Bruno Trevellin, L’amore al tempo della peste (e del Coronavirus)
Lettura parafrastica
dal romanzo di Albert Camus, La peste
Raimond
Rambert è uno dei protagonisti minori del romanzo La peste di A. Camus, ma è quello che meglio di ogni altro ci fa
cogliere cosa avvenga, cosa è possibile che avvenga e cosa possa restare del
sentimento amoroso quando si passa attraverso l’esperienza diretta di un
flagello terribile come la peste.
Rambert
fa il giornalista ed è finito a Orano, la città algerina della peste, per
chiedere al dottor Bernard Rieux, il protagonista principale del romanzo, in
cui dobbiamo riconoscere per molti aspetti lo stesso Camus, “ragguagli sulla
condizione di vita degli arabi”.
Ebbene,
una sera Rambert si rivolge proprio a Rieux anche per un aiuto concreto, per un
favore personale, urgente: vuole che il dottore, proprio perché molto stimato
negli ambienti amministrativi, lo aiuti ad andarsene dalla città, chiusa a
causa della peste, per ricongiungersi alla sua donna che si trova a Parigi e
della quale è perdutamente innamorato.
Sì,
si era già rivolto alla prefettura, ma per sentirsi dire sempre e solamente che
non era proprio possibile andarsene da Orano, che “non si poteva fare
eccezione” e anzi era stato invitato a sfruttare la situazione per un reportage
che poteva essere veramente interessante, perchè una città colpita dalla peste
è sempre un buon argomento giornalistico. Rambert, però, non ne vuole sapere di
rimanere e lo confessa sinceramente al dottore che lui non è stato “messo al
mondo per fare dei reportages”, ma “per vivere con una donna”. Per questo gli
chiede di sottoscrivergli un certificato medico che attesti che lui non ha la
peste e che potrebbe servirgli per andarsene “legalmente”. Il dottore però gli
fa subito notare che non può fargli quel certificato perché lui, medico, non
potrà mai attestare che tra il momento in cui uscirà dal suo studio e quello in
cui entrerà in prefettura non sarà contagiato. Gli fa inoltre notare che in
città ci sono migliaia di uomini nella sua stessa situazione che non si possono
proprio lasciare uscire.
“Ma
io non sono di qui!” protesta con forza Rambert, come se non essere del posto
potesse assicurargli una partenza privilegiata e immediata. Il dottore però lo riporta
subito con i piedi per terra, facendogli capire che a cominciare da
quell’esatto istante anche lui, Rambert, deve considerarsi di Orano, come tutti
gli altri abitanti costretti a rimanervi chiusi dentro come in una prigione,
come dei reclusi.
“E’
una questione di umanità, (…) lei non si rende conto di cosa significa una
separazione come questa per due persone che si intendono bene”,
continua
a protestare Rambert. Rieux certo non è insensibile e anzi gli fa capire che desidera
che tutti quelli che si amano e che la peste aveva separato, possano
ricongiungersi, ma proprio non si può. Anche per quel suo caso, come per tutti
gli altri simili, ci sono leggi, decreti, c’è la peste e lui, dottore, poteva
fare solo il suo dovere.
A
quel punto Rambert, seccato, gli risponde che farà in modo di sbrigarsela
diversamente, perché in ogni caso lui vuole lasciare la città, costi quel che
costi.
Non
si dà per vinto e con ostinazione e astuzia si rivolge a un gran numero di
funzionari. Con loro il suo ragionamento è sempre lo stesso: lui è estraneo
alla città di Orano, non è uno del posto, per cui il suo caso deve essere
considerato diversamente. Ma niente, gli rispondono sempre che non si può
creare con lui un precedente. Oppure gli dicono di portare un po’ di pazienza
perché tanto la peste sarebbe stata solo un fenomeno passeggero, una noia
momentanea. Altri lo illudono, facendosi dare una nota scritta sulla sua
richiesta, assicurandogli che se ne sarebbero occupati; altri, come succede
spesso, se la cavano semplicemente indicandogli un altro ufficio a cui
rivolgersi.
Insomma,
ad un certo punto si rende conto che non potrà mai uscire dalla città in
maniera legale e così, tramite un amico, Cottard, entra in contatto con una
organizzazione di contrabbandieri che si occupa della rivendita di sigarette e
alcool, i cui prezzi crescevano ogni giorno di più, traffico che stava consentendo
proprio a Cottard di farsi una piccola fortuna nel bel mezzo della peste, proprio
a lui che era diventato uno squattrinato perché spendeva più di quanto
guadagnava. L’affare infatti sarebbe costato al giornalista diecimila franchi, anche
perché bisogna corrompere delle guardie, ma gli rimane quello e solo quello come
unico modo per andarsene.
La
cosa a un certo punto sembra ormai fatta, quando una sera in un bar Tarrou,
amico del dottor Rieux, dice a Rambert che gli dispiaceva per quella sua
partenza perché avrebbe potuto essere utile nelle formazioni sanitarie di
volontari, organizzate per portare soccorso e organizzare al meglio quanto
richiedeva la situazione venutasi a creare in città con la peste. Questo invito
non lascerà infatti indifferente il giornalista.
Comunque
i ripetuti tentativi non vanno mai in porto, anche perché sempre un qualcosa
impedisce a Rambert di fuggire dalla città e così ogni volta si ritrova a dover
ricominciare tutto da capo, ricominciare a riorganizzare la sua fuga tramite i
contrabbandieri. Alla fine quasi si rassegna. Una sera, con in casa Rieux e
Tarrou, avendo ormai compreso che la peste “consiste nel ricominciare”, chiede
a Rieux spiegazioni proprio sulle formazioni sanitarie. Lui, che aveva fatto la
guerra civile di Spagna dalla parte dei vinti, pensando ai gesti di coraggio che
aveva visto, afferma di sapere che l’uomo è sì capace di grandi azioni, ma che
a lui interessa solo se è capace di un grande sentimento e dichiara di averne abbastanza
delle persone “che muoiono per un’idea”, perché lui non crede all’eroismo: sa infatti
che è facile e, soprattutto, sa che è omicida. Quello che solamente gli
interessa è invece, e se ne rende conto esattamente in quel frangente,
“che
si viva e che si muoia di quello che si ama”.
“L’uomo
non è un’idea, Rambert”, gli fa notare Rieux e lui, prontamente e come
infiammato dalla passione, gli risponde: “E’ un’idea, e un’idea corta, dal
momento in cui ci distoglie dall’amore”, constatando che appunto “noi non siamo
più capaci d’amore”.
Per
Rambert darsi da fare in mezzo alla peste è cioè come un giocare agli eroi.
Rieux gli dà ragione, gli dice anzi che ciò che sta per fare, fuggire, gli
sembra pure “giusto e buono”, ma gli fa anche notare che non si tratta di
eroismo, ma semmai di onestà: unica e sola maniera di lottare contro la peste.
E per lui l’onestà è unicamente fare il suo mestiere di medico lì a Orano con
il flagello imperante.
“Ma
io non so –disse Rambert con ira- quale sia il mio mestiere! Forse io sono
davvero nel torto scegliendo l’amore”.
Comincia
ad avere dubbi Rambert, non solo sul suo mestiere di giornalista, ma pure sul
significato del suo amore. In ogni caso loro, Rieux e Tarrou, non lo possono
capire, perché loro due non hanno nulla da perdere e quindi per loro è più
facile “essere dalla parte giusta”, quella cioè che consiste nel rimanere e
combattere la peste, mentre lui, rimanendo, rischia il contagio, rischia di
morire, rischia di perdere l’amore: rischia di perdere tutto.
A
quel punto Rieux vuota il bicchiere ed esce, seguito da Tarrou, perché ha “da
fare”. Proprio mentre sta per uscire, Tarrou informa il giornalista del fatto
che la moglie di Rieux si trova in una casa di salute a qualche centinaio di
chilometri da Orano. Rambert ne rimane colpito, coglie che anche il dottore ha
qualcosa da perdere proprio come lui e infatti il giorno dopo telefona a Rieux
per chiedergli di prenderlo come volontario nelle formazioni sanitarie. Gli è
cioè bastata una notte per cambiare idea. Anche Rieux aveva da perdere, anche
Rieux era nella sua stessa situazione, diversa solo perché peggiore, nel senso
che sua moglie è non solo lontana e irraggiungibile, ma anche gravemente malata.
Allora
cosa è giusto fare: scappare comunque, anche illegalmente, o rimanere?
Soprattutto,
si può ancora essere liberi durante la peste? Si può cioè poter scegliere? La
risposta di Camus è no! No perchè la peste cancella i destini individuali per
lasciare posto solo a sentimenti condivisi da tutti. E il più forte è quello
della separazione e dell’esilio, che toglie ogni futuro, e quindi l’amore e
l’amicizia.
“La
peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche dell’amicizia; l’amore,
infatti, richiede un po’ di futuro, e per noi non c’erano più che attimi”.
Sarà
questa la riflessione di Rieux. Beninteso, Rambert lavora sodo nelle
formazioni, non lascia tramontare il sogno della fuga, dell’evasione, solo che
non vive più pensando esclusivamente a quella; intanto si dà da fare, lottando
anche lui contro il contagio. Una notte, però, ha una crisi. Uscito da un bar
ubriaco e avendo come l’impressione di essersi preso la peste, si mette a
correre verso la città alta e, arrivato a una piazzetta, “chiamò la sua donna
con un altissimo grido, al di sopra delle mura”.
Tornato
a casa e non vedendosi addosso alcun segno del contagio, quasi si vergognò di
quel suo momento di crisi. “Può capitare che se ne abbia voglia”, gli spiegò
Rieux, che forse era stato tentato anch’egli da quello stesso gesto. Gli
consiglia pure di non frequentare più gli ambienti del contrabbando, perché
stava diventando rischioso. Il suo è un invito a Rambert perché faccia presto a
fuggire.
Finalmente
tutto sembra pronto, la fuga è organizzata per la mezzanotte, ma Rambert ha un
ultimo ripensamento e va a incontrare Rieux. Per dirgli cosa? Per dirgli che
non sarebbe più partito, anzi per dirgli che voleva restare con loro, nelle
squadre sanitarie.
“E sua moglie?” gli chiede Rieux. Restare
significa non solo rinunciare a lei, ma continuare a esporsi al contagio.
“Rambert
disse che aveva ancora riflettuto, che continuava a credere in quello che
credeva, ma che se fosse partito ne avrebbe avuto vergogna; e questo avrebbe
guastato il suo amore per colei che aveva lasciato”.
A
Rieux, che gli fa presente che è una cosa stupida, perché non c’è nessuna
vergogna a preferire la felicità, Rambert risponde, convinto che sì, non c’è
vergogna a preferire la felicità, ma che “ci può essere vergogna nell’essere
felici da soli”. No, essere felici da soli non può più bastare a Rambert, dopo
tutto quello che ha visto e fatto.
“Tarrou,
che sino ad allora aveva taciuto, senza voltare la testa verso loro fece notare
che se Rambert voleva condividere le sventure degli uomini non avrebbe mai più
avuto tempo per la felicità. Bisognava scegliere”.
Rambert
gli risponde che non è stata quella la sua riflessione, ma un’altra e ben
diversa, maturata in quei giorni estenuanti di servizio sanitario.
“Ho
sempre pensato di essere estraneo a questa città e di non aver nulla a che fare
con voi. Ma adesso che ho veduto quello che ho veduto, so che io sono qui, che
io lo voglia o no. Questa storia riguarda tutti”.
Del
resto neanche per gli altri due si trattava di scelta. Neanche loro avevano
scelto, neanche Rieux.
“Nulla
al mondo vale che ci distolga da quello che si ama. E tuttavia me ne distolgo
anch’io, senza poterne sapere la causa (…). È un fatto, ecco tutto (…).
Registriamolo e ricaviamone le conseguenze (…). Non posso nello stesso tempo
guarire e sapere (…). E allora guariamo il più presto possibile: è la cosa che
più importa”.
È
con queste parole che il dottore chiude quella loro concitata discussione.
La
natura vera dell’amore è dunque quella di una continua mancanza e
incompletezza. Rieux, ad esempio, sapeva che sua madre lo amava, ma sapeva
anche
“che
non è gran cosa amare una creatura o almeno che un amore non è mai sì forte da
trovare la propria espressione. Di modo che sua madre e lui si sarebbero sempre
amati in silenzio. E lei sarebbe morta –o lui- senza che, durante la loro vita,
fossero potuti andare oltre, nella confessione del loro affetto. Nello stesso
modo egli era vissuto accanto a Tarrou, e questi era morto, quella sera, senza
che la loro amicizia avesse il tempo di essere veramente vissuta”.
Cosa
si guadagna allora? Si guadagna ciò che resta, cioè il ricordo, dell’amore e
dell’amicizia, anche se è duro vivere solo di quello che si ricorda e privati
di ogni speranza, senza la quale non c’è pace.
Verso
la fine del romanzo Rieux viene informato della morte della moglie per
telegramma. Accoglie la notizia con calma. Era una cosa penosa, ma se l’aspettava,
perché sapeva
“che
la sua pena era senza sorpresa. Da mesi e da due giorni (da due giorni gli era
morto l’amico Tarrou), era lo stesso dolore che continuava”.
Una
bella mattina di febbraio le porte della città vennero aperte. La peste
finalmente se ne era andata, ma aveva fatto il suo lavoro, quello di mutare il
cuore degli uomini. Un senso vago faceva loro desiderare che, dopo tanti mesi
perduti nella lontananza, nel distacco forzato, “il tempo della gioia avrebbe
dovuto trascorrere due volte meno in fretta del tempo dell’attesa”, ma non sarà
così e a quegli uomini, come Rambert, non restavano ora che l’impazienza e lo
smarrimento del ricongiungimento.
“L’amore
o l’affetto che i mesi di peste avevano ridotto all’astratto, Rambert ora
aspettava, in un tremito, di confrontarlo con la creatura di carne che n’era
stata il sostegno.
Avrebbe
desiderato diventare colui che al principio della peste voleva correre con un
solo slancio fuori della città, e slanciarsi incontro a colei che amava; ma
sapeva che non era più possibile. Egli era mutato, la peste aveva messo in lui
una distrazione che con tutte le sue forze egli cercava di negare e tuttavia continuava
in lui come una sorda angoscia. In un certo senso, aveva il sentimento che la
peste era finita troppo all’improvviso (…). La felicità arrivava di gran
carriera, l’evento andava più presto dell’attesa. Rambert capiva che tutto gli
sarebbe stato restituito d’un colpo, e la gioia è una bruciatura che non si
assapora”.
Arriva
la sua donna, arriva col treno, gli corre subito incontro e gli si butta sul
petto, proprio come avrebbe voluto e desiderato.
“Tenendola
ben abbracciata, stringendo a sé una testa di cui non vedeva se non i capelli
conosciuti, egli lasciò sgorgare le lacrime senza sapere se venissero dalla
gioia presente o da un dolore troppo a lungo represso, sicuro almeno che gli
avrebbero impedito di verificare se il viso affondato nella sua spalla era
quello di cui aveva tanto sognato o invece quello di una estranea. Più tardi
avrebbe saputo s’era vero il sospetto. Per il momento egli voleva fare come
tutti coloro che avevano l’aria di credere, intorno a lui, che la peste può
venire e andarsene senza che il cuore dell’uomo ne sia modificato”.
Il
sospetto era fondato. Dal momento in cui la peste aveva di fatto chiuso le
porte della città, tutti quelli come Rambert erano vissuti nella separazione,
“erano stati tagliati fuori dal calore umano che fa tutto dimenticare".
Certo,
Rambert aveva ritrovato l’assente che credeva perduto, ma aveva anche colto che
quelli come lui “sarebbero stati felici” per qualche tempo, ma sapendo ormai
“che
se una cosa si può desiderare sempre e ottenere talvolta, essa è l’affetto
umano”.