martedì 17 dicembre 2019

Il dialetto è più vivo che mai


Il dialetto è più vivo che mai
(ma solo quando unisce il Paese)
Progetti scientifici, app ideate dai giovani e una florida letteratura di successo
Così la lingua materna ci arricchisce. Gli specialisti: non sia strumento di divisioni

di Roberta ScorraneseMES – Museo dell’Emigrazione a Piacenza


Ormai quasi quarantacinque anni fa, nella sua ultima apparizione pubblica prima della morte, Pier Paolo Pasolini tenne un famoso discorso a Lecce. Parlò dei dialetti a rischio scomparsa, della televisione colpevole di un «genocidio culturale» con l’imposizione di una lingua standard, «quella di Mike Bongiorno», per capirci. Era un’altra Italia, quella del 1975: tra le classi sociali c’erano fossati culturali che andavano riempiti e la padronanza dell’italiano era il punto di partenza. I dialetti erano stati già stigmatizzati dal fascismo e negli anni Settanta, come osserverà poi un grande sociolinguista come Gaetano Berruto, «ci si vergognava della propria lingua madre». E la televisione unificava il Paese con un idioma omogeneo, accessibile a tutti ma intriso di una fredda correttezza formale che agli occhi di Pasolini suonava come una spaventosa ingiunzione dall’alto.

Otto milioni di italiani parlano così
Ma la fosca previsione pasoliniana ha preso una piega inaspettata e oggi le cose sono cambiate. I dialetti (non solo in Italia) ravvivano le conversazioni sui social, hanno pagine Facebook dedicate, progetti scientifici molto seri che li sostengono, per non parlare di una florida letteratura (Camilleri, Ferrante, Fois e tanti altri) che ha rivitalizzato e in alcuni casi reinventato il siciliano o il napoletano. Restituendoci così un Paese più ricco e fertile: ecco perché abbiamo voluto chiudere l’anno con questo tema nel Bello dell’Italia, prima di aprirne un’altra, tutta nuova a gennaio (vedi l’articolo in basso). L’ultima, rilevante, indagine Istat dice che in Italia il 32 per cento delle persone al di sopra dei sei anni si esprime sia in italiano che in dialetto e ben 8 milioni e rotti usano prevalentemente il vernacolo (dati del 2015). Eppure il tema è delicato: ci sono regioni che impugnano il dialetto quale arma separatista, o comunque di forte e rischiosa matrice identitaria.

I «nostalgici»
Ci sono i nostalgici dell’Italia rurale e quelli che, semplicemente, parlano in veneto o pugliese per non farsi capire dagli altri, dal «diverso». Ma ogni tentativo di imposizione del dialetto, per gli specialisti, è un fallimento «non fosse altro per il fatto che il vernacolo è un organismo in continua mutazione e, soprattutto, perché ci sono miriadi di varianti per ogni regione», spiega Vera Gheno, sociolinguista, collaboratrice di Zanichelli e autrice di Potere alle parole (Einaudi). L’esercizio sovranista, se applicato al dialetto, non avrà mai esito , perché, dice Gheno, «se si decide di tradurre un termine, poniamo, in bergamasco, ci sarà certamente un paese della Valle Camonica che protesterà perché da loro si dice in un altro modo». E così all’infinito, contravvenendo peraltro, alla massima più bella che ci ha lasciato Tullio De Mauro: «La via per la felicità passa dal plurilinguismo». È questo il punto, come afferma Giuseppe Antonelli, ordinario di Linguistica italiana all’Università di Pavia e autore de Il Museo della lingua italiana (Mondadori): «bisogna approfittare del fatto che oggi non ci si vergogna più di avere una lingua materna e usarla per arricchire il nostro modo di esprimerci e di guardare le cose». Perché il dialetto non è soltanto una connotazione coloristica regionale: è uno sguardo sul mondo, è un modo di pensare, di ragionare, di prendere decisioni.


L’impegno dei più giovani
Ecco perché sono soprattutto i più giovani a rivitalizzarlo. Per esempio, Massimo Gismondi, studente del Politecnico di Torino e originario di Castellaro (Imperia), di appena 22 anni, ha sviluppato un’applicazione che traduce dall’italiano al taggiasco e viceversa. A Soncino (Cremona), alcuni ragazzi hanno organizzato dei tutorial su Youtube in cui i nonni insegnano la pronuncia più ortodossa delle parole dialettali. E Gheno, attenta osservatrice del linguaggio dei giovani, si dice stupita del fatto che «molti oggi non solo lo parlino, ma lo scrivano pure su Facebook o Twitter», visto che il dialetto è uno strumento soprattutto orale. Su una cosa tutti i linguisti concordano: è una grande fortuna che queste lingue siano giunte fino a noi quasi integre dopo secoli e qualunque tentativo di imbalsamarle in formule standard da difendere come se fossero animali in via d’estinzione è sbagliato, perché anche il vernacolo muta pelle. Gheno sottolinea che la città dove si usa di più il termine «minchia» non è Partinico ma Torino («Sa quanti siciliani emigrarono lì nel secolo scorso?»). Certo, ben vengano i tanti e internazionali progetti scientifici di sostegno, come il World Oral Literature Project dell’Università di Cambridge (Uk) che documenta e conserva in un archivio online il patrimonio linguistico. O come quello di Google, che nella versione per iPhone del traduttore riconosce sei dialetti italiani. Ma questa lingua materna deve unirci e arricchirci, mai dividerci.
Corriere della Sera, 16 dicembre 2019


venerdì 6 dicembre 2019

Limena 1943: padri e figli nei lager di Hitler di Bruno Trevellin


Limena 1943: padri e figli nei lager di Hitler
(di Bruno Trevellin)

(foto in RENATO MARTINELLO, Limena 1866-1970. Storie di uomini, uomini nella storia, pag. 158, Limena, 1992)

Sono stati ben 73 gli internati militari limenesi finiti nei lager tedeschi. Catturati dalla Wehrmacht dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, furono trasferiti nei campi di prigionia della Germania nazista, privati dei diritti che la Convenzione di Ginevra garantiva ai prigionieri di guerra e costretti come schiavi al lavoro coatto, quasi sempre nelle fabbriche belliche. I più vecchi avevano poco più di trent’anni, i più giovani erano ragazzi non ancora ventenni.
Potevano tornare in Italia, ma accettando di arruolarsi come soldati della Repubblica di Salò. Non lo fecero e rimasero nei lager per quasi due anni fino alla fine della guerra.
Nei tondi con foto della stampa sono riportati i loro cognomi e, anche se non sempre, i nomi di battesimo (a volte indicati con la sola iniziale), spesso con l’anno di nascita. Partendo dalla prima colonna a sinistra troviamo:
Aggigano I., 1918; Benvoluti Gino, 1907; Cabrelle Gino; Dolzan Ermenegildo; Martinello Massimo; Pinton Primo;
Aggujaro dr. Silvio, 1915; Bordinazzo A., 1921; Caon Amedeo, 1910; Fantin, 1911; Marzaro Marino; Piccolo Nicola; Scantamburlo A., 1916;
Agostini G., 1922; Bordinazzo Antonio; Celeghin Ferrante; Fantin Umberto, 1914; Mialto Aldo, 1912; Piva Emilio, 1915; Squizzato Primo;
Bortolazzo Francesco, 1911; Cesaro Bernardino, 1912; Favaro Silvio; Morbin Cesare; Piva Luigi, 1921; Tiso A.;
Gaiola Albano (+ deceduto), 1918; Ceron Albino; Fincato P., 1914; Molinari Luigi; Ramina Dino, 1923; Tiso Sante; Zecchinato Raffaele;
Marcato Albano (+), 1913; Celeghin Leonio; Gaiola Giulio; Morbin Arturo; Rizzetto M.; Tognon Mario, 1924; Zoccarato Aldo, 1924;
Miotto F. (+ deceduto), 1908; Celeghin Andrea; Granziero Tullio; Norbiato Angelo, 1914; Rossetto A., 1914; Varotto Amorino, 1916; Zoccarato Riccardo, 1921;
Brocca Giorgio; Cusinato Mario; Lovison G., 1923; Nardo Angelo, 1914; Rossetto Antonio, 1922; Varotto Bruno, 1920;
Bano Bruno, 1915; Brocca Primo; Destro Angelo; Marin Antonio; Nalesso Dino; Scarso Antonio, 1909; Zago Alessandro;
Bano Gino, 1910; Cabrelle A., 1923; De Rossi Stefano; Marini Giuseppe, 1913; Pertile Ampelio, 1923; Scaldaferro Giovanni; Zagon Antonio;
Barichello Gino, 1923; Cabrelle Alfredo; De Rossi Stefano; Martinello Attilio, 1921; Pezzolo Giuseppe; Scarso Pietro.   

Uno di loro, Nicolò Piccolo, è ancora in vita. Abita a Limena in via Buonarroti. Oggi ha 95 anni.
(Nicolò Piccolo, classe 1924, internato nel lager di Allendorf a 19 anni)

domenica 24 novembre 2019

TESTORI E LA LINGUA DEGLI ANGELI

TESTORI E LA LINGUA DEGLI ANGELI

Ai supremi momenti di conciliazione tra agape ed eros, che Giovanni Testori ha sempre sognato come il vertice stesso della poesia, la civiltà europea deve i suoi libri e le sue figure più intense

(M. Chagall, Abramo e i tre angeli)

Malgrado la sua inesausta passione letteraria, Giovanni Testori non ama i poeti, come Virgilio e Petrarca, che danno ai loro versi quella perfezione formale, quel palpito chiuso e levigato, quel tocco fuso e musicale, che anticipano per i nostri libri l' eternità della perfezione. La poesia che egli predilige è indifesa, lacerata, sconvolta da grandi squarci: si sacrifica, e con sé stessa sacrifica la letteratura, per lasciar irrompere da quegli squarci la voce dell' altro mondo. Pieno di reverenza e di timore, Testori ha atteso molto prima di confrontarsi con san Paolo, con la Prima lettera ai Corinzi (Longanesi, pagg. 128), che venera ancor più della Lettera ai Romani. In quel testo trova tutto ciò che chiede alle pagine di un libro: le verità della fede, colte nel momento incontaminato della loro scoperta; una grande cultura letteraria, come quella greca, che viene assalita da un' altra lingua e da un' altra religione, e ci appare ancora sconvolta, ma capace delle illuminazioni più dense e radiose.

Siccome è un poeta, Testori traduce la Lettera ai Corinzi in poesia, scoprendo il fuoco e il ritmo nascosti nelle righe prosastiche di san Paolo. Non ha simpatia per la tradizione della poesia italiana, da Petrarca a Montale. Così, in questi versi, ci accompagna tutto ciò che sta ai margini della tradizione letteraria italiana: il Dante più raziocinante: il balbettio mistico di Iacopone: le torsioni e gli inceppi michelangioleschi: il profumo dei grandi oratorii barocchi: qualche intonazione da canzonetta pastorale; e l' ultimo Leopardi. Mai come questa volta, sebbene in apparenza tenti una semplice traduzione, Testori ha scoperto la lingua nativa della propria poesia. Se le lingue degli uomini conosco e pur quelle degli angeli e non ho carità, cembalo sono che appena tinnisce, bronzo che suono non dà. Se profetare so, se i misteri tutti e intera la scienza a mio agio conosco, se così grande ho fede, da smuovere le montagne e non ho carità, sono nullità. Testori ha tradotto la Prima lettera ai Corinzi soprattutto perché conteneva il passo più famoso, e misterioso, di san Paolo: quello sull' amore (preferisco tradurre così agape, invece di carità), che comincia con questi suoni di bronzi e di cembali, forse troppo flebili forse troppo fragorosi.

Ma cos'è l'amore, per san Paolo? Come se volesse nasconderlo, o velarlo, o volesse giungere al suo obbiettivo partendo dal punto opposto, egli ricorre specialmente a definizioni negative. La prima non ci stupisce. L' amore è il contrario dell' "amore di sé", che La Rochefoucauld pose a fondamento del suo amaro ed elegante edificio; e dunque "non si infervora di passione, non si vanta con parole, non si gonfia di superbia, non cerca il proprio vantaggio, non si lascia eccitare dall' ira, non computa il male [ricevuto dagli altri]". Tutto è consueto, ci sembra: anche se doveva sembrare meno consueto ai cristiani provenienti dall' ebraismo, i quali sapevano come l' amore giudaico fosse geloso, appassionato, possessivo, esclusivo. "Forte come la morte è l' amore, / tenace come l' inferno il desiderio", aveva detto il Cantico dei Cantici. Ci stupisce molto di più la seconda definizione negativa. Con la sua rapidità violenta e paradossale, che distrugge con un gesto morali e tradizioni secolari, san Paolo ci ricorda che l' amore non è affatto quella carità attiva, che i comandamenti e i Vangeli raccomandano. Non è fare il bene a questo o quello: non è una virtù pratica e sociale, non è un' azione misurabile - e nemmeno compiere le opere più sublimi, come dare ai poveri tutto quello che possediamo o salire sul rogo in nome di Cristo. E, dunque, non è neanche, benché il suo nome sembri voler dire proprio questo, avere affetto, tenerezza, compassione per gli altri: non è "ama il tuo prossimo come te stesso". San Paolo non potrebbe essere più perentorio. Sebbene tanti lo abbiano confuso con un' etica, il cristianesimo (almeno quello della Lettera ai Corinzi) non è un' etica; e su di esso non è possibile costruire nessuna civiltà stabilita, nessuna società con doveri, obblighi, opere, ricompense. San Paolo continua il suo elogio, proclamando che l' amore è superiore a tutte le altre virtù umane, e ne costituisce il cuore e la musica segreta. Non c' è nulla sopra di esso: né la profezia della tradizione ebraica; né l' ineffabile lingua degli angeli, che i Corinzi credevano di intonare nell' estasi: né la speranza; né la conoscenza - che in questo mondo è così mediocre, perché conosciamo Dio e i misteri solo confusamente, come in uno specchio, "dentro enigmi".

L'amore è superiore persino alla fede. Nel Vangelo di Matteo, Cristo aveva detto: "Se avrete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: ' spostati da qui a lì' - ed esso si sposterà. Niente vi sarà impossibile"; e san Paolo - proprio lui che aveva costruito tutta la sua grandiosa teologia sulla fede e la nostra giustificazione per fede - con uno dei suoi meravigliosi capovolgimenti, risponde: "Se avessi tutta la fede, tanto da poter trasportare i monti, ma non avessi l' amore, non sarei nulla". Tutte queste virtù - la profezia, il dono delle lingue, la speranza, la conoscenza e la fede - avevano, secondo san Paolo, una deficienza comune. Erano virtù di questo mondo intermediario, nel quale viviamo "gemendo" e "aspettando ansiosamente la redenzione", senza vedere Dio fuori dallo specchio adombrato. Imperfetta è la nostra profezia: imperfetto il nostro dono delle lingue: imperfetta la nostra enigmatica e frammentaria conoscenza; imperfette la speranza e la fede, che non scorgono mai Dio, oggetto del loro desiderio. Alla fine dei tempi, quando con un tocco leggerissimo della mano Dio aprirà le porte del suo regno invisibile, tutti questi doni verranno meno, come neve sotto la luce del sole. Così, dopo un lungo circuito, grazie alla sua acutissima arte dialettica, san Paolo ci ha portato accanto all' essenza dell' amore. In questo mondo attuale e intermediario, dove tutte le virtù sono monche, l' amore è l' unica virtù perfetta, piena e assoluta, come sarà perfetta, alla fine dei tempi, la visione diretta (non "nello specchio", non "dentro enigmi"), che avremo della luce di Dio. Non dobbiamo attendere e rinviare indefinitamente l' attesa, come la speranza e la fede ci consigliano.

Nell' amore, tutto è già qui: Dio è già dentro di noi. Oggi non sappiamo altro di lui: non portiamo in noi una scintilla luminosa del suo essere, né lo conosciamo, né lo contempliamo nell' estasi, né lo realizziamo con le nostre azioni: lo incontriamo soltanto nell' amore, che ci colma in questo stesso momento, ed esce da noi come una sovrabbondante acqua soave. Ma se l' amore è il presente assoluto, è anche l' assoluto futuro. Alla fine dei tempi, quando si spalancheranno le porte del Regno, le profezie e la speranza e la fede si compiranno, e dunque verranno meno. Non ci sarà più nessuna virtù umana. Nel vuoto della fine, ci sarà soltanto l' amore, che in quel momento non sarà altro che la Visione piena, meticolosa e radiosa del volto di Dio. Appena giunge a questa rivelazione, san Paolo ci abbandona. Vorremmo sapere di più: vorremmo che egli ci descrivesse con minuziosa attenzione, come Platone e i greci avevano rappresentato Eros, la figura, la qualità e gli effetti di Amore. Ma san Paolo non può dirci altro: come potrebbe indicarci l' essenza nascosta di amore, se questa essenza è quella di Dio? Egli si limita a rivelarci qualche segno. Se vogliamo riconoscere l' apparizione di Amore nel mondo, e non disconoscerlo e confonderlo con altre figure, dobbiamo ricordarci che è "benigno" e pieno di "decoro". Quando egli passa, ogni fervore (ogni zelo) di passione si placa; e questa mitezza e quiete ci lasciano presentire che il ritmo armonioso, il quale conosce soltanto la giustezza del tono, è la chiave dell' universo. Un altro segno è che l' amore "tutto sopporta". Non accusa i mali compiuti dagli altri o da noi: "copre" o scusa o vela tutte le azioni e i pensieri malvagi che riempiono il mondo: li supera col pensiero; li annulla; e così riesce a sopportare il terribile peso della realtà, fino a quando, con un gesto lieve, essa si scioglierà in quella futura.

Nel Nuovo Testamento e nelle lettere di san Paolo, c'è un' immensa omissione: una omissione che testimonia un capovolgimento di civiltà, del quale san Paolo era certo consapevole. Tra i tre verbi greci che indicano l' amore - eran, filein, agapan - manca completamente il primo: eran e il sostantivo Eros. Ora, nella civiltà greca classica ed ellenistica, eran esprimeva il desiderio, la tenerezza, l' affetto: un desiderio oscuro, che ispirava tormentose passioni, tormentando instancabilmente le cose animate "con voluttà e dolorosa delizia": un desiderio inesorabile del corpo e del cuore; e finiva per trasformarsi nel delirio filosofico, col quale contempliamo le forme dell' Essere, nel delirio religioso che ci innalza verso la bellezza degli dei. Nel Nuovo Testamento, che adotta un verbo inizialmente scolorito come agapan, non c' è traccia di Eros. Dal nuovo mondo san Paolo estromette sia l'Eros terreno sia l'Eros celeste: soprattutto la loro fusione e contaminazione, nella cultura platonica, doveva offenderlo. Non c'era nessuna via per trasformare la nostra morbida tenerezza sensuale, i nostri affetti impuri e melodici, nella dedizione verso chi abita nell'alto dei cieli. Se volessimo, potremmo raccontare venti secoli di civiltà cristiana come la storia della lunga battaglia di Agàpe contro Eros ed Eros contro Agàpe: il puro ardore divino, che ignora le passioni umane e anticipa il futuro, e la tenerezza terrena, che si slancia verso gli dei e si identifica con loro nell' estasi. Forse questa battaglia non si estinguerà mai. Ma dovremmo raccontare anche i momenti di conciliazione e di fusione, tra i neoplatonici del Medioevo e nel Rinascimento italiano e spagnolo, quando Eros diventò Agàpe (o Agàpe diventò Eros). In apparenza era una fusione impossibile: eppure avvenne; e la musica dei versi di Giovanni della Croce sembra la celebrazione del loro incontro. A questi supremi momenti di conciliazione, che Giovanni Testori ha sempre sognato come il vertice stesso della poesia, la civiltà europea deve i suoi libri e le sue figure più intense.

(PIETRO CITATI, La Repubblica, 14 luglio 1991) 

sabato 23 novembre 2019

Così resiste l'istrioto, "favelà" di un popolo, lingua neolatina preveneta, autoctona dell’Istria con tremila parlanti


Reportage. Così resiste l'istrioto, "favelà" di un popolo


Lucia Bellaspiga, inviata a Sissano (Istria, Croazia) venerdì 22 novembre 2019
Un festival a Sissano prova a conservare la lingua romanza autoctona dell’Istria meridionale, inserita dall’Unesco nel libro rosso degli idiomi quasi scomparsi
Un laboratorio del Festival dell'Istrioto che si è svolto a Sissano, in Istria
 Come gli ultimi dei Mohicani. Seduti al banco con quaderni e dizionari come fossero scolari, anche se i capelli spesso sono bianchi. Si consultano, confrontano vocaboli e pronunce, recitano proverbi ereditati dai bisnonni, traducono poesie e canti. Sono gli ultimi a ricordare l’istrioto, una lingua autoctona dell’Istria meridionale considerata dall’Unesco in grave pericolo di estinzione e perciò inserita nel “Red Book of seriously endangered languages”, il libro rosso degli idiomi quasi scomparsi. Per questo sono stati convocati in Istria (attuale Croazia): per richiamare in vita un idioma, prima che si spenga per sempre. Oggi resiste solo in sei paesini – Rovigno, Valle, Dignano, Gallesano, Sissano e Fasana –, e sarebbe affidato alla memoria degli anziani del posto... Se non fosse che alla fine della seconda guerra mondiale l’esodo degli italiani in fuga dal nuovo regime jugoslavo svuotò l’Istria, e nella diaspora gli esuli portarono via con sé anche la parlata: da Torino ad Alghero, dalla Puglia alla Sicilia, da Milano a Roma, ma anche in Australia, in Sudafrica, in Canada. Si stima che oggi nel mondo siano in tremila a parlare istrioto, in gran parte sul territorio italiano. «Spesso sono loro ad aver mantenuto nei decenni l’istrioto originale, perché chi va lontano cristallizza la lingua senza più modificarla, un po’ come succede agli emigranti», spiega Paolo Demarin, presidente della Comunità degli Italiani di Sissano, nonché della Assemblea dell’Unione Italiana di Croazia e Slovenia, «per questo abbiamo deciso di mettere a confronto i nostri residenti e coloro che partirono per il mondo: tocca a noi giovani tenere in vita il patrimonio identitario dei nostri nonni».
Così il “Festival dell’istrioto” per la prima volta dai tempi della guerra mondiale ha riunito i “rimasti” e il popolo della diaspora, raccolto tappa dopo tappa da un pullman passato per Torino, Novara, Milano, Padova e approdato a Sissano con il suo carico di anziani, ma anche di figli e nipoti che in casa hanno imparato un istrioto rimasto inalterato dal 1945. «È una lingua neolatina preveneta, autoctona dell’Istria», spiega Luca Covelli, 36 anni, uno degli organizzatori del Festival, introducendo già la complessità di un idioma in buona parte misterioso. Da non confondersi con il ben noto istroveneto, tuttora molto diffuso in Croazia e Slovenia, «è la prova indiscutibile della romanicità autoctona e ininterrotta nel corso dei secoli dell’Istria. Gli altri dialetti che vi si parlano sono arrivati dopo l’istrioto, che resta quindi l’espressione linguistica più antica ancora esistente».
Ma come mai si è conservato solo in sei paesi? Anche nella grande città, a Pola, era certamente in uso fino a metà ’800, «ma poi venne pesantemente influenzato da altre parlate e infine sostituito dall’istroveneto “polesàn”, specie dopo che l’Austria scelse Pola come base principale della Marina militare asburgica dando forte impulso al porto e richiamando nuovi istriani da ogni dove: tedeschi, ungheresi, veneti, friulani, sloveni, croati, italiani del Meridione». Tre giorni di laboratorio linguistico hanno riportato alla memoria vocaboli e proverbi del favelà (così si chiama l’istrioto in lingua) quasi dimenticati. Tra i testimoni più attivi c’è il maestro Luigi Donorà, 84 anni, direttore d’orchestra e compositore, arrivato da Torino. Per decenni ha raccolto dagli anziani i canti della tradizione popolare della sua terra e li ha armonizzati: «Sono partito esule da Dignano, ma a Torino ho sempre parlato bumbaro (la versione dignanese dell’istrioto, ndr), con mia figlia sto scrivendo un dizionario dei nostri vocaboli». Sua figlia Giuliana, 46 anni, è nata a Torino ma ha il cuore in Istria, «pensare che da piccola mi vergognavo quando papà fuori scuola mi parlava bumbaro – sorride –. Qui al Festival di Sissano è come mettere la macchina d’ossigeno a un malato e vedere che si rialza. Sono felice di vedere in una sola aula tante persone appassionate e di tutte le età: le differenze tra le sei parlate sono evidenti, è interessante».
L’ulivo a Dignano è il vuléio, a Valle l’ulìoL’insalatiera a Rovigno è la puòdana, a Sissano la piàdina... Un istrioto unitario in realtà non esiste – spiega – ma alcune caratteristiche fonetiche accomunano le sei varianti, ad esempio la massiccia presenza di dittonghi (frouto per frutto, preimo per primo), o il suffisso -o al posto della -e finale ( nuoto per notte, zento per gente, navudo per nipote). Come si vede, la similitudine con il veneto è molto parziale e non basta certo a spiegare le origini di un idioma che è sì romanzo (l’Istria era regione romana), ma basato su un substrato istro, con apporti lasciati dalle varie dominazioni bizantina, longobarda, veneziana, austriaca, italiana... Da oltre un secolo gli studiosi cercano di dipanare la matassa, a partire dal padre della glottologia Graziadio Isaia Ascoli, colui che coniò per il favelà il nome “istrioto”, nato a tavolino. Lo ha di recente adottato anche il vocabolario Zingarelli tra le mille parole aggiunte alla nuova edizione: «Ovviamente non è un neologismo», sottolinea Mario Cannella, storico curatore dell’opera edita da Zanichelli. Che alla fine ha scelto di definirlo 'dialetto neolatinoveneto', tenendo così conto dell’origine preveneta ma da secoli profondamente venetizzata. La querelle non è di poco conto e persino la politica ha orientato il dibattito tra i linguisti del primo Novecento, da una parte propensi a sottolineare la matrice veneta, dall’altra (gli studiosi jugoslavi) l’originalità rispetto ai dialetti italiani. Il linguista Matteo Bartoli riteneva che l’istrioto affonda le radici nella decisione di Ottaviano Augusto di lasciare sul posto i veterani del suo esercito dopo la vittoria, legionari provenienti da Abruzzo e Puglia che si mescolarono agli Istri autoctoni. E numerosi contatti linguistici con l’abruzzese e il tarantino, d’altra parte, erano notati anche dallo storico Bernardo Benussi (teoria suffragata dalla presenza in Istria delle “casite”, uguali ai trulli pugliesi).
Quel che è certo è che per secoli la lingua è stata solo orale e curiosamente la prima testimonianza scritta, del 1835, si deve al canonico Pietro Stancovich, che tradusse la parabola del “Figliol prodigo”: «Oûn omo al viva du fiuòi. El pioûn peîcio da luri ga deîs a su padre: misàr pare, dime la parto de la ruoba ca ma tuca», dammi la parte di patrimonio che mi spetta... E ora? «Il prossimo obiettivo – spiega Demarin – è far dichiarare ufficialmente l’istrioto “Patrimonio culturale immateriale” da parte della Repubblica di Croazia, della Regione Istriana, dei sei comuni in cui è parlato e della intera realtà italofona, quindi della Repubblica italiana, così che venga tutelato ». Il tempo – aggiunge Covelli – non è a nostro favore, lo dimostra il caso di Fasana, dei sei paesi il più colpito dall’esodo, scelto dal maresciallo Tito come luogo di villeggiatura dunque “jugoslavizzato”: «Per questa edizione non abbiamo trovato alcun fasanese madrelingua in vita. La nostra speranza è che ne rimanga ancora qualcuno nella diaspora, là fuori in qualche angolo del mondo...».


venerdì 22 novembre 2019

La RAI alla Scuola Media di Limena nel 1973 per la lezione del maestro Claudio Scimone con I Solisti Veneti


La RAI alla Scuola Media di Limena nel 1973 per la lezione del maestro Claudio Scimone con I Solisti Veneti (dal minuto 6.47)

Nell’allora palestra, oggi Scuola dell’Infanzia ‘Il Melograno’, anno scolastico 1972-73, i ragazzi di Limena assistono alla lezione del maestro Claudio Scimone e dei suoi Solisti Veneti.
Evento straordinario ripreso dalla RAI. Dal minuto 6.47 le riprese sono fatte esclusivamente nella scuola media Beato Arnaldo da Limena.
La preside dell’epoca era la prof. Rosaria Trevisan (la si vede indirizzare con ordine i ragazzi).

domenica 27 ottobre 2019

BRUNO TREVELLIN, L’essenza del padre di famiglia in Peguy: avventuriero, ostaggio e mistico


BRUNO TREVELLIN, L’essenza del padre di famiglia in Peguy: avventuriero, ostaggio e mistico


In Véronique, Dialogo della storia e dell’anima carnale Charles Péguy (1873-1914), autore tra i più amati anche da Albino Luciani (papa Giovanni Paolo I), che lo definisce ‘cantore della speranza’, si spinge a delle considerazioni sulla vita del padre di famiglia che solo a prima vista possono sembrare audaci e sorprendenti, quando in realtà non fanno che confermare l’essenza di un ruolo che né gli intellettuali né i chierici del suo (e del nostro) tempo riusciranno a cogliere.
In Veronique (opera iniziata nel 1909, ma mai portata a termine dall’autore) è la storia, Clio, che parla, la “storia che arriva sempre in ritardo”, che sta sempre alla ricerca di “vane tracce”, limitandosi Veronique, la Veronica della salita di Gesù al Calvario, ad ascoltare, lei “un’ebrea da niente, una ragazzina”, che però si è trovata al momento giusto e nel punto giusto a raccogliere col suo fazzoletto la traccia dell’evento più importante nella storia dell’umanità. E questo suo ragionamento Peguy lo fa a partire dai trent’anni di vita passati da Gesù in famiglia, anni di cui i vangeli non parlano, ma che è “la vita più coinvolta nel mondo che al mondo ci sia” e che solo per un errore stupido e grossolano si può ritenere “ritirata dal mondo”. È esattamente il contrario, dice Peguy, che evidentemente parla per esperienza diretta. È la vita di famiglia a essere la più coinvolta nel mondo, anzi

 “c’è un solo  avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo moder­no: è il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventu­rieri non sono nulla, non lo sono per niente al suo confronto. Non corrono assolutamente alcun perico­lo, al suo confronto”.

Nel mondo moderno tutto sembra organizzato contro di lui, che risulta disprezzato per la sua stoltezza, per la sua imprudenza, per l’audacia che ha avuto nel mettere su famiglia, avendo moglie e figli, ma che proprio per questo è un avventuriero, l’unico vero avventuriero in questo mondo, l’unico che attraversa un’avventura. Gli altri, quelli che non sono padri, soffrono infatti solo per se stessi, mentre lui invece soffre per altri, dei quali è responsabile. La moglie e i figli diventano i suoi ostaggi. Mentre gli altri “possono infischiarsene” di ciò che accade nel mondo, lui, il padre di famiglia, è invece costantemente coinvolto nel mondo e non può scantonare.

“Capo e padre di ostaggi, anche lui stesso è sempre ostaggio”.

Può infatti accadere di tutto: guerre, rivoluzioni, guerre civili, guerre straniere e gli altri non rischierebbero che la loro testa. Lui no, perché lui

“è il luogo d’appuntamento di tutte le tempeste”.

E vi è coinvolto non solo per il presente e per il futuro, ma
“anche in tutto il passato, nella memoria, in tutta la storia (…). Niente di quello che succede, niente di storico è per lui indifferente. Soffre di tutto. Soffre dappertutto (…). Chi non ha mai avuto un bambino malato non sa cosa sia la malattia. Chi non ha perso un bambino, che non ha avuto, che non ha visto morto il suo bambino, non sa cosa sia il dolore. E non sa cosa sia la morte”.

E il suo è un destino di sconfitta, è condannato a non riuscire. Il peso della famiglia lo rende inadatto alla corsa. E Peguy non usa mezzi termini per quest’uomo. Un padre di famiglia è grosso, ha come un tessuto adiposo che lo ostacola in un mondo, quello moderno, che è solo “concorso e concorrenza”. Così gli altri corrono e arrivano, lui invece no. E tutti lo disprezzano. In primis i chierici, essendo lui, il padre di famiglia, così coinvolto nel mondo da risultare il più lontano dalla regola, dalla clericatura, al punto che un istinto segreto avverte il chierico che quello là, il padre di famiglia, è il più vicino al pubblico peccatore.
Contrariamente a quello che si pensa, non è il celibe a essere un avventuriero, ma il padre di famiglia,

“colui che vive non solo alcune avventure, ma una sola, una grande, un’immensa, una totale avventura; l’avventura più terribile, la più costantemente tragica; la cui vita stessa è un’avventura”.

Questo fa di lui il vero avventuriero, caratteristica che non potrà mai essere, appunto, propria del celibe.
È proprio questa vita di famiglia che Gesù ha prediletto, vivendola per trent’anni, da uomo ordinario, gli altri tre essendo tutta un’altra cosa.

“Durante quei trent’anni era un uomo privato, come tutti noi, un semplice singolo, viveva la vita di famiglia; (…). Lavorava con le sue mani nella casa di suo padre. Sappiamo con certezza che era un buon lavoratore. Falegname, lavorava come falegname nella casa di suo padre falegname”.

Gesù, cioè, ha scelto una vita che fosse la più coinvolta nel secolo. Anzi, continua Peguy nella sua riflessione, anche gli ultimi tre anni non sono stati affatto un ritirarsi dal mondo, ma “un potente, infinito muoversi verso il secolo”, in quelli che furono veramente anni impegnati nella storia, “anni mistici, storicamente mistici”, nei quali realizza la fondazione di una “città mistica, nel secolo, lavorando il secolo per l’eternità”. Era questa la mistica di Gesù: “nessuna separazione tra secolo e regola”, ma una penetrazione continua, intima, un’infusione “che raggiunge, tinge, penetra fino in fondo i tessuti stessi” della carne in modo capillare. In quei tre anni fluì

“una sorgente mistica infinita, eterna, una sorgente di vita, che si vivifica da sé, una sorgente di grazia infinita. (…) Chi potrà raccontarti, amico mio, chi ti ridarà i tre anni di quella storia; durante tre anni storici. (…) I tre anni della storia più grande. Qui io, la storia, sono proprio insufficiente, lo sai. È troppo per me. (…) Tutto quello che posso fare io , lo sai, è registrare qualche risultato. Quando sono bell’e fatti, (…) belli incorniciati, -bell’e morti”.     

Il testo di CHARLES PEGUY e un saggio di ALAIN FINKIELKRAUT

Da C. Peguy, Veronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale, p. 65-72, Marietti, 2013

Tutto nel mondo moderno, e so­prattutto il disprezzo, è organizzato contro lo stolto, contro l’imprudente, contro il temerario,
Chi sarà tanto prode, o tanto temerario?
Contro lo sregolato, contro l’audace, contro l’uomo che ha tale audacia, avere moglie e bambini, contro l’uomo che osa fondare una famiglia. Tutto è contro di lui. Tutto è sapientemente organizzato contro di lui. Tutto si rivolta e congiura contro di lui. Gli uomini, i fatti; l’accadere, la società; tutto il congegno automatico delle leggi economiche. E infine il resto. Tutto è contro il capo famiglia, contro il padre di famiglia; e di conse­guenza contro la famiglia stessa, contro la vita di fami­glia. Solo lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura. Perché gli altri, al maximum, vi sono coinvolti solo con la testa, che non è niente. Lui invece ci è coinvolto con tutte le sue membra. Gli altri, al maximum, si giocano solo la loro testa, il che non è niente. Lui invece mette in gioco tutte le membra. Gli altri soffrono solo per se stessi. Ipsi. Al primo grado. Lui solo soffre per altri. Alii patitur. Al secondo, al ven­tesimo grado. Fa soffrire altri, ne è responsabile. Lui solo ha degli ostaggi, la moglie, il bambino, e la malattia e la morte possono colpirlo in tutte le sue membra. Gli altri navigano a secco di vele. Lui solo, qualunque sia la forza del vento, è obbligato a navigare a piene vele. Tutti hanno vantaggio su di lui e lui non ha vantaggio su nes­suno. Si muove continuamente con i suoi ostaggi, in lungo e in largo tra quei terribili fortunali. Le cose che accadono, i guai, la malattia, la morte, tutto ciò che accade, tutti i guai hanno vantaggio su di lui, sempre; è sempre esposto a tutto, in pieno, di fronte, perché navi­ga su una larghezza immensa. Gli altri scantonano. So­no corsari. Sono a secco di vele.
Ma lui, che naviga, che è obbligato a governare la nave su questa rotta immen­samente larga, lui solo non può assolutamente passare senza che la fatalità si accorga di lui. E allora è lui che è coin­volto nel mondo, e lui solo. Tutti gli altri possono infi­schiarsene. Lui solo paga per tutti. Capo e padre di ostaggi, anche lui stesso è sempre ostaggio. Che impor­ta agli altri di guerre e rivoluzioni, guerre civili e guer­re straniere, l’avvenire di una società, ciò che accade alla città, la decadenza di tutto un popolo. Non rischia­no mai altro che la testa. Niente, meno di niente. Lui invece non solo è coinvolto dappertutto nella città pre­sente. Dalla famiglia, dalla sua razza, dalla sua discen­denza da quei bambini è coinvolto dappertutto nella città futura, nello sviluppo ulteriore, in tutto il tempo­rale accadere della città. Si gioca la razza, si gioca il popolo, si gioca la società, mette come posta la società. Si gioca (tutta) la città, presente, passata, a venire. Tale è la sua posta in gioco. Gli altri scantonano sempre. Sono carene leggere, sotti­li come lame di coltello. Lui è la nave grossa, pesante bastimento da carico. È il luogo d’appuntamento di tutte le tempeste. Tutti i venti del cielo congiurano e si mettono d’accordo, si abbattono da tutti gli angoli del cielo, accorrono e si intersecano da tutti i punti del­l’orizzonte per assalirlo. Lui scopre alla sorte, alla for­tuna, alla sfortuna che vigila, alla fatalità una larghezza (di spalle) (su cui abbattersi), una superficie, un vo­lume incredibile. Non è coinvolto solo nella cit­tà presente.
È coinvolto dappertutto nell’avvenire del mondo. E anche in tutto il passato, nella memoria, in tutta la storia. È assalito dagli scrupoli, straziato dai rimorsi, a priori, (di sapere) in che città di domani, in quale ulteriore società, in quale dissoluzione di tutta una società, in quale miserabile città, in quale deca­denza, in quale decadenza di tutto un popolo lasceran­no, consegneranno, domani, stanno per lasciare, entro qualche anno, il giorno della morte, quei bambini di cui i padri  si sentono così pienamente, così assoluta­mente responsabili, di cui sono temporalmente i pieni autori. Quindi per loro nulla è indifferente. Niente di quello che succede, niente di storico è per loro indiffe­rente. Soffrono di tutto. Soffrono dappertutto. Solo loro hanno esaurito la sofferenza temporale, tutto il dolore di chi vive nel tempo. Chi non ha mai avuto un bam­bino malato non sa cosa sia la malattia. Chi non ha perso un bambino, chi non ha visto morto il suo bambino non sa cosa sia il dolore. E non sa cosa sia la morte. E, coinvolti da ogni parte nelle sof­ferenze, nelle miserie, in tutte le responsabilità, sono tutti  ingolfati nell’esistenza, sono pesanti e impacciati, sono goffi, impediti nelle manovre; sembrano deboli e vili; non solo lo sembrano; sono deboli, sono vili, sono codardi. Nella manovra. Capi responsabili e appesanti­ti, carichi e responsabili di una banda di prigionieri, prigionieri essi stessi, carichi, responsabili di una banda di ostaggi, ostaggi essi stessi, non fanno un passo che non sia vigliacco, sembrano, sono circospetti, sono prudenti, non fanno una mossa che non sia sconcertante. E tutti li disprez­zano e, quel che è peggio, hanno ragione a disprezzarli. Gli altri scantonano sempre. Non hanno bagagli. Vili, scantonano con districamenti politici. Coraggiosi scan­tonano con districamenti eroici, con districamenti d’au­dacia. Temporali, scantonano verso la carriera e le domi­nazioni temporali. Spirituali, scantonano, si defilano verso le osservanze della regola. Storici, scantonano verso le carriere della gloria. Riescono sempre, sia nella regola, sia nel secolo.
II padre di famiglia è solo, e condannato a non riuscire affatto. Non può mai scanto­nare. Deve sempre passare in tutta la sua larghezza. Ed è molto semplice, non ci passa. Non ci passa mai. Non passa da nessuna parte. Non riesce né nella regola né nel secolo. Non riesce nella regola, la regola si oppone. Prima di cominciare. Non riesce nel secolo. Il secolo si oppone prima, durante, dopo. Non riesce nella poli­tica e non riesce nell’audacia. È troppo grosso. Ha tutta la famiglia attorno al corpo. È come la donnola di La Fontaine, ma dopo che è ingrassata. Ha socialmente un grasso, un tessuto adiposo sociale, che lo rende inadatto alla corsa. Ora, temporalmente tutto non è altro che corsa, non è altro che concorso e con­correnza. Gli altri corrono, intanto, gli altri arrivano, quelli magri, fini, sottili, socialmente scarichi, sgombri di bagagli. Così tutti lo disprezzano; in sua presenza, tra di loro, lo schermi­scono; sordamente, involontariamente congiurano con­tro di lui. Più di tutti gli altri, lo disprezzano i preti. Perché hanno questo (di bello), quando si accaniscono su qualcuno, ci si riaccaniscono di preferenza. Prefe­renzialmente. E quello che chiamano la carità.
Bisogna sottolineare attentamente che la vita di famiglia è la vita più impegnata nel secolo, la vita meno conforme, la meno simpatica, la meno affine alla regola. Vuol dire lasciarsi prendere, lasciarsi ab­bindolare dalle apparenze più grossolane, commettere l’errore più smaccato, e anche naturalmente il più co­mune, l’errore più frequente, quello di dire che la vita pubblica è vivace, e la vita di famiglia è silen­ziosa, e la regola, la vita regolare è anche lei silenziosa; e quindi la vita pubblica è non ritirata, e la vita di fa­miglia è ritirata, e la regola, la vita regolare è anche lei ritirata; e concluderne, credere, che sia la vita di famiglia che è vicina alla vita di regola, apparentata alla vita di regola, e che sia la vita pubblica che se ne è allontanata. Questo è lasciarsi prendere dalle più grossolane apparenze. È diame­tralmente il contrario.
La vita di famiglia è agli antipodi della vita della regola. Nessun uomo al mondo è coin­volto nel mondo, nella storia e nel destino del mon­do quanto l’uomo di famiglia, tanto quanto il padre di famiglia, così pienamente, così carnalmente. L’uomo pubblico invece, il vir politicus, non è affatto coinvolto nel mondo, non è affatto coinvolto nella storia e nel destino del mondo. Cosa importa all’uomo politico, al demagogo, al tribuno, all’oratore, al legislatore, all’eloquente, anche all’uomo politico serio, all’uomo pubblico, all’uomo di Stato, all’uomo di governo, (e a maggior ragione) al capo di partito (come tali), cosa importa al militare e al giudice, al generale e al presidente di corte e al presidente di camera, (come tali, come tali), che importa come tali al funzionario e al magistrato, al generale, al deputato, al senatore, al giornalista, al pubblici­sta, all’esattore, e all’usciere del ministero, cosa importa al signor sindaco; cosa importa come tale a ogni uomo pubbli­co delle sorti della città presente, le sorti ulteriori, la destinazione e il destino; cosa gli importa di cosa sarà di questo popolo, cosa faremo di questo popolo; vi sono coinvolti solo con la testa e qualcuno con la gloria; al massimo con l’onore, quando ne hanno: niente, meno di niente. Non ci rischiano che la testa, al più, al maximum; al meno, di solito l’avanzamento, la carriera, al più del meno l’apice; miserie. Gloria tem­porale, onore temporale; niente, meno di niente. Avan­zamento temporale, carriera temporale, apice temporale, testa temporale; miserie. E le gioie e le miserie del dominio. E le gioie e le miserie del denaro. Ecco tutto quello che si giocano. Come tali. Se intanto, se insieme sono padri di famiglia, cosa estremamente rara, l’ope­razione è tutta diversa, il comportamento e l’azione pubblica è tutta diversa, tutta diversa la situazione anche per così dire topografica, geografica, demogra­fica. Cosa importa loro, come tali, una rivoluzione, una guerra civile o straniera, un sabotaggio di tutto un po­polo. Una diminuzione, una decrescita; una perdita, forse irrimediabile; una decadenza, forse irreparabile, irrevocabile. Tutt’al più si giocano, nel temporale, una gloria del loro nome, la gloria, ulteriore, l’onore o il discredito sul loro nome. Di solito questo tipo di con­siderazione li lascia abbastanza freddi. Sono abba­stanza poco sensibili a considerazioni di questo tipo. Di solito.
Solo il padre di famiglia mette in gioco, rischia, impegna infinitamente di più nella destinazione del mondo, nel secolo, nella destinazione di tutto un popolo; nel futuro di una razza. Nel destino di tutto questo popolo, nell’avvenire di questa razza impegna tutto, mette tutto, la sua carne e di più; si gioca la razza, si gioca davvero il popolo, si gioca la sua discendenza. II solo padre di famiglia, il padre di famiglia da solo. Ed è un pover’uomo. Tormentato da scrupoli, assalito, invaso, tormentato da rimorsi, per crimini che non ha affatto commesso, che non commetterà mai, che altri mille, che tutti gli altri commetteranno, sente oscura­mente, molto profondamente, che è lui, in effetti, che è lui davvero il responsabile. Perché è padre di famiglia. È uno dei casi più significativi che ci siano di responsa­bilità senza colpa, di colpevolezza senza colpa. Eppure di responsabilità reale, di colpevolezza reale; comune; misteriosa; di fatalità, anche; infinitamente più profonda; segreta; in comunità, in comunione; con la crea­zione con (tutto) il mondo; infinitamente più grave delle nostre proprie responsabilità, personali, particola­ri, limitate, note, individuali e collettive; infinitamente più profonda; infinitamente più vicina alla creazione stessa; e quasi (oscuramente ce ne accorgiamo), quasi infinitamente più giusta, attinente alla creazio­ne stessa, al mistero, al segreto della creazione; una col­pevolezza, allora, infinitamente più seria delle nostre colpevolezze propriamente criminali.
Per il padre di famiglia (questo è lo stato, costante, uno stato situazionale; è la sua stessa patente, la sua condizione ab urbe condita, una volta fondata la famiglia. È la sua stessa definizione, il pane di tutti i (suoi) giorni, il cruccio delle sue notti. È il midol­lo, stesso, della sua vita, il segreto della sua esistenza, la sua regola interiore, la sua regola esteriore, la regola del suo secolo, la sua regola di secolo. Ed è un pover’uomo; innocente criminale; innocente responsabile; innocente colpevole; innocente assalito da scrupoli; innocente tormentato dai rimorsi; legato, incatenato da ogni parte, mani, piedi, da tutti i lacci, da tutte le catene, è lui, amico mio, è lui, e lui solo, che ha le relazioni peri­colose; confuso, prigioniero, ostaggio, manette alle ma­ni, ganasce ai piedi, capo, responsabile dei prigionieri, capo, responsabile degli ostaggi, fa pena, è esposto a tutto, ai quodlibet, alle ingiurie, al peggio di tutto: a una sorta di riprovazione, di malevolenza universale, di presa in giro, di tacita ingiuria, (peggiore, infinitamen­te più grave di quella formale), perché se è così tacita, se può essere così sottintesa, come se andasse da sé, per così dire; non vale la pena di parlarne, perché tutti lo sanno bene; è una cosa intesa, senza che ci si pensi, una cosa alla quale tutti consentono, a cui tutti danno la mano. È infinitamente peggio di una cosa infinitamen­te concertata, che una cosa universalmente concertata. È una cosa universalmente non concertata. Così è infi­nitamente meno demolibile. Una cosa che va da sé. Che si sappia. Allora tutti ci calpestano sopra.
Allora, rin­galluzzito, anche il prete ci calpesta sopra. Clericus. Il sacerdote se ne accorge bene, un istinto di casta lo av­verte, uno degli avvertimenti, uno degli istinti più si­curi, uno degli istinti più infallibili, un segreto orgo­glio infallibile lo avverte che è lui il nemico, il più lontano, il più straniero, che l’uomo di famiglia, che il padre di famiglia è l’uomo più lontano dalla regola e dalla clericatura, l’uomo del mondo più coinvolto nel mondo, un istinto segreto lo avverte che lui è infinita­mente più vicino al pubblico peccatore; e reciproca­mente; che il tribuno, l’oratore, l’eloquente, l’uomo della tribuna è infinitamente più vicino all’uomo del pulpito, infinitamente più imparentato all’uomo del pulpito, che l’uomo del meeting, della pubblica riunio­ne è infinitamente più vicino all’uomo della predica e all’uomo del sermone; più pronto, per l’uno e per l’al­tro, sia per diventarlo, sia per subirne l’effetto, sia insie­me l’uno e l’altro, che sono dello stesso genere, che si passa comodamente e quasi continuamente dall’uno all’altro, che c’è tra loro un’intesa, interna, un accordo segreto, una somiglianza, almeno di modo, e in più che appartengono allo stesso mondo; e per la regola che il celibe, l’uomo libero, il non prigioniero, il non ostag­gio, lo slegato, il non legato, l’inlegato, il mai legato, lo scantonatore, il pié leggero, il corridore, il bombarolo, il festaiolo, l’uomo all’erta è infinitamente più vicino; e più pronto, più disponibile; che lui piace di più; che con lui ci si capirà meglio, ci si intenderà sempre. E poi è lui che è un personaggio gradevole. Il padre di fami­glia è un povero essere. Tirar su solo tre bambini, pensa un po’. Che grottesco, che ridicolo. Tutte le forze della società sono congiurate, si congiurano contro una cosa del genere. Ora, il sacerdote è una forza della società, fa parte delle forze della società. Allora tutti calpestano il padre di famiglia. Allora il sacerdote, ardi­to, lo calpesta. Non ha che indulgenza, e che indulgenze, per tutti gli altri. Si crede di solito che il celibe, l’uomo senza famiglia è un uomo di fortuna(e), un avven­turiero, che vive di avventure.
Invece è l’uomo di fami­glia che è un avventuriero, che vive non solo alcune avventure, ma una sola, una grande, un’immensa, una totale avventura; l’avventura più terribile, la più costan­temente tragica; la cui vita stessa è un’avventura, il tes­suto stesso della vita, la trama e l’ordito, il pane quoti­diano. Ecco l’avventuriero, il vero, il reale avventuriero.

Da ALAIN FINKIELKRAUT, Le mécontemporain. Peguy, lecteur du monde moderne, Gallimard, 1991, p. 34-41, traduzione)

Peguy rimprovera ai cattolici del suo tempo o più precisamente ai chierici, ai “fondatori del potere dell’eterno”, di avere commesso un “errore di mistica” nel disprezzare il temporale e nel trascurare la creazione. Perché un errore di mistica? Perché quella che definisce operazione mistica non è, come si dice comunemente, l’immediatezza del contatto con il cielo, è il fatto, per l’anima, di tenere i piedi sulla terra. Et homo factus est. Gesù non si è ritirato dal mondo, ci è entrato, ci si è avventurato, ha assunto “lealmente e senza inganni” tutti i predicati, tutte le limitazioni della condizione umana. “Gesù stesso è stato carnale, Gesù è stato un martire, un giusto e un santo, non un angelo”. Giocando la regola contro il secolo, destituendo il quaggiù, perpetuando il dualismo metafisico tra la carne e lo spirito, i chierici moderni negano, anzichè meditare, il mistero dell’Incarnazione, vale a dire dell’iscrizione dello spirituale nel carnale. Confondono, tale è il loro controsenso e tale è la loro empietà, il più grande dei santi per il primo degli angeli. C’è chi conduce questi devoti a separare la devozione dall’impegno e a erigere a modello la disincarnazione piuttosto che il disinteresse e il distacco dal mondo per amore di Dio, piuttosto che il distacco da sé per amore del mondo.
Evasione dalla realtà, disastrosa acosmia alla quale Peguy oppone inopinatamente la figura del padre di famiglia: “Non c’è che un avventuriero al mondo, e particolarmente nel mondo moderno: è il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventurieri non sono niente, non sono nulla in confronto a lui”. Questa affermazione è deliberatamente e indubbiamente provocatoria, dato che al posto della santità fa l’elogio dell’avventura e come avventuriero sembra scegliere M. Prudhomme. Peguy lo sa: niente è, in apparenza, più pantofolaio, più (piccolo-) borghese del padre di famiglia. Egli sa anche che i libertini, i festaioli, gli esploratori, quelli che bruciano le candele da entrambe le parti, tutti quelli che rivendicano per sé l’aura dell’avventura, scherniranno all’infinito questo zoticone goffo e pusillanime. Ma lui conosce ugualmente, per averne fatto lui stesso esperienza, la strana particolarità, la espropriante proprietà di cui è provvisto il padre di famiglia: “Gli altri non soffrono che per se stessi. Ipsi. Al primo grado. Lui solo soffre per gli altri. Alii patitur”. Lui solo, detto diversamente, supera i limiti della finitezza: il suo essere supera il suo io. E ciò che gli procura questa prodezza ontologica, non è un potere maggiore, è una vulnerabilità più grande. Egli soffre per gli altri, che chiamiamo a torto i suoi, perché non sono loro per lui, ma lui per loro: lui non è il loro possessore, è lui il loro possesso, egli appartiene a loro, egli è consegnato a loro, egli è, arrischia lo stesso Peguy, il loro ‘ostaggio’. Per dirla con un’altra metafora, questo capofamiglia non è un pater familias, ma un re decaduto che ha fatto, nel fondare un focolare, il sacrificio della sua libertà sovrana. Prima di avere un carico di anime e di corpi, è stato il solo padrone della sua vita; ed eccolo ormai assoggettato, dipendente, privato della possibilità di trovare rifugio in se stesso: il conforto per quanto lo riguarda gli è definitivamente interdetto.
Pertanto il borghese non è colui che pensiamo: letteralmente e costantemente fuori di sé, il padre di famiglia conduce un’esistenza nello stesso tempo la più avventurosa e la più responsabile che si possa concepire. Da una parte, egli è esposto a tutto e il destino, per raggiungerlo, non ha bisogno di cecchini d’elite, gli è sufficiente colpire a caso uno qualunque dei suoi membri: “E’ lui, amico mio, che li ha, e lui solo, i legami pericolosi”. D’altra parte, egli è responsabile di tutto, del medesimo avvenire, del medesimo mondo in cui lui non entrerà: “Egli è assalito dagli scrupoli, straziato dai rimorsi, a priori (di sapere) in quale città del domani, in quale società ulteriore, in quale dissoluzione di tutta una società, in quale miserabile città, in quale decadenza, in quale degrado di tutto un popolo lasceranno, consegneranno, domani, stanno per lasciare, tra qualche anno, il giorno della morte, questi figli di cui essi si sentono così pienamente, così assolutamente responsabili, di cui sono temporalmente i pieni autori. Anzi, niente di loro li è indifferente. Niente di ciò che passa, niente di storico è per loro indifferente”. Consumato dai rimorsi, dice Peguy, e ci dà a intendere con questo partecipe allo stesso tempo del tormento e della goffaggine. Infatti gli schernitori hanno ragione: il padre di famiglia è grossolano. È due volte troppo grossolano. Troppo maldestro per decollare dal mondo e troppo grossolano per evolversi con qualche chance di successo. Troppo grossolano per salire al cielo e troppo grossolano per la corsa, la competizione e la concorrenza, vale a dire per la legge politica del temporale. Troppo grossolano per fuggire, troppo grossolano per vincere. In breve, è handicappato. Ma, aggiunge subito Peguy in risposta al sarcasmo dei sottili, è precisamente questo doppio impaccio, questa goffaggine e questa aderenza ontologica che condannano il padre di famiglia all’avventura e che costituiscono il valore mistico della sua vita.
Vediamo: quando Peguy parla di mistica, egli non si mette dalla parte della fede contro le opere, né della morale convenzionale e della sua purezza di cuore contro il problema d’efficienza inerente la morale della responsabilità. Egli difende la responsabilità per il mondo davanti alla doppia tentazione del carrierismo e dell’angelismo, del puro interesse e della pura spiritualità.
Sicuramente noi non possiamo idealizzare di più il padre di famiglia con la stessa evidenza e la stessa aplomb di Peguy, perché tra lui e noi c’è stato Himmler che non è stato né un bohemien come fu Gobbels, né un criminale sessuale come Streicher, né un fanatico pervertito come Hitler, né ancora un fanatico pervertito come Goering, ma precisamente “un buon padre di famiglia fedele alla sua donna e preoccupato di garantire un avvenire dignitoso ai suoi figli”. Più generalmente, noi oggi sappiamo che le macchine totalitarie hanno trovato i loro esecutori più docili in questi borghesi rispettabili e sistemi che assopiscono sulle famiglie il loro amore del prossimo e che non provano per molto tempo scrupoli o responsabilità che dentro la cerchia familiare. Con tutta la bellezza del suo paradosso e le difficoltà della sua situazione personale, Peguy ha celebrato l’uscita, per quanto riguarda lui, del padre di famiglia senza interrogarsi sulle temibili potenzialità, per quanto riguarda noi, domestiche. Egli non ha pensata alla contraddizione tra la preoccupazione borghese dei suoi e la preoccupazione civica del mondo. Egli non ha visto, come dice Hannah Arendt, “il grande criminale” che dorme nel grande avventuriero del mondo moderno. Egli non ha visto, nello stesso tempo, con il concetto di ostaggio, che lui stesso ha dato la chiave di tale fenomeno. È precisamente per il fatto che “soffre per altri” che il padre di famiglia è più facile da tenere e da controllare di colui che non impegna che se stesso allorquando si impegna nel mondo. Quand’anche non andasse così lontano nell’obbedienza e nello zelo burocratico dei casi estremi o estremamente ordinari meditati da Hannah Arendt, la sua famiglia è il suo punto debole, la sua famiglia è la sua prigione. Lei lo blocca, lei lo inibisce, lei lo incatena, lei gli mette –è Peguy che parla- “le manette alle mani, le ganasce ai piedi”, lei lo trattiene, nel nome di ciò che deve ai suoi, dal rispondere alle sollecitazioni esterne e dall’occuparsi dell’ingiustizia della città. È la piccola ragione dello Stato interiore, l’immorale Super-io che combatte le sue buone mosse e che lo richiama all’ordine quando è tentato dalla rivolta oppure semplicemente dalla generosità. lo rimuove, è vero, dalla sua sovranità, ma per farlo marciare dritto, non all’avventura, e se egli si espone non è solamente ai rigori della sorte, è anche e soprattutto al ricatto dei potenti. Se la vostra vita non vi appartiene –definizione peguyniana del padre di famiglia-, come metterla in gioco quando le circostanze, quando i tempi bui lo esigono? Come essere padre di famiglia e resistente? Ce ne sono stati di certo, ma fu in disprezzo e non in virtù della loro condizione.
La descrizione stessa del padre di famiglia di Peguy ci impedisce di sottoscrivere le sue stesse conclusioni, per quanto profonde e seducenti esse siano. Resta l’essenziale, sapere che il disastro, per lui come del resto per Hannah Arendt, si definisce come scomparsa del pro mundo nel pro domo, dell’amore del mondo nell’interesse di sé, della virtù pubblica, vale a dire della politica, nel senso che la Arendt ha contribuito a rendere a questo termine, nel calcolo interessato e nel movimento egoista della vita, vale a dire la politica nel senso di Peguy.


mercoledì 4 settembre 2019

LA SCUOLA OGGI (da La nostra giovinezza, di Charles Peguy)


LA SCUOLA OGGI
(da La nostra giovinezza, di Charles Peguy)
di Bruno Trevellin

Le considerazioni sulla scuola francese scritte da Peguy più di un secolo fa, ne La nostra giovinezza (1910), sono ancora di straordinaria attualità , anche per il nostro paese e per il nostro sistema scolastico. Contro i vari poteri, contro le Sorbone di ogni tempo, Peguy alza la sua voce a difesa di un mestiere ‘salvifico’, come quello di insegnante, che ha ancora a cuore i ragazzi e la cultura per una propria caratteristica e indiscutibile devozione che pochi sanno cogliere.

“Quanto a me sono persuaso che si conservi molta più autentica cultura ancor oggi nella maggior parte delle scuole elementari, nella maggior parte dei paesi di Francia, tra i filari di vite, all’ombra dei platani e dei castagni che non tra le quattro mura della Sorbona. Un gran numero di maestri continua a esercitare nelle scuole di provincia e anche di città un certo ministero di cultura. Sono ancora, spesso loro malgrado, ministri, maestri nella distribuzione della cultura. Esercitano questo ufficio.
La scuola secondaria dà un ammirevole esempio, fa un ammirevole sforzo per mantenere, per conservare, per difendere contro l’invasione della barbarie la cultura antica, quella cultura classica che essa aveva in custodia e di cui conserva, malgrado tutto e contro tutti, la tradizione.
È meraviglioso lo spettacolo offerto da tanti professori medi che, poveri, modesti, miseri impiegati esposti a tutto, sacrificano tutto, lottano contro tutto, resistono a tutto per difendere la loro scuola. Lottano contro i pubblici poteri e le autorità costituite. Contro le famiglie, gli elettori, l’opinione pubblica; contro i genitori degli alunni; contro il provveditore, il sindaco, l’ispettore accademico, il direttore generale delle scuole medie, il ministro, contro il proprio avvenire, la propria carriera, il proprio avanzamento, letteralmente contro il proprio pane. Contro tutti i loro interessi. Contro tutti i poteri e contro il potere più temibile, quello dell’opinione. Che dappertutto è del tutto moderna. E perché. Per una indiscutibile devozione. Per un invincibile, insormontabile attaccamento di razza e di libertà al proprio mestiere, al proprio ufficio, alla propria antica virtù, alla propria funzione sociale, a un vecchio civismo classico. Per un incrollabile attaccamento all’antica cultura che era tutt’uno con l’antica virtù, per fedeltà, per una specie di eroico attaccamento al vecchio mestiere, al vecchio paese, al vecchio liceo. E perché. Per cercare di salvarne un po’. Per opera loro, per opera di un certo numero di insegnanti di scuola media, fortunatamente ancora abbastanza grande, la cultura non è ancora interamente scomparsa in questo paese. Io conosco e potrei citare almeno centocinquanta insegnanti di scuola media che fanno tutto, rischiano, sfidano tutto, anche la noia, il più grande rischio, anche una miserabile fine di carriera per mantenere e salvare quel che ancora può essere salvato. Non sarebbe facile trovare cinquanta insegnati di scuola superiore, e neppure trenta, e neppure quindici, che si propongano qualcosa di diverso dall’ossificare e mummificare la realtà e seppellire la materia del loro insegnamento sotto montagne di schede” (da C. Peguy, La nostra giovinezza, Editrice Studium, Roma, p. 27-29).