martedì 30 maggio 2017

Genetica. La razza è un mito, ma la realtà è meticcia

Genetica. La razza è un mito, ma la realtà è meticcia


Luigi Bignami martedì 30 maggio 2017
Gli abitanti del Vecchio Continente discendono da tre grandi migrazioni da Oriente, avvenute fra 19mila e 5mila anni fa. Lo studio dell'Università di Uppsala
Ricostruzione di un villaggio preistorico al Museo delle Gole del Verdon
Ricostruzione di un villaggio preistorico al Museo delle Gole del Verdon
Circa 2 anni fa quando autobus carichi di migranti provenienti dalla Siria e dall’Iraq si fermarono in Germania, alcune piccole località si trovarono sovraffollate. Il villaggio di Sumte, ad esempio, che aveva una popolazione di 102 abitanti si ritrovò con 750 richiedenti asilo. Un gruppo neonazista del distretto si rivolse al 'New York Times' affinché il mondo sapesse che un flusso così ingente di persone avrebbe portato «alla distruzione del loro patrimonio genetico». Ma quanto sosteneva quel gruppo era profondamente errato, in quanto il popolo tedesco non ha alcuna eredità genetica da proteggere. Sia loro, che tutti gli europei, sono già il risultato di una profonda mescolanza, in quanto figli di ripetute migrazioni antiche delle quali oggi si hanno prove scientifiche indiscutibili. Dimostrano che tutti gli europei che si ritengono 'indigeni' in realtà discendono da un mescolamento di popolazioni di tre grandi migrazioni avvenute negli ultimi 15.000 anni, tra cui due proprio dal Medio Oriente. Quei migranti attraversarono l’intera Europa, si fusero con i precedenti immigrati e ancora si rimescolarono tra loro a creare i popoli di oggi.
Utilizzando nuovi e sofisticati metodi per analizzare e studiare il Dna e particolari atomi presenti nelle ossa e nei denti di numerosi scheletri (che indicano la provenienza dei cibi e dell’acqua bevuta) vari ricercatori stanno districando le aggrovigliate radici dei popoli di tutto il mondo, come quelle estremamente variegate dei tedeschi o degli antichi filistei o degli abitanti del Kashmir. Risulta che pochissime popolazioni al mondo hanno una reale diretta discendenza da antichi gruppi rimasti 'incontaminati' nel tempo: un esempio quasi unico sono gli aborigeni australiani.
«Questi risultati si possono falsificare se si vuole sostenere che esistono delle popolazioni 'incontaminate', ma quasi tutti gli uomini di oggi hanno alle loro spalle una storia incredibilmente complessa di mescolamento legata a importanti e ripetute migrazioni», spiega Lynn Jorde dell’Università dell’Utah a Salt Lake City. Tacito, lo storico romano, riferisce che nel 9 dopo Cristo un membro della tribù germana Cherusci chiamato Arminio, guidò una ribellione contro i Romani in prossimità del villaggio di Kalkriese nel nord della Germania e la vinse. Quindi nel XV secolo i nazionalisti tedeschi e ancor dopo nel XX secolo i nazisti fecero diventare Arminio il padre di un antico popolo con un pedigree di una 'razza pura' proveniente dalla Germania e dal Nord Europa.
Oggi tutti gli storici sono d’accordo che quanto si è raccontato di Arminio è mito e nulla più: i Romani erano presenti in Germania fin dal III secolo a.C., come dimostra anche la recente scoperta di un campo di battaglia romano ad Harzhorn risalente proprio al III secolo a.C.. Tra l’altro lo stesso Arminio non era un puro 'ariano', se a quel termine si dà il significato di una persona i cui antenati vissero esclusivamente in quella che oggi è la Germania o la Scandinavia. La tribù Cherusci, come tutti gli Europei del loro tempo e anche più tardi, era composita.
Fino a pochi anni or sono era difficile dimostrare ciò. Spiega Doug Price dell’Università del Wisconsin a Madison, esperto di grandi migrazioni: «La maggior parte delle prove archeologiche sulle migrazioni era basata sui manufatti, ma questi potevano essere rubati o copiati, quindi non sono una reale prova dei movimenti umani». Da una ventina di anni a questa parte i metodi di studio delle migrazioni hanno rivoluzionato numerosi concetti. Dopo che il primo Homo sapiens uscì dall’Africa, circa 150.000 anni fa, numerosi gruppi lo hanno seguito a partire da 60.000 an- ni or sono e uno dopo l’altro si gettarono nelle braccia dei precedenti gruppi, e anche in quelle dei neandertaliani.
Oggi quasi tutti gli uomini che si trovano al di fuori dell’Africa portano tracce di Dna dell’incrocio avvenuto a quel tempo. Lo studio del Dna poi, di 51 europei ed asiatici vissuti tra 45.000 e 7.000 anni fa ha permesso di ricostruire con precisione la storia delle ultime tre migrazioni. La prima avvenne tra 19.000 e 14.000 anni fa. Fu di cacciatori-raccoglitori, provenienti dal Medio Oriente. La seconda fu di agricoltori dell’Anatolia nord-occidentale che migrarono circa 9.000 anni or sono in Grecia e in Turchia. Quest’ultima ha attraversato l’intero continente. Il Dna registra che arrivarono in Germania, dove si unirono alla cultura definita della 'ceramica lineare', che si sviluppò tra 6.900 e 7.500 anni fa. Ai nostri giorni i sardi conservano la maggiore impronta di Dna di quei primi agricoltori, i cui genitori avevano occhi marroni e capelli scuri. Circa 5.000 anni fa poi, pastori yamnaya arrivarono dalle steppe pontiche (regione a nord del Mar Nero) in Europa e in Asia. Essi hanno portato la capacità di digerire il lattosio, una caratteristica rimasta impressa nel Dna. Si capisce dunque, come gli antichi germani fossero il risultato della fusione di cacciatori-raccoglitori dell’età post ultima-glaciazione, con contadini anatolici e pastori Yamnaya.
E questo vale anche per la maggior parte degli altri europei: i baschi, che si considerano un popolo a parte, possiedono un Dna simile a quello degli antichi agricoltori che hanno popolato la Spagna settentrionale prima della migrazione yamnaya. Lo ha scoperto lo scorso anno Matthias Jacobsson, esperto di genetica della popolazione dell’Università di Uppsala. E studio dopo studio sono crollati i miti degli irlandesi, dei celti e ora anche di popolazioni al di fuori dell’Europa, come i Filistei, un popolo biblico considerato unico e apparentemente volatilizzato con l’Antico testamento. Spiega Aren Maeir della Bar-Ilan University di Ramat Gan, Israele, che ha diretto gli scavi presso la città filistea di Gath per due decenni: «I filistei possedevano una cultura intrisa di elementi provenienti dall’Anatolia occidentale, Cipro, Grecia e Balcani. Si fusero con le persone che vivevano in Canaan e non si dissolsero nel nulla». Se così è significa che i filistei sono parte ancestrale sia dei palestinesi musulmani che degli israeliani ebrei. Tornando a Sumte, dall’autunno delle 2015 i rifugiati provenienti dalla Siria hanno iniziato a imparare il tedesco. I loro figli a Natale hanno cantato "O Tannenbaum" in una chiesa della cittadina, mentre nei mesi successivi quasi tutti i rifugiati si sono dispersi in città più grandi di tutta la Germania. Col tempo alcuni giovani immigrati contribuiranno con il loro Dna alla prossima generazione di tedeschi.

sabato 27 maggio 2017

Esodo. Testimonianza. Lorenzin, orgoglio di istriana

Testimonianza. Lorenzin, orgoglio di istriana


Lucia Bellaspiga sabato 27 maggio 2017
Il ministro della Salute discende da esuli polesani: «È tempo di dialogo, di verità e di giustizia»
Lorenzin, orgoglio di istriana
«La Jugoslavia non esiste più, oggi esistono Slovenia e Croazia, due Paesi che fanno parte dell'Europa: è ora che si aprano gli archivi e si sappia dove giacciono i nostri cari, morti nelle Foibe e negli eccidi di Tito. È ora di poter dare loro una degna sepoltura, le regole del vivere civile oggi lo consentono». Per la prima volta il ministro Beatrice Lorenzin ha parlato ufficialmente nel suo ruolo più intimo di «istriana di seconda generazione», figlia di un padre esule da Pola, partito come altri 300 mila giuliano dalmati per sfuggire alla crudezza della dittatura comunista di Tito. Lo ha fatto a "èStoria", il Festival internazionale che da 13 edizioni si tiene a Gorizia, in un incontro intitolato "Noi, italiani due volte": la prima per nascita, la seconda per scelta, «perché i nostri genitori e nonni hanno perso tutto, la casa, i terreni, il tessuto sociale, pur di restare italiani».

Qual è il suo legame con Pola? Quali ricordi le ha trasmesso suo padre?
«Esistono tre Pola in me: quella di mia nonna, di mio padre e la mia. Il racconto di mio padre è sempre stato scarno, un po' per un pudore tipico di molti istriani, e un po' per non far pesare su noi figli il suo senso di privazione, che si è portato dentro tutta la vita. Mia nonna invece trasmetteva il dolore di chi non si è mai fatto una ragione: la famiglia era stata sradicata per sempre e sparsa fino negli Stati Uniti e in Australia. E c'è la Pola che ha inciso molto su di me per tanti aspetti. Papà partì con sua mamma vedova nel 1950, tre anni dopo gli altri polesani, perché nonna non riusciva a staccarsi dalla sua terra. Ma dopo i primi sei mesi era già chiaro che tirava una brutta aria per gli italiani: il nome di mia nonna era finito in una lista di proscrizione. Un parente riuscì a salvarli, ma bisognava fuggire. Lo fecero in treno, poi in Italia provarono il campo profughi. E qui comincia il silenzio di mio padre, che si interrompe solo con la storia dell'arrivo a Firenze: lì mia nonna, che a Pola aveva condotto una vita agiata, con umiltà andò a servizio come domestica per dare a mio padre la dignità degli studi. Il mio essere ministro è il risultato del coraggio di mia nonna, che mi ha donato un futuro e un forte senso dello Stato. Oltre al significato di libertà e verità, due valori che apprezzi solo se hai rischiato di perderli».

Quando ha percepito consapevolmente la sua istrianità?
«Le radici crescono sottopelle senza che ce ne accorgiamo, ma poi arriva il momento in cui ci urlano dentro e noi diventiamo fieri della nostra identità. Ammetto che da piccola, quando mi chiedevano del mio strano cognome, prima cercavo di spiegare dove fosse l'Istria e che storia avessi alle spalle... Poi, stanca di dovermi difendere - erano anni in cui gli insegnanti non sapevano nulla di Foibe ed esodo -, iniziai a nascondermi dietro una bugia, dicendomi veneta. È una cosa che accomuna molti di noi. Da grande mi sono sentita in colpa di aver rinnegato ciò che ero e i miei viaggi in Istria sono diventati una ricerca della Memoria. Ho visitato con mio padre la nostra casa a Medolino, le tombe dei nostri cari: se non sai chi sei, non sai dove vai».

Quali le emozioni in quella casa perduta?
«Ho colto tutta la sofferenza dell'esilio, cosa significhi un giorno uscire e sapere che è per sempre, che domani nelle tue stanze, tra le tue cose più care entreranno persone sconosciute e ne prenderanno possesso. Mia nonna chiuse quella porta e le chiavi le consegnò ad altri italiani "rimasti". Era una donna che parlava cinque lingue e mai il dialetto... ebbene, negli ultimi anni della sua vita per nostalgia parlò esclusivamente in dialetto».

I giuliano dalmati sono stati colpiti due volte: fuggiti nelle altre regioni d'Italia per salvarsi da quella che Napolitano nel 2007 chiamò "pulizia etnica", qui non furono creduti e furono "dimenticati".
«E ingiustamente tacciati di fascismo. Eppure con i loro beni pagarono il debito di guerra dell'intera Italia sconfitta, senza ricevere un gesto di gratitudine. Fortunatamente in questi anni stiamo assistendo a un'opera di verità: la storia non ti dà ragione nel breve termine, ma nel medio-lungo termine arriva sempre. Oggi la riconciliazione tra esuli e rimasti è una realtà, e in Istria e Dalmazia possiamo andare "a casa" senza le paure di quegli anni, ricostruire lì le nostre comunità. L'Italia in passato è stata cieca, ma oggi dipende anche da me far sì che i miei bambini conoscano a loro volta la storia di famiglia. A Rovigno ho incontrato un mio cugino Lorencin, anche lui ministro croato del Turismo, anche lui di Medolino, della mia stessa età: insieme eravamo la testimonianza incredibile di un'Europa che ha abbattuto odi e ha costruito altro. Dopo due guerre spaventose, che hanno fatto milioni di morti e hanno dato libero sfogo all'orrore, l'Europa è stata la risposta: non è nata per il grano o il carbone, ma perché eravamo tutti rinsaviti e dicevamo basta! Mia nonna negli anni '70 partiva da Firenze e portava a Pola cibo e medicine per i nostri parenti rimasti nella povertà¿ Ma un popolo dilaniato si può ricostruire e il coraggio degli istriani è tuttora un esempio grandissimo. Ricordare non vuol dire piangerci addosso, ma riprenderci la nostra identità. Un incontro come questo di oggi solo 20 anni fa sarebbe stato impensabile e censurato».

Lei un mese fa è andata sul cippo di Vergarolla, a Pola, dove in tempo di pace nel 1946 furono uccisi oltre 100 italiani nel primo attentato terroristico dell'Italia repubblicana. Lei è il primo ministro italiano in 70 anni...
«Mio padre non è riuscito a venire con me, il ricordo era troppo forte. Nessuno in Italia conosce questa strage e i libri di testo ancora non ne parlano. Al dottor Micheletti, che perse i suoi due bambini, ma operò tutta la notte i feriti, conferirò la medaglia d'oro alla Sanità. Importante è che con me c'era il mio omologo ministro croato. Nella stessa occasione ho visitato i ragazzi delle scuole italiane in Croazia: sono molto consapevoli della loro italianità, ma si sentono anche cittadini d'Europa. Questo va coltivato anche qua in Italia, incentivando film, libri, tutto ciò che possa far conoscere la verità sull'esodo, ma anche preservando oltre confine la nostra lingua e cultura».

A quando la verità sulle migliaia di salme ancora cercate dai loro figli? E sui beni espropriati a istriani, fiumani e dalmati?
«È tempo che si aprano gli archivi e si faccia giustizia, almeno per chi resta... Molto tempo è passato, sono temi difficili, ma ormai siamo consapevoli che c'è un diritto negato e le nuove norme dell'Europa costringono a nuove risoluzioni».

sabato 13 maggio 2017

Storie di cuoio. Strel'cov, il Pelè bianco. Il pallone al tempo del gulag

Storie di cuoio. Strel'cov, il Pelè bianco. Il pallone al tempo del gulag


Antonio Giuliano (Avvenire, venerdì 12 maggio 2017)
Dallo Spartak Mosca al “Pelè bianco” Strel’cov: così l’Urss usava il calcio per dominare il mondo
Il murales dedicato a Eduard Strel’cov davanti allo stadio di Mosca
Il murales dedicato a Eduard Strel’cov davanti allo stadio di Mosca
Pedine di un "gioco" più grande. Soldatini in maglietta e pantaloncini di una partita che non finiva su un campo da calcio, ma continuava sullo scacchiere di un mondo diviso in due dalla Guerra Fredda. Sono i campioni del calcio sovietico, giocatori con una divisa pesante, quella dei "compagni del pallone" dell'Urss e dei suoi fratelli, gli Stati satelliti dell'Europa orientale. Figurine sbiadite dal tempo che riaffiorano ora in un libretto dal titolo intrigante Calcio e martello. Storie e uomini del calcio socialista (Rogas. Pagine 108. Euro 10,90).
Si può infatti scorgere un Manifesto del calcio rosso che parte da Karl Marx e arriva al colonnello Lobanovs'kyj, non a caso figura ibrida, ufficiale dell'esercito russo e stratega della panchina. Lo sport doveva infatti esaltare la rivoluzione anticapitalistica dell'Urss (in cirillico Cccp). Le società sportive private non erano ammesse: tutte dovevano essere espressione di ministeri o organi statali, come il Cska (dell'Armata Rossa) o la Dinamo (del commissariato degli Interni/Kgb). Non poteva quindi passare inosservata la nascita nel 1935 dello Spartak Mosca, (dall'epico Spartaco che guidò gli schiavi contro Roma) l'unica squadra sovietica fondata da un gruppo di amici e non da una polisportiva del governo. Il club lanciato dai quattro fratelli Starostin si guadagnò a tal punto il favore popolare da ottenere nel 1936 addirittura la Piazza Rossa per una partita dimostrativa tra la prima e la seconda squadra sotto gli occhi di Stalin in persona. Ma, spiega il libro, «Lavrentij Berija, capo dei servizi di sicurezza dal 1938, responsabile delle repressioni staliniane, appassionato di calcio e presidente della Dinamo, fece arrestare e condannare a dieci anni di lavori forzati i fratelli Starostin, colpevoli del proprio successo e rei di aver sconfitto già troppe volte la sua squadra».

Non andò meglio a uno dei più grandi talenti del calcio mondiale, il Pelè bianco, Eduard Strel'cov (1937-1990). Il cannoniere della Torpedo Mosca aveva suscitato le mire del Cremlino che lo vedeva come arma migliore per conquistare il Mondiale del 1958. Ma il bomber moscovita commise due errori imperdonabili. Rifiutò il trasferimento alla squadra dell'esercito, il Cska, e si oppose a una relazione sentimentale con la figlia di Ekaterina Furceva, unica dirigente di sesso femminile del Partito comunista dell'epoca. Mentre Pelè incantava ai Mondiali svedesi, Strel'cov, genio e sregolatezza, unita alla passione per l'alcol, si ritrovò nella sinistra prigione di Butirka. Denunciato da Furceva per una non accertata violenza carnale, si lasciò estorcere ingenuamente a una confessione con la falsa promessa di raggiungere la squadra in Svezia e l'archiviazione del caso. Raggirato senza scampo, fu spedito in Siberia. Sette anni di lavori forzati nel gulag lo provarono duramente. E anche se, una volta uscito, riuscì comunque a portare la sua Torpedo al titolo, l'internamento siberiano lo aveva ormai minato nel fisico: morì per un tumore a soli 53 anni.

L'ossessione per l'"uomo nuovo", comune a tutti i totalitarismi del Novecento, doveva fare dell'atleta una macchina perfetta e invincibile, il migliore spot per reclamizzare la superiorità della società socialista nel mondo, il paradiso in Terra. Una religione atea che finì invece per costruire un inferno in cui chi non si allineava veniva eliminato. Vincere a ogni costo e con qualunque mezzo, era vangelo di Stato in tutti i Paesi del blocco orientale, come nella Germania dell'Est. Non riusciremmo altrimenti a comprendere il peso politico del gol vittoria di Sparwasser con la maglia della Ddr contro i "cugini capitalisti" della Germania ovest nel Mondiale del 1974.

In campo bisognava dare l'anima. E lo sport consentiva almeno di sfogare libertà, fantasia e imprevedibilità negate nella vita di tutti i giorni. Nazionali d'oro come l'Ungheria del colonnello Ferenc Puskás e stelle di leggendaria grandezza hanno brillato nella storia del pallone sovietico. A cominciare dal "Ragno Nero", Lev Jascin, le cui prime incerte apparizioni lo stavano convincendo di avere un futuro nell'hockey su ghiaccio. Prima di diventare un'icona tra i pali del calcio negli anni Cinquanta e Sessanta. Ma in anni più recenti, non sono stati pochi i campioni forgiati da Valerij Lobanovs'kyj. Monumento dell'Urss in panchina e timoniere di ferro (pare che in Nazionale convocasse solo i giocatori che al culmine dello sforzo erano gli ultimi a vomitare), ai suoi ordini vennero fuori tanti fuoriclasse: da Oleh Blochin (Pallone d'oro 1975) a Oleh Protasov, da Hennadij Lytovcenko e Oleksandr Zavarov all'ultimo fenomeno all'inizio degli anni Novanta l'ucraino Andrij Shevchenko. Ma questa è tutta un'altra storia.

C'era già stata la perestrojka con cui Gorbacëv aprì le porte all'Occidente e la caduta del Muro di Berlino aveva scoperchiato non solo il doping di Stato (soprattutto nella Ddr). Ma anche il gigantesco condizionamento del potere sullo sport, con dirigenti usati come spie e laboratori segreti. Sul campo rimasero migliaia di atleti distrutti nel corpo, ma anche nell'anima. Il comunismo aveva tentato di strappare il cuore dal petto dell'uomo, con il suo bisogno di libertà e di infinito. Ma si rivelò un tragico autogol.

Etiopia. Debre Libanos, gli 80 anni di un eccidio senza scuse. Le stragi dell'Italia coloniale

Etiopia 1937. Debre Libanos, gli 80 anni di un eccidio senza scuse


Alessandro Beltrami (Avvenire, venerdì 12 maggio 2017)
Nel maggio 1937 la strage di monaci e pellegrini copti perpetrata dal generale Maletti su ordine di Graziani. Ora è tempo di fare ammenda. Parlano Andrea Riccardi e Antonello Carvigiani
Una rarissima immagine che documenta l'eccidio di Debre Libanos (Tv2000)
Una rarissima immagine che documenta l'eccidio di Debre Libanos (Tv2000)
«Liquidazione completa». Così il generale Pietro Maletti comunicò via telegramma al viceré Rodolfo Graziani la conclusione di una delle pagine più buie della storia italiana, il massacro di un numero enorme - le stime oscillano tra 1.400 e 3.000 vittime - di monaci e pellegrini etiopi a Debre Libanos. Esattamente 80 anni fa, nei giorni tra il 19 e il 24 maggio 1937. Una pagina rimossa, di cui c’era traccia quasi esclusivamente in libri specialistici, riportata alla coscienza l’anno scorso da Tv2000 in un documentario di Antonello Carvigiani, che aveva anche firmato una pagina su "Avvenire".
«Serve ricordare il massacro dei monaci etiopi con gesti concreti», è stato l’appello lanciato da Andrea Riccardi il 7 marzo scorso dalle colonne del "Corriere della Sera". Un appello che lo storico e fondatore di Sant’Egidio rilancia ora a ridosso dell’anniversario: «Debre Libanos rappresenta una realtà dolorosissima, ma anche il simbolo di una violenza inaudita da parte dell’Italia fascista, di fronte a una Chiesa cattolica silenziosa nei confronti del messaggio di disprezzo che veniva lanciato verso il cristianesimo etiope. Naturalmente le responsabilità sono molto diverse. Io credo che ci sia una responsabilità delle forze armate italiane: l’ordine del viceré Graziani e l’esecuzione del generale Maletti e dei suoi sottoposti. Ho parlato di questo col ministro Pinotti, che è interessata ad approfondire il discorso e a non lasciar cadere la responsabilità italiana in proposito. Ma è significativo che nessuna personalità italiana abbia sentito la necessità di portare nemmeno una corona di fiori a Debre Libanos in tanti e tanti viaggi effettuati in Etiopia nella storia repubblicana. Questo è il momento in cui fare riemergere la memoria di questo fatto terribile».
Ma Riccardi amplia l’appello. Perché se il fatto si inserisce nel contesto delle rappresaglie seguite all’attentato a Graziani del febbraio 1937 (come quella gigantesca messa in atto ad Addis Abeba, per la quale le stime più basse parlano di 3.000 morti), il massacro di Debre Libanos per lo storico si differenzia dalle altre stragi nella storia dell’Italia coloniale: «Io credo che gli storici abbiano mostrato il grado di collaborazione nella mobilitazione della Chiesa cattolica con l’"impresa" di Etiopia. La Chiesa ha vissuto durante la guerra il massimo d’identificazione col regime, benedicendo la sua azione bellica. Il cattolicesimo italiano non si limitò a tacere. Ci fu un disprezzo aggressivo nei confronti della Chiesa etiope. Fu l’atteggiamento della maggioranza dei vescovi, dei responsabili della Chiesa italiana. Ci sono molte manifestazioni, prime fra tutte le parole del cardinale Schuster sul fatto che i soldati portavano la croce in Africa. Sono stato criticato per averlo ricordato, ma le parole sono sue. Tutto questo, secondo me, tolse l’ultima remora ai soldati italiani che davvero in questo caso non si rivelarono "brava gente". Non fu questo, invece, l’atteggiamento di Pio XI, il quale non condivideva l’euforia italocattofascista di quell’"impresa". Ai cristiani etiopi non è stata riconosciuta la qualità di cristiani, e nemmeno forse quella di uomini, ma di sottouomini».
«Ho pensato queste cose – prosegue Riccardi – anche sabato 22 aprile scorso, quando ho visto il papa raccolto in preghiera in San Bartolomeo, davanti all’icona dei nuovi martiri, in cui trovano posto anche i monaci di Debre Libanos. Penso che questo disprezzo per la Chiesa etiopica, considerata come un ammasso di superstizioni, questo silenzio nei confronti della violenza fascista e di Graziani contro figure religiose, siano molto significativi. Credo che da parte della Chiesa italiana ci debba essere la necessità di allontanare in modo chiaro quelle parole e quegli atteggiamenti. È importante dire oggi che viviamo un sentimento di amore e rispetto per il grande cristianesimo etiopico».
Debre Libanos, il documentario mandato in onda da Tv2000 il 21 maggio di un anno fa, aveva ricostruito integralmente la tragedia con testimonianze e documenti inediti. Oltre al merito di sollevare il dibattito a livello di opinione pubblica, ha ottenuto anche il risultato di convincere il comune di Castiglione delle Stiviere (Mantova) a cancellare l’intitolazione di una via al generale Maletti, che lì era nato. Ma ha anche riattivato processi di dialogo nella terra del massacro: «In Etiopia i fatti di Debre Libanos sono una ferita ancora aperta, non solo tra etiopi e italiani ma anche tra Chiese locali, quella ortodossa e quella cattolica», racconta Antonello Carvigiani. «Il docufilm ha riacceso e rilanciato il cammino ecumenico. Le riprese sono state organizzate grazie al cardinale di Addis Abeba Berhaneyesus Souraphiel. Il suo rappresentante padre Petros Berga, che è stato nostro supporto, ci ha messo in contatto con la Chiesa ortodossa etiope, riaprendo un canale di comunicazione tra le due Chiese. Un riavvicinamento sottolineato anche dagli ortodossi tramite la voce di padre Daniel Feleke, portavoce del Patriarca, in occasione di una proiezione del docufilm in Vaticano, il 2 dicembre scorso». Un fatto non scontato: «In entrambe le Chiese alcuni settori erano reticenti, altri ci spingevano ad andare avanti. Raccontare tocca equilibri molto delicati. In Etiopia si avverte sensibilmente la realtà che l’Italia non abbia mai chiesto scusa. Ma non c’è astio né risentimento, quanto piuttosto un dolore sopito. Alcuni sostengono la necessità di onorare i morti e allo stesso tempo di guardare avanti, anche nel silenzio, nella coscienza che oggi quello che conta è collaborare con gli italiani. Ma per altri, e il nostro lavoro sembra dare loro ragione, la pacificazione passa per il racconto e la memoria».