domenica 29 luglio 2018

LA LINGUA ISTRIOTA NELLA LETTERATURA ISTRO-QUARNERINA: LE LIRICHE DI LIGIO ZANINI


LA LINGUA ISTRIOTA NELLA LETTERATURA ISTRO-QUARNERINA: LE LIRICHE DI LIGIO ZANINI



PREMESSA



Credo sia necessario, prima di procedere alla trattazione dell’argomento oggetto di questa ricerca, introdurre una premessa fondamentale: il tema affrontato mi sta particolarmente a cuore, non solo per la mia passione per la letteratura in generale, ma anche e soprattutto perché mi trovo personalmente coinvolta. I miei genitori sono profughi di quelle terre che l’Italia fu costretta a cedere alla Yugoslavia con il Trattato di Parigi del 1947, fanno parte di quei circa trecentocinquantamila esuli Giuliani, Fiumani e Dalmati che abbandonarono tutto per continuare ad essere Italiani e vivere da uomini liberi. Ma è rimasto un legame profondo ed indissolubile con quei luoghi e papà e mamma hanno saputo trasmetterlo anche a me. Appena possibile scappo a respirare un po’ di quell’aria profumata di sale, a contemplare quel mare di un azzurro intenso e limpido, ad ascoltare il rumore delle onde che si rincorrono quando soffia la bora, il vento del Quarnero. E quella parlata dialettale, un misto di veneto ed istriano che ho sempre sentito in casa, mi sembra una musica dolce che evoca tanti preziosi ricordi.

Mi accingo quindi ad affrontare l’argomento proposto con un forte coinvolgimento personale, perché qualsiasi cosa mi riporti in quei luoghi, anche se solo con il pensiero, fa vibrare forte le corde del cuore!

Nella produzione letteraria istro-quarnerina la poesia dialettale espressa in istrioto, possiede una forza eccezionale e occupa un posto di tutto rispetto. Ma prima di scoprire l’uso straordinario della lingua istriota da parte di uno dei maggiori autori che scelsero di esprimersi attraverso questa parlata, Ligio Zanini, è necessario soffermarsi a considerare un breve profilo storico e l’evoluzione di questa particolare lingua.

Qui di seguito si inseriscono due cartine geografiche per evidenziare l’area interessata dalla lingua istriota ed averne così una collocazione più precisa.



LINGUA ISTRIOTA: PROFILO STORICO E DIFFUSIONE.



Fu Graziadio Ascoli, colui che fondò la glottologia nella seconda metà del XIX secolo, a coniare il termine “istrioto”, riferendosi alle popolazioni ladine che popolavano l’Istria in epoca romana.

Secondo il linguista Matteo Bartoli, la lingua istriota trova le sue origini nella scelta di Ottaviano Augusto di far stabilire nel territorio di Pola che si estendeva dal Canal di Leme all’Arsa, i veterani del suo esercito vittorioso. Questi soldati legionari, provenienti per la maggior parte dall’Abruzzo e dalla Puglia, si mescolarono agli Illiri (o veneto-illirici denominati Histri) autoctoni dell’Istria e del Quarnero e diedero così origine al popolo ed alla cultura istriota dell’Istria meridionale.

Uno storico, Bernardo Benussi, notò che il dialetto istriano presentava numerosi elementi di contatto con l’abruzzese ed il tarentino e perciò arrivò ad ipotizzare che questa somiglianza derivasse dai coloni romani che Augusto decise di insediare nella colonia di Pola ed originari dell’Italia meridionale. Questa teoria pare essere confortata dalla presenza, solo nella zona dell’ex agro romano di Pola, delle caratteristiche costruzioni in pietra a pianta circolare costruite a secco dai contadini istriani, chiamate “casite” e molto simili ai trulli pugliesi.

Il carattere spiccatamente romanzo di questo antico dialetto neolatino, risulta evidente se si effettua una rapida rassegna dei nomi degli animali domestici nei dialetti istrioti dell’Istria sudoccidentale. La parola “Animal,-is”, sostantivo neutro della terza declinazione si è conservato nei dialetti istrioti nelle forme “anamal, anemal” cambiando di genere in quanto il neutro è stato eliminato dalla lingua ed è stato fatto confluire nel maschile, come anche il suo plurale “Animalia,ium” diventato anamai, anemai, animai (pl.m.), conservato nella forma “anamalia” nel rovignese. Per quanto riguarda la parola “Bestia, -ae” (che indica gli animali allevati per l’agricoltura e l’alimentazione), sostantivo femminile della prima declinazione latina e la parola latina medioevale “Bestiamen,-is”, esse si sono mantenute nei dialetti istrioti  per indicare la bestia e il bestiame. Altro esempio è lo zoonimo latino “Asinus,-i”, sostantivo maschile della seconda declinazione, si è conservato nel vallese nella forma “aseno”, mentre è molto più in uso in tutti i dialetti istrioti la forma “samer, samerul, samier” indicante l’asino o animale da soma, derivante dal latino volgare sagmarium. La vacca da latte o mucca viene così chiamata nei dialetti istrioti: nel rovignese “ar’menta”, nel vallese, dignanese, gallesanese, fasanese e sissanese “ ‘vaka”. La parola vacca, che indica la femmina adulta del bue deriva dal latino “Vacca” ed è panromanza. Il bue, il maschio dei bovini, castrato per essere utilizzato come animale da lavoro e da macello, viene così denominato nelle parlate istriote: nel rovignese, vallese, dignanese, gallesanese e sissanese “manzo”, nel  fasanese “man ‘o”. La parola bue deriva dal latino “Bos, Bovis”, panromanzo, questo sostantivo maschile della terza declinazione si è conservato soltanto nell’antico dignanese nella forma “bou”.

Per quanto riguarda la parola cane, essa deriva dal latino “Canis,-is”  ed in rovignese è diventata “can”. Cavallo invece trae origine da “Caballus” , cavallo castrato : nei dialetti istrioti il cavallo viene detto “ka’val”, mentre la parola latina “Equus,-i”, sostantivo maschile della seconda declinazione, non si è conservata nei dialetti istrioti. Ancora un esempio: il termine “gatto” deriva dal latino scientifico “Felis Catus” . Nei dialetti istrioti il gatto viene detto “gato”, si può notare che la parola del latino classico “Felis,-is”, sostantivo femminile della terza declinazione, non si è conservata nei dialetti istrioti, ma lo zoonimo “gato” deriva dal latino volgare “Cattus”.

Con una curiosa rassegna dei nomi di alcuni fra i più comuni animali domestici, si è potuto ribadire ancora una volta l’impronta romanza di questo dialetto neolatino.  

Le parlate istriote (rovignese, vallese, dignanese, gallesanese, fasanese, sissanese) rappresentano le sole parlate neolatine autoctone nella regione istriana che si sono sviluppate direttamente dal latino volgare parlato un tempo in Istria, assai prima che venisse acquisito il veneziano, il cui influsso inizia vero l’anno Mille e si afferma con forza nel Quattrocento. Furono le persone autoctone del territorio che appartenevano allo strato sociale più basso, marinai, agricoltori, contadini, a consentire la continuità di quell’antica latinità istriana.

Un tempo l’istrioto era parlato in tutta l’Istria ed era una cosa sola con il friulano e con il dalmatico. La prima frattura del latino volgare unitario nella Romania linguistica iniziò dal IV e terminò verso il IX secolo, in seguito le lingue romanze iniziarono la loro evoluzione e, in conseguenza dell’invasione slava di queste terre (VI e VII secolo), si crearono tre differenti dia sistemi romanzi: il friulano a nord, l’istrioto in Istria e il dalmatico in Dalmazia e sulle sue isole. I Romani dell’Istria diedero origine ad una loro lingua, l’istrioto che seguì uno sviluppo autonomo fino all’arrivo dei Veneziani che, grazie all’egemonia politica e commerciale della Serenissima, imposero il loro idioma, simbolo di prestigio e cultura. In questo modo in Istria, grazie ai contatti quotidiani, ebbe origine un altro dialetto romanzo, l’istroveneto che poco a poco soppiantò l’istrioto parlato nei paesi; medesima sorte toccò al dalmatico. 

Siccome non c’era un centro principale che servisse da collegamento fra le varie località e la gente istriota, a Rovigno, Dignano, Sissano, Valle, Fasana e Gallesano si svilupparono delle parlate locali diverse ed ognuna con delle caratteristiche proprie, benché simili poiché si potevano ricondurre ad una base comune: tutte infatti derivavano dal latino volgare parlato nella penisola istriana dal 177 a.C. in poi. Ai giorni nostri queste oasi linguistiche istriote che ancora salvaguardano la loro parlata  originaria, sono letteralmente circondate da paesi in cui le lingue usate sono l’istroveneto e il dialetto croato ciacavo che sopprimono inesorabilmente le uniche antiche testimonianze neolatine istriane. La lingua istriota oggi viene parlata (quasi esclusivamente come seconda lingua o come lingua familiare) da 1000-2000 persone nell’Istria meridionale e da ancora poche migliaia di profughi ed esuli istriani dispersi in Italia e nel mondo.

L’UNESCO considera l’Istrioto una lingua a “serio rischio d’estinzione” nel suo “Red Book of seriously endangered languages”: sarà un vero peccato se non si riuscirà a far sopravvivere questo patrimonio culturale ed umano da trasmettere alle future generazioni.

In conclusione di questa prima parte, possiamo affermare che quanto evidenziato fin qui assume una valenza particolare, se consideriamo la parlata istriota oggetto di questo lavoro, ma possiamo estendere le nostre riflessioni a livello generale se consideriamo il valore che ciascun dialetto riveste per il territorio in cui viene parlato: la presenza di un dialetto o di più dialetti in una regione, rappresenta un dato fondamentale per comprendere il paesaggio umano, un bene prezioso da conservare e tutelare come si fa con una chiesa o con un monumento. Tra un dialetto ed il suo territorio non c’è solo una casuale coincidenza geografica, ma un legame essenziale, il legame con la solidità delle radici che permette la conservazione delle risorse umane e culturali della comunità. Il dialetto in sintesi è un fattore comunicativo e culturale vivo, se viva è la cultura locale, se viva è l’identità del gruppo umano che lo parla, uno strumento di creatività ed espressività fino a quando esiste una collettività che vi si riconosce e che attraverso esso si conosce.



LA LETTERATURA IN LINGUA ISTRIOTA. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE ED IL CONTRIBUTO DI UNO DEI SUOI MAGGIORI ESPONENTI: LIGIO ZANINI.



Nonostante la sua incontestabile antichità, non sono pervenuti testi in istrioto antecedenti al 1835, anno in cui un appassionato erudita torinese, Giovenale Vegezzi Ruscalla, allo scopo di radunare in una raccolta antologica un saggio di tutti i dialetti italiani, aveva chiesto ai letterati delle singole regioni italiane di fornire nel proprio vernacolo la traduzione della Parabola del Figliuol prodigo. Ma forse l’opera più importante per la tutela del patrimonio culturale racchiuso nell’antico linguaggio istrioto è l’antologia “Canti Istriani” edita nel 1877 nella collana curata da Domenico Comparetti ed Alessandro D’Ancona, “Canti e racconti del Popolo Italiano”. La raccolta di canti, indovinelli, stornelli, ecc. si deve alla precisa opera dell’allievo di Isaia Ascoli, Antonio Ive, che li raccolse quasi esclusivamente nella natia Rovigno. Risale all’incirca alla metà dell’Ottocento il primo dizionario d’istrioto manoscritto: il dizionario Dignanese-Italiano opera di Giovanni Andrea Dalla Zonca ed edito nel 1978 nella collana degli Atti del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno.

Si può affermare che i primi testi istroromanzi non sono nati per necessità pratiche, né sono funzionale conseguenza dell’assurgere di un idioma a lingua, ma piuttosto sono sorti per la curiosità di filologi ed eruditi locali.

Più recentemente molti poeti hanno composto le loro opere in lingua istriota considerandola un mezzo espressivo di grande potere suggestivo e rievocatorio della vita di mare, della campagna e degli antichi usi e costumi della loro gente: tra gli innumerevoli cantori considereremo in particolare Ligio Zanini. 

 Prima di procedere nella trattazione e proporre l’opera di Zanini, mi sembra importante fare  alcune riflessioni a carattere generale. Innanzitutto ci poniamo una domanda: perché si scrive ancora in italiano e in dialetto? Certamente ogni autore ha diverse motivazioni, si scrive in italiano e in dialetto fondamentalmente per soddisfare un bisogno personale, intellettuale e sentimentale al tempo stesso, ma si scrive anche per comunicare un’esperienza, per comprendere gli altri, per dare sfogo ai ricordi. Ma si può senza alcun dubbio affermare che ci sono due elementi caratteristici che contraddistinguono gli autori di queste terre: la maledizione dell’esodo, una sensazione molto radicata, la consapevolezza di una tragedia che non lascia tregua a chi l’ha vissuta e la posizione sociale, percepita come anomala, indicativa di una minoranza nazionale e di una diversità profonda. 

Ligio Zanini è uno dei più autorevoli esponenti della “letteratura dei rimasti” che hanno cercato di difendere un’identità da sempre osteggiata e perseguitata. Gli Italiani rimasti dovettero sostenere una lotta estenuante per non farsi assorbire e sommergere dall’ondata slavizzatrice e mantenere viva la lingua italiana in Istria. Coloro che non scelsero la via dell’esilio, ma vollero rimanere nella propria terra, conobbero la tragedia dei rinnegati e l’umiliazione di sentirsi stranieri in casa propria.

Il dialetto locale diventa così uno strumento fondamentale di comunicazione, per i “rimasti” quasi un linguaggio in codice che fa parte dello stile di vita istriano e conserva nitido e forte quel sentimento di appartenenza ad una comunità di grande storia e tradizioni.

Nella regione istro-quarnerina i dialetti rappresentano un’esperienza plurisecolare, una ricchezza incalcolabile ed un vero e proprio simbolo di identificazione, di appartenenza. Come tutti i dialetti, anche questi, ed in particolare quello istrioto oggetto di questo lavoro, sono testimonianze preziose  di una storia civile e culturale, raccontano la vita e le esperienze delle persone che li hanno parlati e li parlano. La lingua istriota è diventata la lingua di una ricca produzione letteraria, lirica e narrativa che dimostra la diversità culturale di quel territorio e la potenzialità delle parlate locali, custodi di un importante e ricco patrimonio di storia e tradizioni. Questa parlata permette ai poeti dialettali istriani anche di esprimere la loro peculiare specificità in un linguaggio che racconta una realtà anomala e complessa.

 Un breve accenno va rivolto anche alle tematiche trattate nella creazione poetica: l’elemento centrale al quale si legano quasi tutti i temi è la memoria che costruisce il nostro vissuto, ciò che stato perduto è oggetto di ricordo e suscita, di conseguenza, nostalgia. La scrittura diventa così un mezzo di trasmissione del ricordo e quindi la memoria rappresenta un modo per fermare il tempo. Negli autori è molto forte e sentito il tema del ricordo dell’infanzia, della terra madre, dei propri avi. Altro tema centrale è quello dell’esodo, le radici strappate con violenza, perdute, trapiantate, ritrovate e poi nella produzione letteraria sono diffuse le sensazioni legate al confine inteso come luogo fisico, spesso, soprattutto per questa gente, luogo di scontro e di incontro di sentimenti e stati d’animo che possono appartenere solo alla gente di frontiera. Strettamente legati ai temi sopra descritti, sono quelli della guerra, della famiglia e del rispetto delle tradizioni e delle usanze dei propri antenati. I temi trattati comportano poi una inevitabile conseguenza, il trovarsi di fronte all’amletico interrogativo se accettare il proprio destino oppure ribellarsi ad esso.





LIGIO ZANINI



Nacque nella cittadina costiera istriana di Rovigno nel 1927 e lì visse parte dell’infanzia fino a quando il papà, un mastro che faceva carri ma anche battane, remi e alberi di goletta, per difficoltà economiche dovette vendere il negozio e trasferirsi con la famiglia a Pola. Poiché la lingua materna di Ligio era l’istrioto, non fu facile il suo inserimento a scuola, in quanto a Pola si parlava l’istro-veneto. Alla fine della seconda guerra mondiale cominciò a frequentare i giovani antifascisti polesi, diplomandosi all’Istituto Magistrale nel 1947, proprio nel momento dell’esodo più intenso che colpì l’Istria. Si iscrisse al Partito Comunista Jugoslavo ed iniziò ad insegnare nelle scuole elementari, ma ben presto divenne capoufficio per le scuole italiane presso il Dipartimento dell’Istruzione di Pola. Si accorse in breve tempo che l’incarico gli venne affidato poiché, giovane ed inesperto, facilmente avrebbe potuto essere influenzato dai funzionari sloveni e croati: questo lo portò a riflettere sulle manipolazioni attuate dalle ideologie e nel 1948, il momento più turbolento  della rottura fra Tito e Stalin, si pronunciò con una condanna di entrambe le posizioni in lotta e si dimise dal Partito comunista. Questa scelta la pagò con l’arresto: nel 1949 la polizia segreta jugoslava lo internò nelle carceri di Pola e, in seguito ad un sommario processo, fu condannato a tredici mesi di lavori forzati nel campo di concentramento di Goli Otok (Isola Calva). La pena verrà prolungata e Zanini trascorrerà quasi tre anni ai lavori forzati, questa esperienza lo segnò profondamente. Venne liberato nel 1952 con l’impegno di non parlare a nessuno delle tremende esperienze vissute nell’isola. Passò un periodo di “libertà sorvegliata”, fu costretto a lavorare come magazziniere nel cantiere navale Stella Rossa di Pola e gli venne categoricamente vietato l’insegnamento. L’interessamento di suoi amici e di intellettuali polesi che conoscevano la sua vasta produzione poetica, pubblicata non ufficialmente e diffusa in copie dattiloscritte, gli permise di trovare un nuovo impiego come ragioniere, finchè nel 1959  gli fu permesso di tornare ad insegnare.

Si trasferì a Salvore per riaprire la scuola elementare italiana chiusa dagli jugoslavi nel 1953. Vi rimase per cinque anni e fondò il locale Circolo Italiano di Cultura (oggi Comunità degli Italiani). Fece ritorno a Rovigno nel 1964 e lavorò come contabile, ma nel 1966 si licenziò e visse di pesca fino al 1972, anno in cui gli offrirono un posto come maestro nella scuola elementare di Valle. In quel paesino, vicino alla sua amatissima Rovigno, vi restò fino alla pensione. Nel 1979 riuscì a conseguire la laurea in Pedagogia presso l’Università di Pola.

Trascorse gli ultimi anni della sua vita dedicandosi interamente alle sue due grandi passioni, la pesca e la poesia, intrattenendo anche rapporti epistolari con poeti italiani fra i quali Biagio Marin che fu suo carissimo amico.

A causa di un male incurabile, morì il 1 luglio 1993 nell’ospedale di Pola. In quella occasione scrissero di lui: “Con la sua barca, il Cucal, proprio come un gabbiano leggero sull’Adriatico, se n’è andato al largo verso l’infinito il poeta Ligio Zanini che con il dialetto di Rovigno d’Istria ci ha dato poesia, come ha fatto Biagio Marin con il dialetto di Grado.”





LA POETICA DI LIGIO ZANINI.



Per la forza espressiva della sua poesia, strettamente legata alle sue vicende personali, al suo amato mare ed alla natura, Ligio Zanini è di diritto considerato una delle voci più intense ed autentiche della poesia dialettale contemporanea. Lo stesso poeta fornisce le coordinate geografiche e tematiche per delimitare la sua produzione letteraria: un “triangolo di terra e acqua” che Zanini descrive minuziosamente e con profondo sentimento. Ci presenta boschi, montagne,  ridenti paesi, chiese, isolotti, tratti di costa, fondali, scogli, insenature, secche portandoci in un viaggio immaginario a conoscere, palmo a palmo, quei luoghi per i quali egli nutre un amore intenso che traspare da ogni verso; questa conoscenza precisa deriva dal suo legame profondo con quella terra e la sua gente. In alcuni casi fornisce anche le spiegazioni del significato che quegli stessi luoghi hanno per i vecchi pescatori rovignesi, frequentatori abituali di quelle acque. Con l’intenzione di farsi comprendere e di raggiungere così un pubblico ancora più vasto, traduce tutte le sue poesie, scritte in istrioto, in lingua italiana. Ma in questo modo Zanini cerca soprattutto di salvaguardare il dialetto rovignese che, dopo il cambiamento radicale della componente etnica della cittadina in seguito all’esodo della maggior parte della popolazione autoctona, rischiava di scomparire.

Il piccolo mondo protoromanzo rovignese e zaniniano non esclude, in ogni caso, il ‘fratello slavo istriano’ con il quale la convivenza nel passato era possibile ed era una realtà tangibile, com’e evidenziato nella lirica “ Pubrateine” [Fratello] tratta dalla silloge” Terra vecchia”(stara), mentre nel presente è – pur restando ambita per via dell’auspicabile rinascita dei valori umani – di difficile concretizzazione:



Pubrateine, sigouro ti ta racuordi del lughito che ti m’arivi e dei veide ch’i t’incalmivo... I tuoi gaiardi bianchi fiva muliseina la miea puoca tiera e svielte le miee man ganbiva el salvadago in ustran. Cuntento ti ma ie da tu feia, ca favalando cume mei la f va la sua schera, ca cantando e piurendo cun mei la ma uò da tanti fioi. Ma la longa tanpastada masacra ‘nda uò miese criatoure dastrusendo i nostri loghi: la tiera xi turnada doura, li veide xi rusagade dal lagrami. Pubrateine mieo, lassemo che li sigale canto cume preima dela tanpastada, la nostra tiera viecia-stara spieta da nui par iessi guvarnada; fassile i faremo giudando i nostri fioi ca da su nuono i uò inparà a purtà cun amur i gaiardi bianchi, ca da su pare i uò veisto salvà li veide dala filuossara. 











Pubrateine [Fratello]: Fratello, certamente ricordi / del campicello che mi aravi / e delle viti che ti innestavo... / I tuoi buoi forti e bianchi / rendevano soffi ce la mia poca terra / e agili le mie mani trasformavano / il selvatico in nostrano. // Contento mi desti tua figlia, / che parlando con me /riordinava il suo filare, / che cantando e piangendo con me / mi ha dato tanti figli. // Ma la lunga grandinata / ci ha trucidato molte creature / devastando i nostri campi: / la terra e ritornata dura, / le viti sono corrose dalla gramigna. // Fratello mio, / lasciamo che le cicale friniscano / come prima della grandinata, / la nostra terra molto vecchia / attende da noi di essere coltivata; / ci sarà facile aiutando i nostri figli, / che dal loro nonno hanno appreso / a condurre con amore i buoi forti e bianchi, / che dal loro padre hanno visto salvare le viti dalla fillossera.





Se la convivenza, dunque, era nel passato una realtà concreta vissuta in maniera solidale almeno dai ceti popolani che non erano ancora stati guastati dal settario stile di vita borghese (nonchè dalla sua concezione del mondo determinata innanzitutto dal profitto e quindi prettamente individualistica) e il cui primario interesse era sottrarsi alle strettoie della povertà; se la convivenza era concepita provvidenzialmente dal basso e non soltanto artificiosamente ‘imposta’ dall’alto per vie politiche, ebbene, Zanini in molti altri componimenti poetici avverte che quella convivenza è per lui e per la sua gente irrimediabilmente caduta fra l’incudine e il martello dello svolgimento storico che ha investito l’etnia italiana del territorio, riducendola a minoranza in conseguenza dei noti sconvolgimenti sofferti dalla comunità, svilita in Slovenia e in Croazia dal punto di vista numerico durante e dopo la tragedia dell’esodo. Tanto che per essa il sole “ va in sacco.” Insomma: un conto è la convivenza paritetica e proficuamente prodottasi dal basso tra genti, lingue e culture diverse, tutt’altro conto è la ‘convivenza’ raggiunta per vie amministrative, quando la componente minoritaria reclama i diritti come una ragione sacrosanta, mentre la parte maggioritaria li assume come forzata ragion di Stato, come benevola concessione.

 Le sue liriche possono essere interpretate considerando tre diversi piani di lettura, come si evince dall’analisi di questa poesia:



ISTRIOTO                                                                              ITALIANO

« In tanti sensa nom i giariendi, a miere inda ingrumiva e senpro in tanti i rastiendi.



In puóchi sensa nom i signemo rastadi, puóchi inda ingrumide e ciari i crissemo duópo ingianaradi.





« In tanti senza nome eravamo, a migliaia ci raccoglievano e sempre in tanti rimanevamo.



In pochi senza nome siamo rimasti, pochi ci raccogliete ed in pochi diventiamo adulti.











Cula vostra cragna inda massì li úe e quii puóchi, intel mar de casa nostra, i signemo senpro intra li rúe.





A nu saruò culpa da nui sensa nom, i nu vemo denti par mursagà, ma va rastaruò nama ch'i uóci par piurà ch'inda vì dassamansà. 





Con la vostra sporcizia ci uccidete le uova e quei pochi, nel mare di casa nostra, siamo sempre tra le spine.



Non sarà colpa di noi senza nome, non abbiamo denti per mordere, ma vi rimarranno soltanto gli occhi per piangere di aver fatto estinguere la nostra specie. 



(Sensa nom –Pesce senza nome- Terra vecchia-stara)



Il primo piano è quello descrittivo: i pesci della lirica sono reali, esseri acquatici che respirano con le branchie sott’acqua, la sporcizia che uccide le uova di questi pesci è l’inquinamento e quindi l’uomo il responsabile della loro estinzione; il secondo piano di lettura è quello allegorico: i pesci rappresentano i rovignesi autoctoni, non le orate e i branzini delle ricche tavolate, ma il ceto popolano di umili contadini e pescatori, ossia quella moltitudine di donne e uomini “pesciolini senza nome” per la maggior parte fuggiti via dopo il 1945 a causa dell’esodo, pochi dei rimasti riescono a rimanere ancora sé stessi, cioè “rovignesi veraci” e diventare adulti, tutti gli altri sono “raccolti”, cioè vengono assimilati, si uniformano. A questo punto risulta evidente che l’inquinamento di cui Zanini scrive non è solo dell’habitat, ma ha a che fare con l’onestà intellettuale, con l’onestà politica, con l’onestà etica o con la semplice onestà, della quale l’umanità generalmente difetta. Il terzo piano di lettura riguarda l’universalità del messaggio, il poeta si rivolge a chi legge i suoi versi per ricordare che quanto accaduto nella sua amata terra, potrebbe verificarsi in altri luoghi ed in tempi diversi. Dalla semplice osservazione e quindi descrizione precisa della realtà, si passa all’allegoria, un’immagine utilizzata per esprimere un significato riposto, un concetto e si arriva al messaggio, forse ciò che più sta a cuore al poeta.

Nel terzo piano i contenuti si rivolgono alla totalità degli individui, di ogni meridiano e parallelo, e  non riflettono perciò unilateralmente la sola condizione di Rovigno, geograficamente e storicamente stabilita nel secondo piano. La distinzione fra il secondo e il terzo piano, quindi, è da ricercare nella diversa ‘diramazione’ che le emissioni simboliche e/o allegoriche dei messaggi poetici assumono di caso in caso, ossia di poesia in poesia. Se le emissioni si fermano al “mondo a se stante”, allora si resta al secondo piano di scrittura/lettura. Se invece le emissioni sopravanzano quel “mondo” e progressivamente si estendono oltre i suoi restrittivi limiti (come d’incanto, ma di causa in effetto), si è nel terzo piano di scrittura/lettura. Non ci si soffermerà su quest’ultimo piano, che si giudica abbastanza  scorrevolmente ‘transitabile’ da qualsiasi lettore interessato ad ispezionare personalmente (facendo perno sulle proprie riflessioni) i contenuti di larghe intese esposti da Zanini. Ossia quei contenuti comprensibili e condivisibili da chiunque, anche da chi non ha vissuto o conosciuto i  relativi avvenimenti storici del Ventesimo secolo sotto la volta celeste rovignese e istriana. Sembra più interessante vedere da vicino il modo in cui la materia poetica zaniniana entra nell’ordine delle cose, individuali e collettive, che l’hanno definita e che è inseparabile, appunto, da quella Rovigno che l’autore è sempre stato incapace di abbandonare, com’è lampante nella lirica Al saniciaro mieo [Al passero mio] della silloge Con la prora al vento:



Mieo saniciaro, zuta l’oultimo cupo de la nostra casita viecia, ma salda intula gruota, altro gianeico anda spieta. Al tenpo maladito de la Livantiera passada, tramenda pel lughito nustran, ti giri ancura in neil e me’ iè salgisto da rastà, anche par tei; ciapando spisso malidissioni, cu da grandito ti tramivi da frido.

Caminando a sa uò ‘un puo giustà la suoma, i vemo bou ‘un fia da sul e ti iè dasmisso da malideime, gudendo stu biel lughito in fiur; ma quil cian da calur, da ciaransana, a xi stà nama ‘un sugavile infra du ragani da la Murlacheia. Saniciaro mieo, za bon da incalmà li ue, par sta nua Murlaca ti iè da sielgi tei, anche pei saniciareini tuovi; nama i puoi deite: – I nu son stà e i nu sarie mai oun rundon, siur del sil, ca sa la bato mondo preima de la gravisana, e saruò senpro el lughito dei miei vieci, quil ch’i tendo cun amur infra i griebani bianchi, da la puoca tiera russa e maciada da virdo, a brama da iessi mieo, fente l’oultimo raspeiro   

 Al saniciaro mieo [Al passero mio]:Mio passero, / sotto l’ultimo coppo / della nostra casetta vecchia, / ma salda sulla roccia, / un altro gianico ci attende. // Al tempo maledetto / della Levantera passata, / tremenda per il campicello nostrano, / eri ancora nel nido / e ho scelto di rimanere, / anche per te; / ricevendo spesso le maledizioni, / quando da grandicello / tremavi dal freddo. // Camminando si e un po’ aggiustata la soma, / abbiamo avuto un barlume di sole/ e hai smesso di maledirmi, / godendo questo bel campicello in fi ore; / ma quel poco calore, di luce fosca, / e stato soltanto un asciugavele / fra due uragani dalla Morlacchia. // Passero mio,/ già maturo per fecondare le uova, / per questa nuova Morlacca / hai tu da scegliere, / anche per i passerotti tuoi; / posso dirti soltanto: / – Non sono mai stato / e non sarò mai un rondone,/ signore del cielo che fugge anche prima del maltempo, / e sarà sempre il campicello dei miei antenati, / quello che curo con amore, fra i sassi bianchi / con poca terra rossa maculata di verde,/ a bramare d’essere mio, fino all’ultimo respiro.



Tuttavia non risulterà superfluo rendere qui almeno un ‘campione’ del terzo piano di lettura, perfettamente percepibile nella lirica Cougoli [Ciottoli] dalla silloge Mar quito e alanbastro [Mare quieto e limpido]:



Ali Ponte, fora deli aque muorte, el mar raia zura da nui giuorno e nuoto. Nel bianco rabisso na stramania par la cuguliera, oun contro l’altro e douti contro li gruote; da nui, pin pian; fa loustro sabion. Giuorno e nuoto, el mar douti na stramania e sensa riequie a sa stramania anche lou.

Alle Punte, / fuori dalle acque morte, / il mare urla su di noi / giorno e notte. // Nella bianca furia / ci sbatte / per la cogolera, / uno contro l’altro / e tutti contro le rocce; / di noi lentamente / fa lucida sabbia. // Giorno e notte, / il mare tutti / ci tormenta / e senza requie / tormenta / anche se stesso.  

 Da un’immagine consunta a un forte traslato metaforico: i ciottoli che sbattono uno contro l’altro e tutti contro le rocce sono la personificazione degli uomini e delle loro piccole esistenze in balia della vita.





IL RAPPORTO VITA-MARE DI ZANINI OUTSIDER.

Dall’analisi delle poesie di Ligio Zanini, così come dall’unico romanzo che scrisse e che considereremo più avanti, risulta evidente il suo profondo legame con il mare, una metafora della vita. Il mare può essere calmo e limpido oppure agitato e torbido e come sono i differenti fenomeni atmosferici a turbare la tranquillità delle onde, così la vita degli uomini è spesso sconvolta dai rapporti con le persone, sia a livello familiare che a livello generale considerando le diverse classi sociali, le razze e le nazioni. Questa consapevolezza gli deriva dalle dolorose vicende che hanno segnato la sua esistenza e che attraversano tutta la sua produzione poetica.

Nella poesia presentata poco sopra, “Cougoli”, sembrerebbe che la vita rappresentata simbolicamente dal mare, abbia una potenza sproporzionata e dispotica nei confronti degli uomini. Ma se consideriamo l’intera produzione lirica di Zanini, si comprende che per il poeta la realtà non ha un potere assoluto e tirannico sull’esistenza umana. Nonostante al termine di questi versi (“Giorno e notte,/ il mare tutti/ ci tormenta/ e senza requie/ tormenta/ anche se stesso”) pare che si giunga a questa conclusione, in realtà i rapporti relazionali tra la vita (il mare) e gli uomini (qui personificati dai ciottoli, altrove dai pesci, molluschi, alghe, barche o da braci, formiche, uccelli) non sono quasi mai di tipo “piramidale”, cioè con la vita al vertice gerarchico e tutte le altre presenze in basso. Tali rapporti sono principalmente di tipo “circonferenziale”, come risulta nella poesia “Mar quito e alabastro” (Mare quieto e limpido) tratta dall’omonima silloge e qui di seguito proposta:

Mar quito, nu ti ie tei la culpa da quila nuoto da satenbre, cu lanpi a virga na curiva dreo ali Ponte e dabuoto ti na fundivi la batana cun gruosse pierle da fogo. I ta capeisso; xi stà‘l punente ingiabanà;

 no, nu ti ie tei la culpa da quila crus a San Zuane e dela meisera fein deli barche da Valdabora; par tei stisso ti saravi senpro quito. Mar alanbastro, nu ti iè tei la culpa del masseidio da moussuli e pissi, del dulur da Figarola e dei ruochi ca nu xi pioun bianchi; no, nu ti iè tei la culpa s’el ciaro maistral puoco faviela fra i puochi peini da Monto914; par tei stisso ti saravi senpro alanbastro. Mar mieo, ti ma stramanii cul bianco rabisso par la cuguliera e ti son lu stisso quito e alabastro.



Mar quito e alanbastro [Mare quieto e limpido]: Mare quieto, / non hai tu la colpa / di quella notte di settembre, / quando lampi a verga / ci rincorrevano alle Punte / e quasi ci affondavi la battana/ con grosse perle di fuoco. // Io ti comprendo: / e stato il ponente scatenato; / no, non hai tu la colpa / di quella croce a S. Giovanni / e della misera fine / delle barche di Valdibora; / di per te stesso / saresti sempre quieto. // Mare limpido, / non hai tu la colpa / del massacro di mussoli e pesci, / del dolore di Figarola / e delle sporgenze rocciose non più bianche; / no, non hai tu la colpa / se il chiaro maestrale poco <favella> / fra i pochi pini di Monte; / di per te stesso /saresti sempre limpido. // Mare mio, / mi tormenti / con la tua bianca furia per la <cogolera>/ e sei ugualmente quieto e limpido.



  Parlando del mare, Zanini scrive: “di per te stesso/ saresti sempre quieto … di per te stesso saresti sempre limpido”. Se il Mare e la Vita non sono sempre quieti e limpidi, fa intendere il poeta, ciò non è dovuto ad un loro superiore libero arbitrio, nemico ed indifferente al destino degli esseri animati ed inanimati. La condizione agitata e torbida del Mare e della Vita è principalmente frutto di conseguenze esterne. Riprendendo l’analisi dei versi secondo i tre livelli di lettura ai quali abbiamo fatto ampio riferimento prima, si può affermare che, a livello descrittivo, il mare è tormentato a causa degli agenti atmosferici e dell’irresponsabile opera sfruttatrice e distruttrice perpetrata  dall’uomo moderno; a livello metaforico e/o allegorico la Vita/Mare è sconvolta ed oppressa in seguito a rapporti squilibrati tra gli umani, dalle singole presone, alle classi sociali, alle varie etnie  fino ad arrivare alle nazioni ed alle civiltà. Il legame indissolubile fra il Mare e la Vita è evidente nelle liriche di Zanini che esprime la sua poetica attraverso l’habitat che gli è più congeniale: il mare che, in qualsiasi sua manifestazione, quando è calmo e tranquillo e quando è agitato ed attraversato da onde bianche di schiuma, costituisce la figura retorica principale per raffigurare la vita. Non solo la semplice vita biologica, ma soprattutto la Vita come concetto temporale (la situazione esistenziale dell’individuo in relazione con se stesso e con gli altri) e atemporale (il singolo in rapporto con gli altri all’interno del più vasto disegno della natura). In questo ultimo scenario spetta alla vita con la “v” minuscola, quella individuale e mortale, decidere, per quanto sia possibile, cosa fare di se stessa.



Zanini ha scelto per sé stesso di essere un outsider. Dopo essersi liberato dall’infatuazione per il Partito Comunista jugoslavo, non si fida più di nessuna ideologia e sostiene che “ognuno ha da essere il primo uomo di se stesso” e di conseguenza sfida la Vita, un atteggiamento provocatorio che si manifesta nella lirica “Sico da San Damian” (Secca di San Damiano) tratta dalla silloge “Terra vecchia-stara”:



Fora del scuio da Gusteigna e vierto ‘l canal da Fasana: sico da San Damian. Oun sbarnacio sul, fora dal Monto Maiur, fa bui el mar inturno e xi radaghi ciapà tiera; oun lanpo da Punente fa bianchisà ‘l pilago e ta ven el cor in gula. E sta tiera cui ribunseini biancadeissi ogni giuorno a ma spenzo vier el sico da San Damian, pei riboni grandi: quii russi culi mace silistreine. 



Sico da San Damian [Secca di San Damiano]: Al largo dello scoglio di Gustigna / e aperto il canale di Fasana: / secca di San Damiano. // Soltanto uno straccio di nube / fuori dal Monte Maggiore / fa ribollire il mare tutt’intorno / e diventa difficile raggiungere la costa; / un lampo di Ponente / fa biancheggiare il pelago / e ti tiene il cuore in gola. // E questa costa / con i suoi pagelli piccoli e pallidi / ogni giorno mi spinge / verso la secca di San Damiano, / per i pagelli grandi: / quelli rossi, chiazzati d’azzurro.









In questa poesia Zanini, come l’eroe-pescatore protagonista del celebre romanzo di Hemingway “Il vecchio e il mare”, si mette alla prova ed affronta il mare aperto per pescare i pagelli grandi, e questa diventa per lui una scelta di libertà, rischiosa perché in caso di brutto tempo, sia che provenga da oriente sia da occidente, se ci si ritrova in quella secca è difficile guadagnare la costa. Per comprendere il messaggio contenuto nella lirica bisogna intendere che in essa il maltempo non è soltanto meteorologico e che i punti cardinali non stanno semplicemente ad indicare le direzioni. Essi in realtà indicano le calamità del ventesimo secolo che hanno colpito anche l’anima istriana, da sempre problematica ed incerta nei rapporti interetnici, ma che mai prima di allora era stata portata all’ “esasperazione etnocida” dall’italofascismo (Ponente) e dallo jugocomunismo (proveniente da oltre Monte Maggiore, da Levante).



Anche la poesia “Piova nua” (Pioggia nuova) della silloge “Terra vecchia-stara” propone lo stesso messaggio:



Duopo la piova da Punente, piova nua da Livante: su sta tiera viecia-stara, e su ste aque uorbe. El russo da Livante pariva biel tenpo: par nui mareincule spasamade, par nui furmeighe stanche, par doute ste bis’ciuleine... e da Livante piova nua su sta tiera viecia-stara.



Piova nua [Pioggia nuova]: Dopo la pioggia di Ponente, / pioggia nuova da Levante: / su questa terra molto vecchia, / su queste rocce corrose e su queste acque torbide. // Il rosso da Levante /sembrava bel tempo: / per noi pesciolini impauriti, / per noi formiche stanche, / per tutte queste bestiole... / e da Levante pioggia nuova / su questa terra molto vecchia.





Qui i protagonisti sono gli animali, i “pesciolini impauriti” e le “formiche stanche” delle continue precipitazioni: rappresentano gli uomini, in particolare i poveri abitanti di Rovigno e gli istriani in generale (pescatori e contadini). Dopo il temporale nero italo fascista da Ponente, sembrava che dovesse arrivare bel tempo rosso da Levante e invece l’amara conclusione “pioggia nuova su questa terra molto vecchia” dove si accanisce un funesto destino di esistenze colpite “dalla pioggia di Ponente e di Levante”. Zanini considera l’esperienza fascista italiana e quella comunista jugoslava come due facce di una stessa medaglia, entrambe sono cause di un unico dramma umano ed il poeta cerca di porsi oltre queste esperienze assumendo una posizione molto critica.  Si può affermare, per tentare una sintesi, che in gioventù si appassionò all’ideologia comunista e alla Jugoslavia di Tito intesa come superamento dei dissidi nazionali per raggiungere una più alta ed autentica fraternità. Ma ben presto si accorse che dietro a quella maschera, si nascondeva un nazionalismo slavo indiscriminatamente violento verso gli italiani. Conobbe egli stesso l’inferno del lager di Goli Otok  in cui il governo jugoslavo fece deportare avversari veri e presunti di ogni tendenza, anche libertari come lui, sottoponendoli a terribili violenze e sevizie. Dopo quell’esperienza tragica, visse non poche difficoltà, ma scelse comunque di rimanere nella sua amata terra perché sentiva il dovere di restare per rendere testimonianza della sua civiltà e della sua gente proprio lì dove era più difficile, nella desolata situazione dell’Istria, dove gli italiani rimasti vivevano una condizione molto dura. Tutto questo si riflette nelle sue liriche, l’esperienza negativa delle due ideologie, la disillusione e la consapevolezza di essere stato per un certo periodo corresponsabile dell’affermazione di coloro che si erano rivelati dei nuovi oppressori e allora prende le distanze e manifesta una profonda carica critica. Inizialmente Zanini divide la società umana in due classi: chi comanda e chi è comandato, chi è Pastore e chi fa parte del gregge, chi dirige e chi ubbidisce o subisce, sia che questi sia rassegnato o meno alla “legge del pesce grande che divora quello piccolo”. Per l’autore non esistono sfumature, zone intermedie, come risulta anche dalla poesia “Nu sta’ pastame” (Non battermi):



Nu sta’ pastame, a ma fa mal, anche se ti ma iè veisto mori tante vuolte... e senpro cume oun pisso. Nu stà fracame, ie fato la casa a Ruoco Bianco  parchì son fragile, fragile cume i datuli da Limo. Nu stà fundame culi onde grande dela tu’ barca alta, ca ta scondo; i dievo vi la batana rasa, i dievo iessi rent’el mar: par quisto lou xi e saruò veivo.

 Nu sta’ pastame, ven cun mei neli nuote scoure e sula mieia batana rasa tenta d’intendi i seighi seiti dela dasparassion dei pissi.



Nu sta’ pastame [Non battermi]: Non battermi, / mi fa male, anche se mi hai visto morire / tante volte... / e sempre come un pesce. // Non calpestarmi, ho fatto la mia casa / a Rocco Bianco, perche sono fragile, / anch’io... fragile come un dattero di Leme. // Non affondarmi con le onde grosse / della tua barca alta, che ti nasconde; / io devo avere la battana bassa,/ devo essere vicino al mare: / per questo egli è, e sarà, sempre vivo. // Non battermi, / vieni con me nelle notti oscure, / e sulla mia battana bassa / tenta di capire gli urli silenziosi / della disperazione dei pesci.

 Qui l’immagine è d’effetto, i potenti sono alla guida della “barca alta” che li nasconde e fa le “onde grosse”, lontani dal Mare/Vita e sordi agli “urli silenziosi della disperazione dei pesci” in cui si identifica il poeta. Queste urla si possono udire solo se ci si trova nella “battana bassa”, nella minuta imbarcazione che sfiora l’acqua, quella dei rovignesi, del popolo, degli impotenti, quella con cui ogni giorno si combatte per la pura sopravvivenza. E’ l’imbarcazione costruita con “due tavole”, nella lirica “A ma pare” (A mio padre) della silloge “Mare quieto e limpido”, resistente però alle tempeste:





Preima da mori ti ma iè fato la batana, par quiste du tuole ti ta iè crussià douta la veita. Xi ouna batana peicia, rasa sul mar e dibuleina, la va sul pil del’onda, cume el cucal stà vilo sul vento da garbein. Fente ura la uo fruntà diviersi navareini e grande barche sa uò fundà rente ‘ste du tuole, croussio da douta la tu’ veita.



















A ma pare [A mio padre]: Prima di morire / mi hai fatto la battana, / per queste due tavole / ti sei tormentato tutta la vita. // E’ una battana piccola, bassa sul mare e fragile, / va sulla cima dell’onda,/ come il gabbiano galleggia / sul vento di libeccio. // Finora ha affrontato / diverse burrasche /e grandi barche sono affondate vicino a queste due tavole, / tormento di tutta la tua vita.



La critica aspra ed una certa predisposizione sovversiva nei confronti delle istituzioni sociali si manifesta nella lirica “El mieo scardubulier” (Il mio attrezzo per catturare i paguri) tratta dalla silloge “Conversando con il gabbiano Filippo”:



Ie consumà dabouto douta la miea veita a calà stu scardubulier e senpro su l’ur de i sichi largadi. Par isca iè misso l’amur pel fra pioun dibulo, par falo nassi

e crissi in cunteinuo

sensa ‘l foumo, intei uoci nui, da dout’ i poulpiti. Gousto iè truvà a sbusei ste scarduobule; par vandita li ma uo spacà la scena. Ma in cassiela el frà, davanta fuorto, el ma drissaruò da nuo.



El mieo scardubulier [Il mio attrezzo per catturare i paguri]: Ho trascorso quasi / tutta la mia vita/ su questo attrezzo per catturare i paguri e, / sempre, sull’orlo delle secche in mare aperto. /Quale  esca vi ho messo / l’amore per il fratello più debole, / per farlo nascere e crescere continuamente / senza il fumo, / negli occhi nuovi, / proveniente da ogni sorta di pulpito. // Ho provato gusto / a smascherare questi paguri; / per vendetta / mi hanno spezzato la schiena. / Ma sulla bara / il fratello, divenuto forte, / mi raddrizzerà di nuovo. 

Qui il poeta si serve della metaforica personificazione dei Potenti e vendicativi nei crostacei paguri. Zanini rivela la sua inesauribile insofferenza verso “ogni sorta di pulpito” e ogni fumosa gestione del potere. La sua aspirazione sovversiva si manifesta nel “gusto a smascherare” i paguri (i nazionalismi slavi- croato, sloveno ed altri- e tutti i Potenti in generale), per rivelarne la vera faccia (“l’addome mollo”) a vantaggio del “fratello più debole”. Si esprime l’amore per il fratello (rovignese, istrioto e/o italo-istriano-quarnerino e, più in generale, ogni singolo uomo oppresso) al quale il poeta si sente vicino e solidale e per il quale auspica la liberazione dall’oppressione. Il riscatto dai potenti sarebbe anche vissuto come consolazione per i torti e le ingiustizie subite: “Ma sulla bara il fratello, divenuto forte, mi raddrizzerà di nuovo”).



Pur provando amore e solidarietà per l’uomo del popolo, Zanini non si immedesima nello stesso perché, in fin dei conti, molte volte sono proprio gli individui a permettere che i Potenti conquistino il potere. Il poeta si sente voce fuori dal coro da sempre, ancora in maniera più forte dopo le tragiche esperienze che hanno segnato la sua vita e quella della sua amata terra. Tuttavia, pur non identificandosi con il popolo, non smette mai di sperare in un suo ravvedimento, di incitarlo a liberarsi dal giogo che lo sottomette e lo costringe alla condizione di “pecora”. Il suo è un canto stonato di indipendenza e di libertà, è “l’urlo disperato del gabbiano” libero che non appartiene al coro degli uomini canarini, canto orchestrato dai potenti. Questo è il messaggio che emerge dalla poesia “Intul canto da sempre” (Nel canto di sempre) che appartiene alla silloge “Conversando con il gabbiano Filippo”:



 Chitare stranbe inpicade su li rame de i venchi par culpa de li bies-ce nigare, canareini stunadi ca inbinideisso i santi, marsi par massa binidissioni… e xi ‘un canto da senpro, sul, ca va par si stisso e zaruò in etierno pei nouvuli, par i griebani e fra i pissi: su li bies-ce bianche e su li nigare. Abetierno ‘l involso douto e puorta li vuse e i lagni de l’omo de la viecia crusu, de l’omo del nuo turmento, par senpro, ultra i Tri Bastoni.

 E nama cun tei, cucal Fileipo, i son in stu canto da senpro, intula granda ruda de i cucai  cu ‘l Sul fa la Capa Santa, par fa nassi ‘l frà in cunteinuo vier l’omo de la viecia crusu, vier li sparanse del turmento nuo, ultra ‘l foumo da palassi e poulpiti e contro ‘l vento ca ta puorta in alto.





Intul canto da senpro [Nel canto di sempre]: Cetre strampalate appese alle fronde dei salici / a causa delle bestie nere, / canarini stonati che benedicono i santi, / marci per troppe benedizioni…//e c’e un canto da sempre, / uno che va per se stesso / e andrà per l’eternità con le nubi, / per le rocce e fra i pesci: / sulle bestie bianche e su quelle nere. // Ab aeterno avvolge tutto / e porta le voci e i lamenti / dell’uomo della vecchia croce, / dell’uomo del tormento nuovo /per sempre, oltre Orione. // E soltanto con te, gabbiano Filippo, / mi trovo in questo canto di sempre, / nella grande ruota dei gabbiani / quando il Sole fa la Conchiglia di San Giacomo / per far nascere continuamente il fratello / verso l’uomo della vecchia croce, / verso le speranze del tormento nuovo, / oltre il fumo di palazzi e pulpiti / e contro il vento che ti porta in alto.

Dalla lirica si innalzano tre diversi tipi di canto: quello del poeta non intonato perché non in sintonia con il coro dei canarini, ma armonico per se stesso; quello dei canarini che sembra armonico perché è in sintonia con il coro e con l’orchestrante, ma non è intonato perché gli manca la libertà di opinione e legittima il Potere; infine il canto eterno al quale partecipa il nostro poeta e la sua personale esperienza diventa una cosa sola con quella dell’uomo in generale, di ogni povero cristo che porta la sua croce.  Il suo canto differente dal resto del coro, non gli impedisce tuttavia di provare una sincera pietà di fronte alla morte, alla tragicità del trapasso di qualsiasi individuo: il poeta infatti intimamente perdona il defunto peccatore per le infelicità che ha provocato da vivo. Significativa a questo proposito è la lirica “El seie agusto” (Il sei agosto).



El xi zei; a ma daspiasu cume par ogni cristian, in fondo i signemo foie del stisso albaro; a ma daspiasu, cume a ma uò daspiasisto















par Vaner, pei Canuciai, par Nino Vigian… e par ogni bronsa ca sa dastouda, e anche sensa gluorie, da stu fià da buleistro. El xi zei; ula? E chi v ‘a savì. Quil ca lou uò samanà, nama ca lou spartaruò; ch’el vago cun li gluorie, che la passo… ma no cun stu carnaval da ri, da uori, da ciacule e da carabinieri, par scunfondi ‘l rumor ch’i va guvì li sgreinfie par ciapà la carega svuda. I lu massì, puvarito! E ancui, cume ogni vuolta, cu moro ‘una tiesta granda, ie veisto quil Piro, quil puovaro Piro ca scanpiva e ‘ncura scanpa sigando: - Cun sti ri, senpro a brassito dei ri dei ri, cun sti creisti, senpro pioun creisti e caruladi, i nu la pansivo cussei… i nu la vulivo cussei nigara; turnime la miea batana, no pei pissi, cume douto anche ‘l mar i vì massà, ma par inpiantà stu furmighier uorbo ula i ma sento ‘un puovaro Piropierso.



 El seie agusto [Il sei agosto]: Se n’e andato; / mi dispiace / come per ogni cristiano, / in fondo siamo foglie / dello stesso albero; / mi dispiace / come sono stato rattristato / dalla morte di Venier, dei Canociai, / di Nino Veggian… / e di ogni brace / che si spegne, / senza glorie, / di questa poca cenere ancor calda. // Se n’e andato; / dove? E chi lo sa. / Quello che egli ha seminato / soltanto lui distribuirà; / che vada con le glorie, / è naturale… / ma non con questo carnevale / di re, di ori,/ di chiacchiere e di carabinieri, / per confondere il rumore / prodotto dall’arrotare degli artigli /per prendere la sedia vuota. / Lo ammazzate, poveretto! // E oggi, come ogni volta / che muore una testa grande, / ho visto quel Pietro, / quel povero Pietro che fuggiva / e ancora fugge gridando:/ – Con questi re, / sempre sottobraccio dei re dei re, / con questi poveri uomini, / sempre più poveri e tarlati, / io non la pensavo così… / non la volevo cosi nera; / restituitemi la mia battana, / non per i pesci, come tutto / anche il mare avete ucciso, / ma per abbandonare questo formicaio cieco, / ove mi sento un povero “Piropierso”.



“Piropierso” è un soprannome di Rovigno che indica una persona in grosse difficoltà e che non sa che pesci pigliare. Il poeta si duole per la dipartita di un Potente suo concittadino e connazionale. Perdona sì, ma non dimentica, perché la sua è misericordia, pietà cristiana, ma sopravvive sempre forte in lui la memoria storica che non lo abbandona mai e perciò non può essere indulgente con i Potenti trapassati per i quali prospetta una vertenza divina ancora più seria della sua di poeta e di uomo. In altre liriche si avverte la sua religiosità che, comunque, è frutto di un cammino personale di ricerca sostenuto da una sua autonoma interpretazione dei precetti evangelici, indipendente dalla chiesa intesa come istituzione. Alla fine prevale la tematica della speranza, una fiducia che il poeta ripone in Dio e negli uomini auspicando che, in un futuro non troppo remoto, l’umanità riesca a trovare quella pace che a lui fu negata.



 Volendo tentare una riflessione conclusiva sulla produzione letteraria di Ligio Zanini, possiamo senza dubbio affermare che egli raccontò il suo mondo e le sue esperienze: la realtà storica, la tensione morale, l’avventura sono sempre presenti, ma fuse, riunite nel non tempo del mare, di una vita guardata nella sua essenza, faccia a faccia. Del dialetto ne fece uno strumento straordinario per la sua poesia, un linguaggio d’eccellenza per cantare la sua Istria alla quale rimase sempre profondamente attaccato come un granchio ad uno scoglio.

Scrivendo nella lingua istriota Ligio Zanini volle valorizzare e rilanciare l’antico idioma che oggi rappresenta un vero e proprio fenomeno linguistico. Egli riconobbe al dialetto il fondamentale ruolo di memoria, riportandolo a nuova gloria, dopo che a lungo il dialetto fu considerato uno strumento espressivo inadeguato ed inferiore: la riabilitazione della parlata istriota si deve a Zanini e agli altri autori dell’area Istro-quarnerina che diedero vita ad una rigogliosa fioritura della poesia in dialetto, senza dubbio uno dei fenomeni più importanti e caratterizzanti della letteratura della minoranza italiana.









Prima di concludere, mi sembra importante ricordare brevemente anche “MARTIN MUMA”, l’unico romanzo scritto dall’autore che, come abbiamo visto, si dedicò quasi esclusivamente alla poesia.

L’opera fu scritta in italiano con l’intento di comunicare e raggiungere un pubblico più vasto. Il protagonista, Martin Muma, era un personaggio del Corriere dei Piccoli degli anni ’30 del secolo scorso, un bambino gracile, magro, diafano, indifeso che, per sfuggire da una realtà opprimente, ad un presente grottesco e ad un destino assurdo, si lasciava trasportare dal vento e volava leggero sopra le cose del mondo. Ligio Zanini scelse questo personaggio per raccontare la sua vicenda personale e la sofferenza, le inquietudini e le speranze degli italiani rimasti in Istria dopo le vicende della seconda guerra mondiale. Martin Muma è quindi lo stesso Zanini, costantemente ed ingenuamente alla ricerca del perché le cose accadono in un certo modo e profondamente colpito dagli eventi che hanno sconvolto la terra istriana. La gracile figura di Martino rappresenta e riassume la parabola di un gruppo nazionale disperatamente alla ricerca della rotta per tornare a casa, è la storia degli italiani dell’Istria e di Fiume che non hanno scelto la via dell’esilio e che, decidendo di restare, hanno conosciuto e vissuto il dramma dei rinnegati, l’umiliazione di essere sradicati in casa propria. Martin Muma, il bimbo “più leggero di una piuma” doveva riempirsi le tasche di sassi per non spiccare il volo, ma accadeva sempre che qualcuno o qualcosa, per dispetto o per l’inclemenza del destino, gli togliesse quel peso, abbandonandolo così al vento. Il ragazzino rappresenta l’esperienza vissuta dal poeta, un instancabile sognatore sempre controcorrente, ma è anche emblema della condizione dei rimasti: una comunità sospesa fra cielo e terra, troppo debole e leggera per rafforzare le proprie radici e consolidare la sua presenza, ma, allo stesso tempo, troppo pesante per volare alto, per andarsene definitivamente e diventare altro. Per Zanini l’unica risposta possibile doveva scaturire dal rigore etico e morale, dalla ricerca della libertà e dal “camminare con piede leggero”, cioè nell’umiltà, nella capacità di ascolto, nella rinuncia: questa per Zanini era l’unica possibilità di essere realmente liberi e per possedere veramente la terra e le persone amate.

La prima parte del racconto descrive la vita della gente rovignese, polesana ed istriana con le  tradizioni, i legami e tutte le certezze di un popolo legato alla propria terra ed al proprio mare, quella forza che solo un profondo senso di appartenenza può dare. Ma in questo quadro positivo e nitido, si inseriscono anche gli orrori provocati da fascisti e nazisti finchè irrompe con tutta la sua violenza la seconda guerra mondiale che in Istria assunse anche la valenza di un conflitto etnico che culminò con lo spostamento dei confini e l’annessione della penisola istriana alla Jugoslavia comunista. Intense sono le pagine in cui si narra il dramma dell’esodo e la spaccatura profonda – etnica e politica- della città di Pola. Infine nello scorrere di queste pagine intense, si arriva alla vicenda più scottante e dolorosa per la vita del protagonista, l’esperienza terribile nel gulag  jugoslavo di Goli Otok, con i suoi assurdi riti, le punizioni, le percosse e le violenze di ogni genere ed i suoi morti. In quel luogo infernale gli uomini sono costretti a perdere ogni dignità, diventando gli aguzzini dei propri compagni e di loro stessi.

La speranza conclude questo romanzo: Zanini auspica un futuro in cui i “pastori” non prevaricheranno più le “ pecore” perché queste finalmente avranno iniziato a ragionare con la propria testa. Riaffiora qui la voce solitaria del narratore, come quel grido stonato del gabbiano rispetto al canto apparentemente armonioso dei canarini: ma il gabbiano è libero, vola nel vento e si solleva da una realtà opprimente, come Martin Muma, il protagonista, il ragazzino che sfugge dalle cose brutte e tristi del mondo lasciandosi trasportare dal vento.



In conclusione si può senza alcun dubbio affermare che Ligio Zanini è un cantore, un poeta intenso e vibrante che accarezza la sua amata terra d’Istria con versi appassionati e struggenti. Il mare per lui è elemento centrale, è come un abito che indossa e che riesce ad adattare per ogni situazione, attraverso il suo mare Zanini tutto ascolta e tutto racconta e riesce a farlo in maniera straordinaria. Mi appassiona il suo mondo perché riconosco che in parte è il mio: anche io scopro un legame sempre più profondo con quelle terre nelle quali affondano le mie radici, quel mare è il mio mare, profumato di pini e di lavanda, colorato di zaffiro e d’argento e la sua voce è sempre dolce e suadente. Quelli sono per me i luoghi del cuore, dove l’animo esausto riposa mentre contemplo il volo di un gabbiano sospeso fra terra e cielo. Zanini è figlio devoto di quella regione così sconvolta da una storia ancora troppo recente perché le profonde ferite subite possano considerarsi rimarginate. Ma la sua lirica vuole essere una dichiarazione d’amore per la sua patria martoriata ed una testimonianza che serva a non dimenticare ed a conservare perenne memoria: egli può di diritto essere considerato una delle voci più intense ed autentiche della poesia dialettale contemporanea. La sua scelta di esprimersi in lingua istriota manifesta la precisa volontà di salvaguardare la tradizione nella sua forma più pura ed autentica perché questo particolare idioma viene dalla gente comune, marinai, contadini, la parte più genuina di quella società che custodisce il tesoro più  prezioso, l’essenza, l’anima di un popolo. La tensione morale della sua poesia emerge anche grazie all’utilizzo di quel dialetto in cui egli riesce a raccontare e raccontarsi in modo sublime. A titolo di curiosità, vale la pena rivelare che la difesa strenua che l’autore fa della specificità linguistica e culturale di Rovigno, si presenta sotto varie forme, tra le quali la salvaguardia che egli cerca di attuare delle antiche tecniche marinaresche, testimoniata dal trattato inedito “La togneta” (La piccola lenza) sulla pesca con la lenza a mano, una forma di pesca ormai in disarmo: per il poeta significa salvaguardare il proprio habitat da pericolose e devastanti intrusioni e, allo stesso tempo, un modo per confrontarsi da pari con la natura.











BIBLIOGRAFIA



Per questa ricerca ho consultato alcuni testi nei quali ho trovato materiale molto interessante che ho integrato al mio contributo personale fatto di conoscenze acquisite negli anni per una passione che coltivo da sempre per quelle terre e tutto ciò che le riguarda, di tradizioni scoperte quasi per caso e soprattutto di testimonianze di persone che hanno vissuto e sofferto in quei luoghi così belli e suggestivi, ma spesso sferzati dal vento della storia.

Qui di seguito indico i testi consultati:

• Tamara S. “Zoonimia Istriota”  Annales- Ser.hist.sociol. 12-2002-1

• Elenconotizie “Zanini, il poeta pescatore cantò ai gabbiani la sua Istria” 24-07-1993 Tuttolibri

• Magris Claudio da Archivio Storico Corriere della Sera “Ligio Zanini, il poeta e il gabbiano Filippo”  11 luglio 1993

• Giuricin Ezio “Martin Muma, saga di un dolore istriano” articolo dal sito www.anvgd.it  

• De Angelini Gianclaudio “L’Istrioto. Profilo storico” dal sito Istrianet.org 

• Palmieri Massimo da “IL TERRITORIO” n.29  Interventi culturali dal Monfalconese-sett.’92: “Ligio Zanini- Martin Muma” 

• L’Identità dentro. Collana di saggistica degli Italiani dell’Istria e del Quarnero: “Le Parole rimaste- Storia della letteratura italiana dell’Istria e del Quarnero nel secondo Novecento” a cura di Nelida Milani e Roberto Dobran 

(da: file:///C:/Users/Utente/Desktop/La_lingua_istriota_nella_letteratura_istro-quarnerina-Le_liriche_di_Ligio_Zanini.pdf)

Storia. Spagnola, la pandemia che cambiò il mondo


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Riccardo Michelucci sabato 28 luglio 2018

Fra il 1918 e il '19 fece molte più vittime delle guerre mondiali incidendo su società e cultura come nessun evento dopo la peste nera. Avvicinò l'India all'indipendenza e migliorò la sanità nazionale



Guillaume Apollinaire tornò dalle trincee della Prima guerra mondiale con una grave ferita alla tempia. Colpito dai frammenti di un proiettile di artiglieria, riuscì a salvarsi grazie a un delicato intervento chirurgico. Il faro dell’avanguardia letteraria francese sopravvisse al «grande spettacolo della guerra » – come lo definì lui – ma non ebbe alcuno scampo di fronte all’influenza spagnola, che di lì a poco lo uccise a soli 38 anni. Molti illustri artisti e intellettuali dell’epoca avrebbero condiviso la sua stessa fine. Anche Egon Schiele, Max Weber ed Edmond Rostand (l’autore di Cyrano de Bergerac) risultano tra le vittime della devastante calamità naturale che tra il 1918 e il 1920 colpì un abitante su tre del pianeta, causando la morte di decine di milioni di persone. Ma nonostante l’entità del fenomeno, le conseguenze dell’influenza “spagnola” che si diffuse su scala mondiale esattamente un secolo fa sono rimaste a lungo in ombra, offuscate dalla devastazione della Prima guerra mondiale e relegate a un ruolo secondario nei libri di storia. Soltanto negli Stati Uniti il morbo falciò mezzo milione di vite – circa dieci volte di più di quante ne uccisero i tedeschi durante la Grande guerra – eppure soltanto nelle aree urbane più colpite la malattia salì agli onori delle cronache.

Il motivo per cui quella tremenda epidemia fu identificata con la Spagna è curioso, e nasce dalla censura operata in molti paesi durante la Prima guerra mondiale. I governi delle nazioni belligeranti, temendo che si diffondesse il panico tra la popolazione, cercarono in tutti i modi di non diffondere la notizia della pandemia. Le prime informazioni trapelarono dalla Spagna – che era neutrale e quindi priva di controlli sulla stampa – e spinsero gli altri Paesi a far credere che fosse circoscritta alla sola Spagna, dove peraltro si ammalarono sia il primo ministro che il re Alfonso XIII.

In occasione del centenario di un evento epocale ma ancora curiosamente misconosciuto della nostra storia recente, la giornalista scientifica inglese Laura Spinney ha dato alle stampe 1918, l’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo (Marsilio), un libro a metà tra il saggio e la cronaca giornalistica che inquadra il fenomeno da un punto di vista storico, scientifico e culturale alla luce degli studi più recenti nei campi della virologia, dell’epidemiologia e della psicologia. Facendo innanzitutto notare che su quella immane catastrofe è sceso un inspiegabile oblio collettivo. Eppure, spiega Spinney la pandemia ha di fatto riconfigurato la popolazione umana più radicalmente di qualunque altro evento successivo alla peste nera. Ha influito sul corso della Prima guerra mondiale e, verosimilmente, ha contribuito allo scoppio della Seconda. Ha avvicinato l’India all’indipendenza e il Sudafrica all’apartheid, ha stimolato la crescita dell’assistenza sanitaria nazionale e della medicina alternativa, l’amore per le attività all’aria aperta e la passione per lo sport ed è in parte responsabile dell’ossessione degli artisti del XX secolo per le infinite fragilità del corpo umano.

In un primo momento i sintomi del morbo erano gli stessi di una comune influenza: mal di gola, mal di testa, febbre. Ma in molti casi si presentavano poi complicazioni come polmoniti batteriche in forma acuta, i malati sviluppavano in fretta difficoltà respiratorie e insorgevano dolori in gran parte del corpo. Seguivano sonnolenza e torpore, con febbre altissima, polso debole, lingua bianca, cefalea. Circa la metà delle morti si verificarono nel gruppo di età compreso tra i venti e i quarant’anni. Il morbo si propagò in breve tempo come un uragano e le contromisure mediche di prevenzione e cura si rivelarono perlopiù fantasiose, oltre che vane: gargarismi con chinino, camere di nebulizzazione dove fino a venti persone alla volta inalavano formalina o solfato di zinco. Fu, in generale, un brutto momento per la scienza, che non riuscì a trovare alcun rimedio e si accorse di non possedere alcuno strumento per identificare e neutralizzare l’agente invisibile del morbo.

La virulenza della pandemia scatenò però una serie di comportamenti a metà tra il tragico e il bizzarro. In alcuni paesi si diffuse la convinzione che la malattia fosse neutralizzata dall’alcol, facendo aumentare vertiginosamente i casi di alcolismo. In Cile si dette la colpa alle classi più povere arrivando a incendiare le case nei villaggi più derelitti del paese, creando di conseguenza un’ondata di profughi che accentuò la diffusione dell’influenza. A Odessa, in Ucraina, la gente inscenò rituali religiosi arcaici per allontanare il flagello mentre in Sudafrica e non soltanto lì, le persone di un colore iniziarono a incolpare quelle dell’altro. I missionari cristiani furono invece spesso gli unici a portare sollievo nelle zone più remote della Cina, dove all’inizio del 1918 si erano registrati i primi focolai a livello mondiale.

Complessivamente, l’influenza spagnola uccise circa cento milioni di persone, un numero di vittime superiore alla somma di entrambe le guerre mondiali. Oggi sappiamo che il virus responsabile della pandemia era di origine aviaria, proprio come quello che si verificò alcuni anni fa nel sudest asiatico. Gli scienziati sono riusciti a comprenderne le origini ma non a determinare perché ebbe conseguenze così letali. Le ragioni di una mortalità così spaventosa - spiega Spinney - furono sicuramente molteplici. Alla particolare virulenza del virus si sommarono elementi come la concomitanza con il bacillo di Pfeiffer, la malnutrizione presente da anni nelle popolazioni dei paesi in guerra, la mancanza di antibiotici per le complicazioni polmonari e le precarie condizioni igienico-sanitarie dei soldati in guerra. Ma vi furono, secondo Spinney, anche importanti conseguenze di carattere storico-politico. La negligenza degli inglesi nel curare l’influenza in India sarebbe stata infatti una delle ragioni della nascita del movimento per l’indipendenza indiano, mentre l’elevato numero di malati che si registrò nelle file dell’esercito tedesco avrebbe accelerato la conclusione della Prima guerra mondiale.


sabato 28 luglio 2018

Limena: un albero della vita nell’oratorio della Beata Vergine del Rosario (sec. XVII)



Limena: un albero della vita nell’oratorio della Beata Vergine del Rosario (sec. XVII)

Il simbolismo del melograno nei rilievi della facciata e del portale

di Bruno Trevellin
(Oratorio B. V. Rosario, Cornicione, particolare)

Guardando la facciata dell’oratorio della Beata Vergine del Rosario non può sfuggire l’insistenza con cui si ripete nella facciata e nel portale d’ingresso la scultura a rilievo del melograno. Ne troviamo uno sotto entrambe le statue, uno in ciascuna delle ante della porta d’ingresso e una serie ben più numerosa nella parte inferiore del cornicione.


Il melograno (Punica granatum) e il suo frutto (melograno o melagrana)[1] hanno un preciso valore simbolico in ambito religioso, non solo cristiano.

Pianta di origini orientali (Iran, India Settentrionale), ‘alcuni studiosi di teologia ebraica hanno supposto che il frutto dell'Albero della vita del Giardino dell'Eden fosse da intendersi in realtà come una melagrana. In accordo col Corano, il melograno è citato per crescere nel giardino del paradiso (55:068)’.[2]

‘La melagrana è inoltre nella simbologia ebraica, simbolo di onestà e correttezza, dato che conterrebbe 613 semi, che come altrettante perle sono le 613 prescrizioni scritte nella Torah, (365 divieti e 248 obblighi) osservando le quali si ha certezza di tenere un comportamento saggio ed equo. In realtà i semi della melagrana sono in numero variabile (di certo circa 600), ma il frutto con i suoi semi ricorda quel numero, che come tanti altri, ha riferimenti precisi nella numerologia ebraica. La melagrana per i suoi numerosi semi è simbolo di produttività, ricchezza e fertilità’[3].



 


(Oratorio, Particolari della facciata e del portale)



Nella Bibbia ‘il melograno è uno dei frutti che la terra promessa produce in abbondanza, garantendo la vita: la terra donata da Dio è ricca perché «terra di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; terra di ulivi, di olio e di miele» (Dt 8,8 ). Insieme all'uva e ai fichi la melagrana è anche il frutto che i dodici esploratori, dopo aver ispezionato la terra nella quale stavano per entrare e verificare che Dio aveva mantenuto la sua promessa, portano a Mosè: «Giunsero fino alla valle di Escol e là tagliarono un tralcio con un grappolo d'uva, che portarono in due con una stanga, e presero anche melagrane e fichi» (cfr. Num 13,23)’.

‘In quanto segno della benedizione di Dio, il melograno decora le vesti del sommo sacerdote:«Farai sul suo lembo melagrane di porpora viola, di porpora rossa e di scarlatto, intorno al suo lembo, e in mezzo disporrai sonagli d'oro: un sonaglio d'oro e una melagrana, un sonaglio d'oro e una melagrana intorno all'orlo inferiore del manto» (Es 28,33-34). Il libro del Siracide ricorda la gloria sacerdotale che Dio conferisce ad Aronne:«Lo avvolse con melagrane e numerosi campanelli d'oro all'intorno» (cfr. Sir 45,9). Il melograno adorna, pure, i capitelli del Tempio venendo ad indicare la benedizione che scaturisce dall'alleanza con Dio. Il re Salomone:«Fece dunque le colonne e due file intorno a ciascun reticolo per rivestire i capitelli che erano sulla cima, a forma di melagrane, e così fece per il secondo capitello. I capitelli sulle due colonne si innalzavano da dietro la concavità al di là del reticolo e vi erano duecento melagrane in file intorno a ogni capitello» ( in 1 Re 7, 18.20; cfr. Ger 52,22).

Il melograno raggiunge una grande carica simbolica nel libro biblico che canta la splendore dell'amore fedele: il Cantico dei Cantici dove è simbolo dell'amore fecondo e dell'intensa relazione tra l'amato e l'amata. La bellezza dell'amata, colma di vitalità, è descritta dalla melagrana: «come spicchio di melagrana è la tua tempia dietro il tuo velo» (cfr. 4,3; 6,7). Persino nel giardino, luogo dell'amore, fioriscono i melograni. Lo sposo che cerca la sposa va a vedere se nel giardino sono sorti i germogli (cfr.Ct 6,11). L'amato scorge nel melograno, il cui frutto è ricco di semi e di colore rosso simbolo del fascino dell'amore, che la sua amata è sposa feconda, piena di vita, portatrice di felicità’[4].

L’albero della vita nel Nuovo Testamento

Nel Nuovo Testamento viene continuamente nominato l’albero della vita. Nell’Apocalisse (22,2) appare ‘come premio di vittoria dei beati: nella Gerusalemme celeste, nella città santa della fine dei tempi, “in mezzo alla piazza della città (…) si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie degli alberi servono a guarire le nazioni”. Il dottore della Chiesa Giovanni Damasceno paragona Maria alla terra del paradiso, da cui è nato il vero albero della vita, e cioè Cristo. Secondo un’altra attribuzione simbolica, Maria stessa è l’albero della vita, divenuto fecondo mediante lo Spirito di Dio, che come suo frutto dona Cristo all’umanità bisognosa di redenzione[5].



Il melograno simbolo di castità e di resurrezione

Nel Medioevo divenne simbolo di Resurrezione e iniziò a comparire nei dipinti di tipo sacro. Analizzando ‘alcune importanti opere che recano una melagrana, è doveroso citare la Madonna del Magnificat dipinta da Sandro Botticelli tra il 1481 e il 1485. La melagrana tenuta in mano dalla Madonna e da Gesù Bambino insieme assumerebbe il doppio significato di castità e di resurrezione’[6].

Nella Cena di Emmaus del Caravaggio il melograno è assieme agli altri frutti a simboleggiare Cristo. ‘La minuziosità con cui l’artista ha dipinto la frutta è stupefacente: è lì che è raffigurato il Cristo glorioso. L’uva bianca rappresenta la resurrezione, il melograno è il simbolo di Cristo e l’ombra che il canestro proietta sulla tavola è a forma di pesce, altro simbolo di Gesù’.[7]



(Sandro Botticelli, Madonna del Magnificat, 1481)





(Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601)









[1] Per la voce MELOGRANO si può far riferimento a quanto indicato in www.treccani.it/enciclopedia/melograno/ o anche in https://it.wikipedia.org/wiki/Punica_granatum
[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Punica_granatum

[3] In https://it.wikipedia.org/wiki/Melagrana
[4]In http://www.paoline.it/blog/bibbia/628-il-melograno-simboli-biblici.html

[5] Manfred Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Milano, 1990, pag. 9
[6] https://it.aleteia.org/2016/10/07/la-leggenda-che-lega-la-nascita-del-melograno-alla-passione-di-cristo/
[7] In: guardarelaparola.altervista.org/la-mensa-della-vita/?doing_wp_cron=1532770334.7299630641937255859375