’avvilimento del socialismo avevano minato la sua fede rivoluzionaria, avvelenato la sua gestione dei Cahiers, distrutto la sua famiglia. A colmare la disgrazia, lo consumò un amore impossibile.

L’inno alla speranza che il Portico è, ha origine dalla disperazione più profonda. Non è un caso se un tale seguito di pagine candide si chiude sulla notte del Venerdì Santo e la sepoltura di Gesù: non con l’angoscia, ma con la pacificazione di un riposo misterioso, che non sappiamo ancora se terminerà con la Pasqua, anche se lo fa pensare. Come se lo sfinimento dell’autore, dopo questa lotta invisibile con l’angelo, alla fine devolasse, doloroso segno in fondo al quadro.

L’opera deve senza dubbio a queste circostanze una tensione esistenziale che le permette di evitare bene le insidie. Essa è stata troppo spesso asservita a una lettura semplicistica, a pezzi scelti, che svuota quello che la sua tenerezza ha di sofferenza purificatrice, di amarezza trasfigurante. In realtà il Portico incarna alla lettera quello che il testo stesso dice dell’acqua cattiva divenuta sorgente viva. Sostenuta dalla speranza, la poesia svolge il suo compito più alto che non è di abbellimento, ma di conversione, di morte-resurrezione, tirando fuori dal male la luce.

 

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Di colpo, essa ritrova una funzione teologica e mistica che il cristianesimo occidentale ha trascurato in lei da lunghi secoli, abbandonando a veggenti incerti, più o meno eretici, ciò che si lascia sfuggire l’ortodossia delle speculazioni dialettiche: la carne dell’esperienza religiosa, il soffio del contatto ontologico.

La poesia teologica torna alla grande tradizione simbolica, così vivida fino al XII secolo e che il cristianesimo orientale ha mantenuto fino ai nostri giorni. Non diciamo che pensi per miti, queste vaste immagini materne nelle quali si concentra un’esperienza decisiva. Pensa per segni. Ma anziché essere prese dall’universo astratto del concetto, questi segni provengono dalla realtà concreta, fenomenica, storica. Il mito stesso, senza dubbio privilegiato, non è altro che un segno.

Il poeta teologo, come il teologo simbolico, procede a una lettura della Creazione. Il mondo per lui è una santa Scrittura in cui si trova narrato un evento sublime: lo stesso che racconta nell’altro Libro e che è fissato nelle parole dei patriarchi, dei profeti e degli evangelisti. Ci sono così due vie per la Rivelazione. Anziché fare due esempi, esse si fanno eco, come se fin dall’inizio la Parola divina, nello stesso tempo che prende forma nei testi sacri, avesse voluto incarnarsi in una carne cosmica.

Quando Peguy evoca l’anima-cavallo e il corpo-aratro, contempla la pioggia dei giorni peggiori per la buona terra delle anime, trasmette la speranza come su una sepoltura  si passa l’acqua benedetta, non si comporta come un creatore di immagini venute bene, tanto più efficaci quanto limpide. È molto più di tutto ciò: un lettore fedele che, attraverso la realtà umana, decifra la realtà divina.

Col suo tono furbo e coi suoi zoccoli grossi, egli comprende il linguaggio di Dio. Così non è sorprendente che faccia parlare Dio.

Lungi dall’essere un procedimento letterario, questo audace obbedisce a una logica intima. Nessuno meglio di Dio potrà offrire la parola essenziale che prima di incarnarsi in Gesù ha inscritto in ogni creatura. Se maneggia con una scioltezza sovrana il linguaggio delle creature e delle cose, è perché ne è l’autore. E se Peguy ne è lo scriba miracoloso, è perché svanisce davanti al Padre del Verbo. “Dice Dio”, nota egli semplicemente. “Parola di Yaweh”, affermano i profeti. Nell’uno e nell’altro caso, Dio annuncia se stesso nell’annunciare il mondo.

Così si spiega uno degli aspetti più sconcertanti del Portico: il lato terra terra, banale di questa visione. Il segno scelto pare insignificante e si accende improvvisamente di un significato segreto. Non è distrutto ma magnificato per lo spiegamento dei sensi. Il muto parla tutto d’un tratto. Il silenzio dei giorni quotidianamente si scioglie. Una lode insolita s’innalza da un universo qualsiasi, dal quale non ci si attende che dell’ordinario.

Così il poema sposa un fiume di immagini famigliari e domestiche: i figli, il padre, la madre, lo zio, a una folla di citazioni evangeliche e liturgiche: Matteo, Luca, Giovanni, l’Ave Maria, il Salve Regina, senza dimenticare Villon, La Fontaine e Hugo. “Tutto fa ventre”, direbbe la saggezza popolare alla quale Peguy egualmente ricorre. Tutto serve a investigare l’amore e al chiarimento mistico.  

 

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L’ammirevole nel portico è che con parole terrene, con immagini carnali che non hanno nulla di filosofico, con movimenti del cuore che sono quelli di ogni creatura, Peguy rivoluziona il cristianesimo nel senso che, come dice altrove, “una rivoluzione è un appello di una tradizione meno perfetta a una tradizione più perfetta”. La sua teologia della speranza distrugge definitivamente il giansenismo e sgombra la strada regale del vangelo, troppo lungamente ingombrata da paure che si fanno beffe della croce di Cristo.

Non solo l’autore del Portico ritorna all’interiore suo dramma personale dell’esilio e della sconfitta, convertendo la disperazione in tenerezza e la derelizione in abbandono creativo. Ma inverte parallelamente un dramma ontologico più generale che lo perseguita fin dalla sua giovinezza e che è al cuore della sua meditazione di Giovanna d’Arco: l’esilio e la sconfitta dei dannati. Con una stupefacente intuizione, egli fa della dannazione un esilio e un fallimento di Dio.

Per evitarlo, Dio si riduce a sperare nel peccatore come il peccatore spera in Dio. Dio prende l’iniziativa. Là come in amore e come in tutte le cose, egli prende l’iniziativa, egli dà l’esempio. Ciò non spiega del resto il più perfetto amore, dove colui che ama si sottomette all’amato, conta sull’amato? Dio conta sul peccatore, trepida per lui nell’attesa che si ravveda e, come il figliol prodigo, venga a cadere tra le sue braccia.

Non meno feconda è un’antropologia che scarta ogni tentazione manichea e fa dell’uomo un insieme nel quale il corpo e l’anima “simbolizzano” (si uniscono) e non “demonizzano” (si dividono). Con un’immagine sorprendente, alla quale in Eva altre di così belle fanno eco, Peguy paragona il corpo e l’anima a due mani giunte nella preghiera o a due polsi legati dal peccato. Corrono la stessa avventura. E il poeta ha l’audacia di rovesciare una proposizione ahimè troppo usuale, benché non cristiana, secondo la quale gli angeli sono fortunati a non avere un corpo. Per Peguy, è una mancanza, poiché non possono imitare Gesù, dal momento che non hanno “lo stesso corpo di Gesù”.

Il mistero centrale del cristianesimo è l’incarnazione. Dio si è veramente fatto uomo perché l’uomo si faccia veramente Dio, secondo l’adagio tradizionale dei Padri della Chiesa. Ogni disprezzo per la carne, ogni disprezzo del temporale è un abominio, perchè è un disprezzare e detestare la condizione reale che il Verbo ha assunto per salvarla. Dio ha tanto amato il mondo: non solamente le anime, ma anche i corpi, la terra, la creazione, al punto che per essi ha donato suo Figlio.

Una creatura è il prototipo della nuova umanità resuscitata in Cristo: Maria madre di Gesù. Lei è superiore agli uomini e agli angeli, senza ombra di peccato. Lei sola è una perfetta imitazione di Gesù, perché lei sola è totalmente terrestre e totalmente divinizzata. Lungi dall’essere un pietismo devoto, il culto di Peguy per Maria è un’esaltazione del temporale per l’eterno, una glorificazione della carne per lo spirito.

Parimenti il ruolo attribuito all’infanzia dall’autore del Portico è agli antipodi di ogni puerilità. Sono solo gli adulti a essere infantili. I bambini sono nuovi, baldanzosi. Con la freschezza di una terra parusiaca, la loro innocenza è esplosiva. Loro non conoscono il dubbio. Secondo la loro gratuità, corrono per correre e non per arrivare. Sono puro slancio. Ecco perché sono irresistibili.

Tra le sue due sorelle maggiori la fede e la carità, la speranza è una figlia piccola che tutto trascina. L’immagine trovata da Peguy è talmente giusta che ha fatto il giro del mondo. Essa riassume il Portico, perché così come esprime  il “puer eternus” dell’inconscio collettivo, esiste un accostamento fondamentale tra l’infanzia e la resurrezione, e la speranza apporta la grazia anticipata della Pasqua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 16 luglio 2020

Vecchiaia, saggezza, eternità in Romano Guardini


Vecchiaia, saggezza, eternità in Romano Guardini
di Bruno Trevellin



Romano Guardini (1885-1968), filosofo e teologo cattolico tra i più significativi del ‘900, pubblica  Le età della vita nel 1957, quando di anni ne ha 72. È un’età che gli consente di sostenere per esperienza quanto scrive a proposito della vecchiaia. Beninteso, il suo studio parla anche delle altre età della vita, non esclusivamente di quella che per ciascuno sarà l’ultima. La sua riflessione infatti inizia considerando la vita fin dal grembo materno, passando per la giovinezza, per l’età adulta, per finire appunto con la vecchiaia.
Soffermiamo la nostra attenzione proprio su questo momento della vita umana, momento in cui, dice Guardini, “si avverte il senso della caducità delle cose”, “si fa un bilancio delle proprie possibilità”, si vede “venir meno il senso dell’attesa”, per il fatto che “quanto più l’uomo invecchia, tanto meno si aspetta qualcosa e tanto più intensamente avverte la fine” e sente la vita scivolargli via sempre più velocemente.
In quell’età ha la sensazione che qualcosa sia continuamente alla fine, è sempre più consapevole  “che quanto si fa ora lo si è fatto anche ieri, che l’esperienza fatta oggi è quella di otto giorni fa”. A questo si aggiunge anche un altro elemento, non legato al tempo che passa, ma al modo in cui vengono vissuti gli avvenimenti, e cioè che essi si fanno labili, nel senso che “chi li vive ne è meno toccato e non li considera più così seriamente”. L’uomo che invecchia, anzi, dimentica con facilità quanto accade e ai suoi occhi acquistano invece sempre più importanza “gli avvenimenti di un tempo”, il passato, la vita trascorsa.
Risultano essere queste le caratteristiche della crisi di questa età e il modo per superarle, avverte Guardini, dipende da come viene accettata la prospettiva della morte, al punto che sarà vecchio, ma in senso negativo, colui che vecchio non vuole proprio diventare.
Gurdini a tal proposito osserva, e siamo nel lontano ’57, come uno dei fenomeni più inquietanti dell’epoca moderna sia l’opinione che il vero valore della vita coincida con la giovinezza, generatore di quella sorta di “materialismo senile” che mira solo a cose tangibili, quali “il mangiare e il bere, il conto in banca, la poltrona comoda”. Per Guardini ne deriverà quella che egli chiama “testardaggine senile”, fatta di smania di mettersi in mostra, voglia di tiranneggiare gli altri solo per la convinzione “di essere ancora qualcuno”, quando invece bisognerebbe “accettare il fatto che si diventa vecchi”.
Solo così infatti si potrà superare positivamente la crisi di questa età, solo così si realizzeranno comportamenti e valori fondamentali per la totalità della vita, come il discernimento, il coraggio, la pacatezza, il superamento dell’invidia verso i giovani, il risentimento verso le novità che si presentano nella storia. Solo così, cioè, si forma quella figura del vecchio inteso come saggio, da caratterizzare come “colui che è conscio della fine e l’accetta”, perché si trova sempre più preparato a ciò che gli dovrà succedere.
È accettando la fine infatti che il comportamento dell’uomo “acquista pacatezza e superiorità”, superiorità da intendere come “superamento dell’angoscia, del desiderio di gustare il piacere, della fretta di vivere quanto resta da vivere, dell’ansia con cui si sfrutta all’estremo ogni attimo del tempo che si va accorciando”.
E sarà proprio il senso di caducità che si manifesta nella vecchiaia a produrre la coscienza “di ciò che non passa, di ciò che è eterno”. Guardini però ci avvisa subito che eterno non è ciò che continua come quantità incommensurabile, “ma qualcosa di qualitativamente Altro, libero, incondizionato”, non essendo in rapporto con la vita biologica, ma con la persona che nell’eterno non è conservata e perpetuata, ma “realizzata in senso assoluto”.
È l’esperienza -che consente di distinguere ciò che importa da ciò che risulta irrilevante, ciò che è autentico- a farci comprendere “l’unità della vita e il significato che in essa hanno i singoli momenti”. Questo è la saggezza, da intendere come “ ciò che si viene a creare quando l’assoluto e l’eterno penetrano nella coscienza contingente e finita, e da questa gettano luce sulla vita”.
Purtroppo l’uomo di oggi ha dimenticato del tutto il significato della vecchiaia. La norma è il giovane e “il vecchio non sarebbe altro che un giovane sminuito”. Di conseguenza sono venuti meno i valori propri della vecchiaia quali la saggezza nelle sue varie forme, la capacità di discernimento e di giudizio.
Orbene, “solo colui che diventa vecchio nel modo giusto diventa capace di comprendere la totalità della vita”, non avendo egli più un futuro, ma solo un passato cui rivolgere lo sguardo, ma sarà proprio con quello sguardo che potrà vedere “i fatti nel loro contesto” (conquiste, rinunce, gioie, dolori). E poi “l’uomo che invecchia si avvicina non alla fine ma all’eterno”, cioè a Dio e al suo “regno senza tempo”.
Nella vecchiaia “gli avvenimenti della vita immediata perdono la loro urgenza”, mentre invece acquistano importanza ciò che prima era considerato irrilevante. “Si tratta di un’anticipazione di ciò che il linguaggio religioso chiama giudizio”. “Giudizio  -dice Guardini- significa che le cose sono liberate dai camuffamenti delle chiacchiere e dalle confusioni operate dalla menzogna e dalla violenza, e vengono portate nella pura potenza della verità di Dio, che non può essere né corrotta né ingannata. Di questo giudizio, che avrà luogo dopo la morte al cospetto di Dio, si attua, nella vecchiaia giusta, una specie di preparazione”. Questo giudizio “dà alla vecchiaia un senso che non ha nessun’altra fase della vita”.

giovedì 18 giugno 2020

Bruno Trevellin, L’amore al tempo della peste (e del Coronavirus)


Bruno Trevellin, L’amore al tempo della peste (e del Coronavirus)
Lettura parafrastica dal romanzo di Albert Camus, La peste



Raimond Rambert è uno dei protagonisti minori del romanzo La peste di A. Camus, ma è quello che meglio di ogni altro ci fa cogliere cosa avvenga, cosa è possibile che avvenga e cosa possa restare del sentimento amoroso quando si passa attraverso l’esperienza diretta di un flagello terribile come la peste.
Rambert fa il giornalista ed è finito a Orano, la città algerina della peste, per chiedere al dottor Bernard Rieux, il protagonista principale del romanzo, in cui dobbiamo riconoscere per molti aspetti lo stesso Camus, “ragguagli sulla condizione di vita degli arabi”.
Ebbene, una sera Rambert si rivolge proprio a Rieux anche per un aiuto concreto, per un favore personale, urgente: vuole che il dottore, proprio perché molto stimato negli ambienti amministrativi, lo aiuti ad andarsene dalla città, chiusa a causa della peste, per ricongiungersi alla sua donna che si trova a Parigi e della quale è perdutamente innamorato.
Sì, si era già rivolto alla prefettura, ma per sentirsi dire sempre e solamente che non era proprio possibile andarsene da Orano, che “non si poteva fare eccezione” e anzi era stato invitato a sfruttare la situazione per un reportage che poteva essere veramente interessante, perchè una città colpita dalla peste è sempre un buon argomento giornalistico. Rambert, però, non ne vuole sapere di rimanere e lo confessa sinceramente al dottore che lui non è stato “messo al mondo per fare dei reportages”, ma “per vivere con una donna”. Per questo gli chiede di sottoscrivergli un certificato medico che attesti che lui non ha la peste e che potrebbe servirgli per andarsene “legalmente”. Il dottore però gli fa subito notare che non può fargli quel certificato perché lui, medico, non potrà mai attestare che tra il momento in cui uscirà dal suo studio e quello in cui entrerà in prefettura non sarà contagiato. Gli fa inoltre notare che in città ci sono migliaia di uomini nella sua stessa situazione che non si possono proprio lasciare uscire.  
“Ma io non sono di qui!” protesta con forza Rambert, come se non essere del posto potesse assicurargli una partenza privilegiata e immediata. Il dottore però lo riporta subito con i piedi per terra, facendogli capire che a cominciare da quell’esatto istante anche lui, Rambert, deve considerarsi di Orano, come tutti gli altri abitanti costretti a rimanervi chiusi dentro come in una prigione, come dei reclusi.
“E’ una questione di umanità, (…) lei non si rende conto di cosa significa una separazione come questa per due persone che si intendono bene”,
continua a protestare Rambert. Rieux certo non è insensibile e anzi gli fa capire che desidera che tutti quelli che si amano e che la peste aveva separato, possano ricongiungersi, ma proprio non si può. Anche per quel suo caso, come per tutti gli altri simili, ci sono leggi, decreti, c’è la peste e lui, dottore, poteva fare solo il suo dovere.
A quel punto Rambert, seccato, gli risponde che farà in modo di sbrigarsela diversamente, perché in ogni caso lui vuole lasciare la città, costi quel che costi.
Non si dà per vinto e con ostinazione e astuzia si rivolge a un gran numero di funzionari. Con loro il suo ragionamento è sempre lo stesso: lui è estraneo alla città di Orano, non è uno del posto, per cui il suo caso deve essere considerato diversamente. Ma niente, gli rispondono sempre che non si può creare con lui un precedente. Oppure gli dicono di portare un po’ di pazienza perché tanto la peste sarebbe stata solo un fenomeno passeggero, una noia momentanea. Altri lo illudono, facendosi dare una nota scritta sulla sua richiesta, assicurandogli che se ne sarebbero occupati; altri, come succede spesso, se la cavano semplicemente indicandogli un altro ufficio a cui rivolgersi.
Insomma, ad un certo punto si rende conto che non potrà mai uscire dalla città in maniera legale e così, tramite un amico, Cottard, entra in contatto con una organizzazione di contrabbandieri che si occupa della rivendita di sigarette e alcool, i cui prezzi crescevano ogni giorno di più, traffico che stava consentendo proprio a Cottard di farsi una piccola fortuna nel bel mezzo della peste, proprio a lui che era diventato uno squattrinato perché spendeva più di quanto guadagnava. L’affare infatti sarebbe costato al giornalista diecimila franchi, anche perché bisogna corrompere delle guardie, ma gli rimane quello e solo quello come unico modo per andarsene.
La cosa a un certo punto sembra ormai fatta, quando una sera in un bar Tarrou, amico del dottor Rieux, dice a Rambert che gli dispiaceva per quella sua partenza perché avrebbe potuto essere utile nelle formazioni sanitarie di volontari, organizzate per portare soccorso e organizzare al meglio quanto richiedeva la situazione venutasi a creare in città con la peste. Questo invito non lascerà infatti indifferente il giornalista.
Comunque i ripetuti tentativi non vanno mai in porto, anche perché sempre un qualcosa impedisce a Rambert di fuggire dalla città e così ogni volta si ritrova a dover ricominciare tutto da capo, ricominciare a riorganizzare la sua fuga tramite i contrabbandieri. Alla fine quasi si rassegna. Una sera, con in casa Rieux e Tarrou, avendo ormai compreso che la peste “consiste nel ricominciare”, chiede a Rieux spiegazioni proprio sulle formazioni sanitarie. Lui, che aveva fatto la guerra civile di Spagna dalla parte dei vinti, pensando ai gesti di coraggio che aveva visto, afferma di sapere che l’uomo è sì capace di grandi azioni, ma che a lui interessa solo se è capace di un grande sentimento e dichiara di averne abbastanza delle persone “che muoiono per un’idea”, perché lui non crede all’eroismo: sa infatti che è facile e, soprattutto, sa che è omicida. Quello che solamente gli interessa è invece, e se ne rende conto esattamente in quel frangente,
“che si viva e che si muoia di quello che si ama”.
“L’uomo non è un’idea, Rambert”, gli fa notare Rieux e lui, prontamente e come infiammato dalla passione, gli risponde: “E’ un’idea, e un’idea corta, dal momento in cui ci distoglie dall’amore”, constatando che appunto “noi non siamo più capaci d’amore”.
Per Rambert darsi da fare in mezzo alla peste è cioè come un giocare agli eroi. Rieux gli dà ragione, gli dice anzi che ciò che sta per fare, fuggire, gli sembra pure “giusto e buono”, ma gli fa anche notare che non si tratta di eroismo, ma semmai di onestà: unica e sola maniera di lottare contro la peste. E per lui l’onestà è unicamente fare il suo mestiere di medico lì a Orano con il flagello imperante.
“Ma io non so –disse Rambert con ira- quale sia il mio mestiere! Forse io sono davvero nel torto scegliendo l’amore”.
Comincia ad avere dubbi Rambert, non solo sul suo mestiere di giornalista, ma pure sul significato del suo amore. In ogni caso loro, Rieux e Tarrou, non lo possono capire, perché loro due non hanno nulla da perdere e quindi per loro è più facile “essere dalla parte giusta”, quella cioè che consiste nel rimanere e combattere la peste, mentre lui, rimanendo, rischia il contagio, rischia di morire, rischia di perdere l’amore: rischia di perdere tutto.
A quel punto Rieux vuota il bicchiere ed esce, seguito da Tarrou, perché ha “da fare”. Proprio mentre sta per uscire, Tarrou informa il giornalista del fatto che la moglie di Rieux si trova in una casa di salute a qualche centinaio di chilometri da Orano. Rambert ne rimane colpito, coglie che anche il dottore ha qualcosa da perdere proprio come lui e infatti il giorno dopo telefona a Rieux per chiedergli di prenderlo come volontario nelle formazioni sanitarie. Gli è cioè bastata una notte per cambiare idea. Anche Rieux aveva da perdere, anche Rieux era nella sua stessa situazione, diversa solo perché peggiore, nel senso che sua moglie è non solo lontana e irraggiungibile, ma anche gravemente malata.
Allora cosa è giusto fare: scappare comunque, anche illegalmente, o rimanere?
Soprattutto, si può ancora essere liberi durante la peste? Si può cioè poter scegliere? La risposta di Camus è no! No perchè la peste cancella i destini individuali per lasciare posto solo a sentimenti condivisi da tutti. E il più forte è quello della separazione e dell’esilio, che toglie ogni futuro, e quindi l’amore e l’amicizia.
“La peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche dell’amicizia; l’amore, infatti, richiede un po’ di futuro, e per noi non c’erano più che attimi”.
Sarà questa la riflessione di Rieux. Beninteso, Rambert lavora sodo nelle formazioni, non lascia tramontare il sogno della fuga, dell’evasione, solo che non vive più pensando esclusivamente a quella; intanto si dà da fare, lottando anche lui contro il contagio. Una notte, però, ha una crisi. Uscito da un bar ubriaco e avendo come l’impressione di essersi preso la peste, si mette a correre verso la città alta e, arrivato a una piazzetta, “chiamò la sua donna con un altissimo grido, al di sopra delle mura”.
Tornato a casa e non vedendosi addosso alcun segno del contagio, quasi si vergognò di quel suo momento di crisi. “Può capitare che se ne abbia voglia”, gli spiegò Rieux, che forse era stato tentato anch’egli da quello stesso gesto. Gli consiglia pure di non frequentare più gli ambienti del contrabbando, perché stava diventando rischioso. Il suo è un invito a Rambert perché faccia presto a fuggire.

Finalmente tutto sembra pronto, la fuga è organizzata per la mezzanotte, ma Rambert ha un ultimo ripensamento e va a incontrare Rieux. Per dirgli cosa? Per dirgli che non sarebbe più partito, anzi per dirgli che voleva restare con loro, nelle squadre sanitarie.
 “E sua moglie?” gli chiede Rieux. Restare significa non solo rinunciare a lei, ma continuare a esporsi al contagio.
“Rambert disse che aveva ancora riflettuto, che continuava a credere in quello che credeva, ma che se fosse partito ne avrebbe avuto vergogna; e questo avrebbe guastato il suo amore per colei che aveva lasciato”.
A Rieux, che gli fa presente che è una cosa stupida, perché non c’è nessuna vergogna a preferire la felicità, Rambert risponde, convinto che sì, non c’è vergogna a preferire la felicità, ma che “ci può essere vergogna nell’essere felici da soli”. No, essere felici da soli non può più bastare a Rambert, dopo tutto quello che ha visto e fatto.
“Tarrou, che sino ad allora aveva taciuto, senza voltare la testa verso loro fece notare che se Rambert voleva condividere le sventure degli uomini non avrebbe mai più avuto tempo per la felicità. Bisognava scegliere”.
Rambert gli risponde che non è stata quella la sua riflessione, ma un’altra e ben diversa, maturata in quei giorni estenuanti di servizio sanitario.
“Ho sempre pensato di essere estraneo a questa città e di non aver nulla a che fare con voi. Ma adesso che ho veduto quello che ho veduto, so che io sono qui, che io lo voglia o no. Questa storia riguarda tutti”.
Del resto neanche per gli altri due si trattava di scelta. Neanche loro avevano scelto, neanche Rieux.
“Nulla al mondo vale che ci distolga da quello che si ama. E tuttavia me ne distolgo anch’io, senza poterne sapere la causa (…). È un fatto, ecco tutto (…). Registriamolo e ricaviamone le conseguenze (…). Non posso nello stesso tempo guarire e sapere (…). E allora guariamo il più presto possibile: è la cosa che più importa”.
È con queste parole che il dottore chiude quella loro concitata discussione.
La natura vera dell’amore è dunque quella di una continua mancanza e incompletezza. Rieux, ad esempio, sapeva che sua madre lo amava, ma sapeva anche
“che non è gran cosa amare una creatura o almeno che un amore non è mai sì forte da trovare la propria espressione. Di modo che sua madre e lui si sarebbero sempre amati in silenzio. E lei sarebbe morta –o lui- senza che, durante la loro vita, fossero potuti andare oltre, nella confessione del loro affetto. Nello stesso modo egli era vissuto accanto a Tarrou, e questi era morto, quella sera, senza che la loro amicizia avesse il tempo di essere veramente vissuta”.
Cosa si guadagna allora? Si guadagna ciò che resta, cioè il ricordo, dell’amore e dell’amicizia, anche se è duro vivere solo di quello che si ricorda e privati di ogni speranza, senza la quale non c’è pace.

Verso la fine del romanzo Rieux viene informato della morte della moglie per telegramma. Accoglie la notizia con calma. Era una cosa penosa, ma se l’aspettava, perché sapeva
“che la sua pena era senza sorpresa. Da mesi e da due giorni (da due giorni gli era morto l’amico Tarrou), era lo stesso dolore che continuava”.

Una bella mattina di febbraio le porte della città vennero aperte. La peste finalmente se ne era andata, ma aveva fatto il suo lavoro, quello di mutare il cuore degli uomini. Un senso vago faceva loro desiderare che, dopo tanti mesi perduti nella lontananza, nel distacco forzato, “il tempo della gioia avrebbe dovuto trascorrere due volte meno in fretta del tempo dell’attesa”, ma non sarà così e a quegli uomini, come Rambert, non restavano ora che l’impazienza e lo smarrimento del ricongiungimento.
“L’amore o l’affetto che i mesi di peste avevano ridotto all’astratto, Rambert ora aspettava, in un tremito, di confrontarlo con la creatura di carne che n’era stata il sostegno.
Avrebbe desiderato diventare colui che al principio della peste voleva correre con un solo slancio fuori della città, e slanciarsi incontro a colei che amava; ma sapeva che non era più possibile. Egli era mutato, la peste aveva messo in lui una distrazione che con tutte le sue forze egli cercava di negare e tuttavia continuava in lui come una sorda angoscia. In un certo senso, aveva il sentimento che la peste era finita troppo all’improvviso (…). La felicità arrivava di gran carriera, l’evento andava più presto dell’attesa. Rambert capiva che tutto gli sarebbe stato restituito d’un colpo, e la gioia è una bruciatura che non si assapora”.
Arriva la sua donna, arriva col treno, gli corre subito incontro e gli si butta sul petto, proprio come avrebbe voluto e desiderato.
“Tenendola ben abbracciata, stringendo a sé una testa di cui non vedeva se non i capelli conosciuti, egli lasciò sgorgare le lacrime senza sapere se venissero dalla gioia presente o da un dolore troppo a lungo represso, sicuro almeno che gli avrebbero impedito di verificare se il viso affondato nella sua spalla era quello di cui aveva tanto sognato o invece quello di una estranea. Più tardi avrebbe saputo s’era vero il sospetto. Per il momento egli voleva fare come tutti coloro che avevano l’aria di credere, intorno a lui, che la peste può venire e andarsene senza che il cuore dell’uomo ne sia modificato”.
Il sospetto era fondato. Dal momento in cui la peste aveva di fatto chiuso le porte della città, tutti quelli come Rambert erano vissuti nella separazione, “erano stati tagliati fuori dal calore umano che fa tutto dimenticare".
Certo, Rambert aveva ritrovato l’assente che credeva perduto, ma aveva anche colto che quelli come lui “sarebbero stati felici” per qualche tempo, ma sapendo ormai
“che se una cosa si può desiderare sempre e ottenere talvolta, essa è l’affetto umano”.