domenica 24 novembre 2019

TESTORI E LA LINGUA DEGLI ANGELI

TESTORI E LA LINGUA DEGLI ANGELI

Ai supremi momenti di conciliazione tra agape ed eros, che Giovanni Testori ha sempre sognato come il vertice stesso della poesia, la civiltà europea deve i suoi libri e le sue figure più intense

(M. Chagall, Abramo e i tre angeli)

Malgrado la sua inesausta passione letteraria, Giovanni Testori non ama i poeti, come Virgilio e Petrarca, che danno ai loro versi quella perfezione formale, quel palpito chiuso e levigato, quel tocco fuso e musicale, che anticipano per i nostri libri l' eternità della perfezione. La poesia che egli predilige è indifesa, lacerata, sconvolta da grandi squarci: si sacrifica, e con sé stessa sacrifica la letteratura, per lasciar irrompere da quegli squarci la voce dell' altro mondo. Pieno di reverenza e di timore, Testori ha atteso molto prima di confrontarsi con san Paolo, con la Prima lettera ai Corinzi (Longanesi, pagg. 128), che venera ancor più della Lettera ai Romani. In quel testo trova tutto ciò che chiede alle pagine di un libro: le verità della fede, colte nel momento incontaminato della loro scoperta; una grande cultura letteraria, come quella greca, che viene assalita da un' altra lingua e da un' altra religione, e ci appare ancora sconvolta, ma capace delle illuminazioni più dense e radiose.

Siccome è un poeta, Testori traduce la Lettera ai Corinzi in poesia, scoprendo il fuoco e il ritmo nascosti nelle righe prosastiche di san Paolo. Non ha simpatia per la tradizione della poesia italiana, da Petrarca a Montale. Così, in questi versi, ci accompagna tutto ciò che sta ai margini della tradizione letteraria italiana: il Dante più raziocinante: il balbettio mistico di Iacopone: le torsioni e gli inceppi michelangioleschi: il profumo dei grandi oratorii barocchi: qualche intonazione da canzonetta pastorale; e l' ultimo Leopardi. Mai come questa volta, sebbene in apparenza tenti una semplice traduzione, Testori ha scoperto la lingua nativa della propria poesia. Se le lingue degli uomini conosco e pur quelle degli angeli e non ho carità, cembalo sono che appena tinnisce, bronzo che suono non dà. Se profetare so, se i misteri tutti e intera la scienza a mio agio conosco, se così grande ho fede, da smuovere le montagne e non ho carità, sono nullità. Testori ha tradotto la Prima lettera ai Corinzi soprattutto perché conteneva il passo più famoso, e misterioso, di san Paolo: quello sull' amore (preferisco tradurre così agape, invece di carità), che comincia con questi suoni di bronzi e di cembali, forse troppo flebili forse troppo fragorosi.

Ma cos'è l'amore, per san Paolo? Come se volesse nasconderlo, o velarlo, o volesse giungere al suo obbiettivo partendo dal punto opposto, egli ricorre specialmente a definizioni negative. La prima non ci stupisce. L' amore è il contrario dell' "amore di sé", che La Rochefoucauld pose a fondamento del suo amaro ed elegante edificio; e dunque "non si infervora di passione, non si vanta con parole, non si gonfia di superbia, non cerca il proprio vantaggio, non si lascia eccitare dall' ira, non computa il male [ricevuto dagli altri]". Tutto è consueto, ci sembra: anche se doveva sembrare meno consueto ai cristiani provenienti dall' ebraismo, i quali sapevano come l' amore giudaico fosse geloso, appassionato, possessivo, esclusivo. "Forte come la morte è l' amore, / tenace come l' inferno il desiderio", aveva detto il Cantico dei Cantici. Ci stupisce molto di più la seconda definizione negativa. Con la sua rapidità violenta e paradossale, che distrugge con un gesto morali e tradizioni secolari, san Paolo ci ricorda che l' amore non è affatto quella carità attiva, che i comandamenti e i Vangeli raccomandano. Non è fare il bene a questo o quello: non è una virtù pratica e sociale, non è un' azione misurabile - e nemmeno compiere le opere più sublimi, come dare ai poveri tutto quello che possediamo o salire sul rogo in nome di Cristo. E, dunque, non è neanche, benché il suo nome sembri voler dire proprio questo, avere affetto, tenerezza, compassione per gli altri: non è "ama il tuo prossimo come te stesso". San Paolo non potrebbe essere più perentorio. Sebbene tanti lo abbiano confuso con un' etica, il cristianesimo (almeno quello della Lettera ai Corinzi) non è un' etica; e su di esso non è possibile costruire nessuna civiltà stabilita, nessuna società con doveri, obblighi, opere, ricompense. San Paolo continua il suo elogio, proclamando che l' amore è superiore a tutte le altre virtù umane, e ne costituisce il cuore e la musica segreta. Non c' è nulla sopra di esso: né la profezia della tradizione ebraica; né l' ineffabile lingua degli angeli, che i Corinzi credevano di intonare nell' estasi: né la speranza; né la conoscenza - che in questo mondo è così mediocre, perché conosciamo Dio e i misteri solo confusamente, come in uno specchio, "dentro enigmi".

L'amore è superiore persino alla fede. Nel Vangelo di Matteo, Cristo aveva detto: "Se avrete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: ' spostati da qui a lì' - ed esso si sposterà. Niente vi sarà impossibile"; e san Paolo - proprio lui che aveva costruito tutta la sua grandiosa teologia sulla fede e la nostra giustificazione per fede - con uno dei suoi meravigliosi capovolgimenti, risponde: "Se avessi tutta la fede, tanto da poter trasportare i monti, ma non avessi l' amore, non sarei nulla". Tutte queste virtù - la profezia, il dono delle lingue, la speranza, la conoscenza e la fede - avevano, secondo san Paolo, una deficienza comune. Erano virtù di questo mondo intermediario, nel quale viviamo "gemendo" e "aspettando ansiosamente la redenzione", senza vedere Dio fuori dallo specchio adombrato. Imperfetta è la nostra profezia: imperfetto il nostro dono delle lingue: imperfetta la nostra enigmatica e frammentaria conoscenza; imperfette la speranza e la fede, che non scorgono mai Dio, oggetto del loro desiderio. Alla fine dei tempi, quando con un tocco leggerissimo della mano Dio aprirà le porte del suo regno invisibile, tutti questi doni verranno meno, come neve sotto la luce del sole. Così, dopo un lungo circuito, grazie alla sua acutissima arte dialettica, san Paolo ci ha portato accanto all' essenza dell' amore. In questo mondo attuale e intermediario, dove tutte le virtù sono monche, l' amore è l' unica virtù perfetta, piena e assoluta, come sarà perfetta, alla fine dei tempi, la visione diretta (non "nello specchio", non "dentro enigmi"), che avremo della luce di Dio. Non dobbiamo attendere e rinviare indefinitamente l' attesa, come la speranza e la fede ci consigliano.

Nell' amore, tutto è già qui: Dio è già dentro di noi. Oggi non sappiamo altro di lui: non portiamo in noi una scintilla luminosa del suo essere, né lo conosciamo, né lo contempliamo nell' estasi, né lo realizziamo con le nostre azioni: lo incontriamo soltanto nell' amore, che ci colma in questo stesso momento, ed esce da noi come una sovrabbondante acqua soave. Ma se l' amore è il presente assoluto, è anche l' assoluto futuro. Alla fine dei tempi, quando si spalancheranno le porte del Regno, le profezie e la speranza e la fede si compiranno, e dunque verranno meno. Non ci sarà più nessuna virtù umana. Nel vuoto della fine, ci sarà soltanto l' amore, che in quel momento non sarà altro che la Visione piena, meticolosa e radiosa del volto di Dio. Appena giunge a questa rivelazione, san Paolo ci abbandona. Vorremmo sapere di più: vorremmo che egli ci descrivesse con minuziosa attenzione, come Platone e i greci avevano rappresentato Eros, la figura, la qualità e gli effetti di Amore. Ma san Paolo non può dirci altro: come potrebbe indicarci l' essenza nascosta di amore, se questa essenza è quella di Dio? Egli si limita a rivelarci qualche segno. Se vogliamo riconoscere l' apparizione di Amore nel mondo, e non disconoscerlo e confonderlo con altre figure, dobbiamo ricordarci che è "benigno" e pieno di "decoro". Quando egli passa, ogni fervore (ogni zelo) di passione si placa; e questa mitezza e quiete ci lasciano presentire che il ritmo armonioso, il quale conosce soltanto la giustezza del tono, è la chiave dell' universo. Un altro segno è che l' amore "tutto sopporta". Non accusa i mali compiuti dagli altri o da noi: "copre" o scusa o vela tutte le azioni e i pensieri malvagi che riempiono il mondo: li supera col pensiero; li annulla; e così riesce a sopportare il terribile peso della realtà, fino a quando, con un gesto lieve, essa si scioglierà in quella futura.

Nel Nuovo Testamento e nelle lettere di san Paolo, c'è un' immensa omissione: una omissione che testimonia un capovolgimento di civiltà, del quale san Paolo era certo consapevole. Tra i tre verbi greci che indicano l' amore - eran, filein, agapan - manca completamente il primo: eran e il sostantivo Eros. Ora, nella civiltà greca classica ed ellenistica, eran esprimeva il desiderio, la tenerezza, l' affetto: un desiderio oscuro, che ispirava tormentose passioni, tormentando instancabilmente le cose animate "con voluttà e dolorosa delizia": un desiderio inesorabile del corpo e del cuore; e finiva per trasformarsi nel delirio filosofico, col quale contempliamo le forme dell' Essere, nel delirio religioso che ci innalza verso la bellezza degli dei. Nel Nuovo Testamento, che adotta un verbo inizialmente scolorito come agapan, non c' è traccia di Eros. Dal nuovo mondo san Paolo estromette sia l'Eros terreno sia l'Eros celeste: soprattutto la loro fusione e contaminazione, nella cultura platonica, doveva offenderlo. Non c'era nessuna via per trasformare la nostra morbida tenerezza sensuale, i nostri affetti impuri e melodici, nella dedizione verso chi abita nell'alto dei cieli. Se volessimo, potremmo raccontare venti secoli di civiltà cristiana come la storia della lunga battaglia di Agàpe contro Eros ed Eros contro Agàpe: il puro ardore divino, che ignora le passioni umane e anticipa il futuro, e la tenerezza terrena, che si slancia verso gli dei e si identifica con loro nell' estasi. Forse questa battaglia non si estinguerà mai. Ma dovremmo raccontare anche i momenti di conciliazione e di fusione, tra i neoplatonici del Medioevo e nel Rinascimento italiano e spagnolo, quando Eros diventò Agàpe (o Agàpe diventò Eros). In apparenza era una fusione impossibile: eppure avvenne; e la musica dei versi di Giovanni della Croce sembra la celebrazione del loro incontro. A questi supremi momenti di conciliazione, che Giovanni Testori ha sempre sognato come il vertice stesso della poesia, la civiltà europea deve i suoi libri e le sue figure più intense.

(PIETRO CITATI, La Repubblica, 14 luglio 1991) 

sabato 23 novembre 2019

Così resiste l'istrioto, "favelà" di un popolo, lingua neolatina preveneta, autoctona dell’Istria con tremila parlanti


Reportage. Così resiste l'istrioto, "favelà" di un popolo


Lucia Bellaspiga, inviata a Sissano (Istria, Croazia) venerdì 22 novembre 2019
Un festival a Sissano prova a conservare la lingua romanza autoctona dell’Istria meridionale, inserita dall’Unesco nel libro rosso degli idiomi quasi scomparsi
Un laboratorio del Festival dell'Istrioto che si è svolto a Sissano, in Istria
 Come gli ultimi dei Mohicani. Seduti al banco con quaderni e dizionari come fossero scolari, anche se i capelli spesso sono bianchi. Si consultano, confrontano vocaboli e pronunce, recitano proverbi ereditati dai bisnonni, traducono poesie e canti. Sono gli ultimi a ricordare l’istrioto, una lingua autoctona dell’Istria meridionale considerata dall’Unesco in grave pericolo di estinzione e perciò inserita nel “Red Book of seriously endangered languages”, il libro rosso degli idiomi quasi scomparsi. Per questo sono stati convocati in Istria (attuale Croazia): per richiamare in vita un idioma, prima che si spenga per sempre. Oggi resiste solo in sei paesini – Rovigno, Valle, Dignano, Gallesano, Sissano e Fasana –, e sarebbe affidato alla memoria degli anziani del posto... Se non fosse che alla fine della seconda guerra mondiale l’esodo degli italiani in fuga dal nuovo regime jugoslavo svuotò l’Istria, e nella diaspora gli esuli portarono via con sé anche la parlata: da Torino ad Alghero, dalla Puglia alla Sicilia, da Milano a Roma, ma anche in Australia, in Sudafrica, in Canada. Si stima che oggi nel mondo siano in tremila a parlare istrioto, in gran parte sul territorio italiano. «Spesso sono loro ad aver mantenuto nei decenni l’istrioto originale, perché chi va lontano cristallizza la lingua senza più modificarla, un po’ come succede agli emigranti», spiega Paolo Demarin, presidente della Comunità degli Italiani di Sissano, nonché della Assemblea dell’Unione Italiana di Croazia e Slovenia, «per questo abbiamo deciso di mettere a confronto i nostri residenti e coloro che partirono per il mondo: tocca a noi giovani tenere in vita il patrimonio identitario dei nostri nonni».
Così il “Festival dell’istrioto” per la prima volta dai tempi della guerra mondiale ha riunito i “rimasti” e il popolo della diaspora, raccolto tappa dopo tappa da un pullman passato per Torino, Novara, Milano, Padova e approdato a Sissano con il suo carico di anziani, ma anche di figli e nipoti che in casa hanno imparato un istrioto rimasto inalterato dal 1945. «È una lingua neolatina preveneta, autoctona dell’Istria», spiega Luca Covelli, 36 anni, uno degli organizzatori del Festival, introducendo già la complessità di un idioma in buona parte misterioso. Da non confondersi con il ben noto istroveneto, tuttora molto diffuso in Croazia e Slovenia, «è la prova indiscutibile della romanicità autoctona e ininterrotta nel corso dei secoli dell’Istria. Gli altri dialetti che vi si parlano sono arrivati dopo l’istrioto, che resta quindi l’espressione linguistica più antica ancora esistente».
Ma come mai si è conservato solo in sei paesi? Anche nella grande città, a Pola, era certamente in uso fino a metà ’800, «ma poi venne pesantemente influenzato da altre parlate e infine sostituito dall’istroveneto “polesàn”, specie dopo che l’Austria scelse Pola come base principale della Marina militare asburgica dando forte impulso al porto e richiamando nuovi istriani da ogni dove: tedeschi, ungheresi, veneti, friulani, sloveni, croati, italiani del Meridione». Tre giorni di laboratorio linguistico hanno riportato alla memoria vocaboli e proverbi del favelà (così si chiama l’istrioto in lingua) quasi dimenticati. Tra i testimoni più attivi c’è il maestro Luigi Donorà, 84 anni, direttore d’orchestra e compositore, arrivato da Torino. Per decenni ha raccolto dagli anziani i canti della tradizione popolare della sua terra e li ha armonizzati: «Sono partito esule da Dignano, ma a Torino ho sempre parlato bumbaro (la versione dignanese dell’istrioto, ndr), con mia figlia sto scrivendo un dizionario dei nostri vocaboli». Sua figlia Giuliana, 46 anni, è nata a Torino ma ha il cuore in Istria, «pensare che da piccola mi vergognavo quando papà fuori scuola mi parlava bumbaro – sorride –. Qui al Festival di Sissano è come mettere la macchina d’ossigeno a un malato e vedere che si rialza. Sono felice di vedere in una sola aula tante persone appassionate e di tutte le età: le differenze tra le sei parlate sono evidenti, è interessante».
L’ulivo a Dignano è il vuléio, a Valle l’ulìoL’insalatiera a Rovigno è la puòdana, a Sissano la piàdina... Un istrioto unitario in realtà non esiste – spiega – ma alcune caratteristiche fonetiche accomunano le sei varianti, ad esempio la massiccia presenza di dittonghi (frouto per frutto, preimo per primo), o il suffisso -o al posto della -e finale ( nuoto per notte, zento per gente, navudo per nipote). Come si vede, la similitudine con il veneto è molto parziale e non basta certo a spiegare le origini di un idioma che è sì romanzo (l’Istria era regione romana), ma basato su un substrato istro, con apporti lasciati dalle varie dominazioni bizantina, longobarda, veneziana, austriaca, italiana... Da oltre un secolo gli studiosi cercano di dipanare la matassa, a partire dal padre della glottologia Graziadio Isaia Ascoli, colui che coniò per il favelà il nome “istrioto”, nato a tavolino. Lo ha di recente adottato anche il vocabolario Zingarelli tra le mille parole aggiunte alla nuova edizione: «Ovviamente non è un neologismo», sottolinea Mario Cannella, storico curatore dell’opera edita da Zanichelli. Che alla fine ha scelto di definirlo 'dialetto neolatinoveneto', tenendo così conto dell’origine preveneta ma da secoli profondamente venetizzata. La querelle non è di poco conto e persino la politica ha orientato il dibattito tra i linguisti del primo Novecento, da una parte propensi a sottolineare la matrice veneta, dall’altra (gli studiosi jugoslavi) l’originalità rispetto ai dialetti italiani. Il linguista Matteo Bartoli riteneva che l’istrioto affonda le radici nella decisione di Ottaviano Augusto di lasciare sul posto i veterani del suo esercito dopo la vittoria, legionari provenienti da Abruzzo e Puglia che si mescolarono agli Istri autoctoni. E numerosi contatti linguistici con l’abruzzese e il tarantino, d’altra parte, erano notati anche dallo storico Bernardo Benussi (teoria suffragata dalla presenza in Istria delle “casite”, uguali ai trulli pugliesi).
Quel che è certo è che per secoli la lingua è stata solo orale e curiosamente la prima testimonianza scritta, del 1835, si deve al canonico Pietro Stancovich, che tradusse la parabola del “Figliol prodigo”: «Oûn omo al viva du fiuòi. El pioûn peîcio da luri ga deîs a su padre: misàr pare, dime la parto de la ruoba ca ma tuca», dammi la parte di patrimonio che mi spetta... E ora? «Il prossimo obiettivo – spiega Demarin – è far dichiarare ufficialmente l’istrioto “Patrimonio culturale immateriale” da parte della Repubblica di Croazia, della Regione Istriana, dei sei comuni in cui è parlato e della intera realtà italofona, quindi della Repubblica italiana, così che venga tutelato ». Il tempo – aggiunge Covelli – non è a nostro favore, lo dimostra il caso di Fasana, dei sei paesi il più colpito dall’esodo, scelto dal maresciallo Tito come luogo di villeggiatura dunque “jugoslavizzato”: «Per questa edizione non abbiamo trovato alcun fasanese madrelingua in vita. La nostra speranza è che ne rimanga ancora qualcuno nella diaspora, là fuori in qualche angolo del mondo...».


venerdì 22 novembre 2019

La RAI alla Scuola Media di Limena nel 1973 per la lezione del maestro Claudio Scimone con I Solisti Veneti


La RAI alla Scuola Media di Limena nel 1973 per la lezione del maestro Claudio Scimone con I Solisti Veneti (dal minuto 6.47)

Nell’allora palestra, oggi Scuola dell’Infanzia ‘Il Melograno’, anno scolastico 1972-73, i ragazzi di Limena assistono alla lezione del maestro Claudio Scimone e dei suoi Solisti Veneti.
Evento straordinario ripreso dalla RAI. Dal minuto 6.47 le riprese sono fatte esclusivamente nella scuola media Beato Arnaldo da Limena.
La preside dell’epoca era la prof. Rosaria Trevisan (la si vede indirizzare con ordine i ragazzi).