domenica 30 settembre 2018

Scrittori veneti.


Scrittori veneti. Una mappa tra letteratura e turismo: il Veneto fecondo degli scrittori

Antonella Mariani giovedì 27 settembre 2018
Da Comisso a Buzzati, da Salgari a Camon, dalla Arslan a Rigoni Stern: il viaggio del giornalista padovano Sergio Frigo nei luoghi degli autori più amati
Vicentino - Goffredo Parise
«Trévise n’est pas Paris», amava scrivere Giovanni Comisso agli amici, citando Casanova, per dire quanto stretta gli stesse la sua “odiosamata” città natale, Treviso, da cui in effetti si allontanava spesso e volentieri. Per tornarci sempre, però, e alla fine per sempre, in una villetta di periferia con davanti «un piccolo pezzo di terra», dove «ancora mi affatico a vangare e allora capisco che il mio destino è di non potermi liberare dalla terra» ( La mia casa di campagna).
Una 'terra', quella veneta, che da secoli è patria e/o luogo dell’anima per tanti scrittori e poeti, da Ippolito Nievo Francesco Petrarca, da Emilio Salgari Dino Buzzati, da Ugo Foscolo Ernst Hemingway, per arrivare ai contemporanei come Antonia Arslan Ferdinando CamonVitaliano Trevisan Maria Pia Veladiano.
Non si pensi solo alla meta 'regina' dei grandi maestri di tutte le arti, l’aristocratica Venezia. A emergere nelle pagine della letteratura di ogni tempo sono anche (o soprattutto… ) alcuni angoli del Veneto, dalle montagne al mare: le dolci rotondità dei Colli Euganei, che hanno affascinato Byron Fogazzaro, la maestosa nobiltà del Piave di Parise Zanzotto, l’allure cosmopolita di Asolo, la Città dei Cento orizzonti di Giosué Carducci Freya Stark, il tormento triste dell’Altopiano che prima ancora di vedere all’opera Mario Rigoni Stern ha ispirato, a partire dalla Grande Guerra, i resoconti di Robert Musil ed Emilio Lussu.
L’idea di compilare una 'cartina' del Veneto a partire dai suoi cantori è venuta al giornalista a sua volta scrittore Sergio Frigo, già giornalista culturale al 'Gazzettino', che ha dato alle stampe I luoghi degli scrittori veneti (Mazzanti Libri, pagg. 356, euro 20).
Paese per paese, provincia per provincia, compone un suggestivo viaggio letterario-turistico, dove le mete sono i luoghi descritti e quelli in cui sono vissuti tanti giganti della letteratura nell’arco di 150 anni. E si scoprono alcune curiosità: è noto ad esempio che gli scrittori veneti sono stati grandi viaggiatori (Comisso, Noventa, Buzzati, Piovene, Ongaro, Parise). Meno noto che tra loro ci siano stati anche grandi camminatori e sportivi (Nievo, Fogazzaro, Salgari, Rigoni Stern, Camon, Ervas, Trevisan e - nomen omen - Tiziano Scarpa).
L’invito dell’autore è, dunque, di mettersi in cammino sulle tracce dei grandi scrittori. Come novelli Pollicino, scarpe comode ai piedi e guida turistica tra le mani, si possono inseguire le tracce autobiografiche lasciate da Antonia Arslan nei suoi romanzi: dalle strade porticate che dal centro di Padova conducono al 'Santo' (la Basilica di Sant’Antonio, il tragitto di lei bambina è descritto magistralmente in La masseria delle allodole) al «lunghissimo erto prato » che porta «al monte Sperone», incombente sulla valle di Sospirolo dove si consumava l’«insondabile felicità» di ogni estate ( Il rumore delle perle di legno, il terzo volume della trilogia armena della scrittrice padovana).
Un itinerario curioso è quello sulle orme di Emilio Salgari, il cantore di mille avventure esotiche che in realtà fu stanziale a Verona e poi a Torino: se la sua casa natale e l’amata Valpolicella sono ormai tappe classiche per gli appassionati, ci si può avventurare fino all’isola del Boschetto, un tratto dell’Adige a sud della città, che gli esperti giurano abbia fornito la materia prima per la descrizione del «delta gigantesco, intricato, meraviglioso» del Gange solcato da Tremal-Naik in I misteri della jungla nera: «Un’oscurità profonda, resa densa da una nebbia pestilenziale che ondeggiava sopra i canali, le isole e le isolette…». Un giovanissimo Emilio raggiungeva questo angolo di fiume, oggi diventato un parco con un circolo ippico, in sella a un biciclo, indossando a volte - racconta Sergio Frigo nel suo libro - un vistoso turbante con una piuma di gallina che la sua accesa fantasia immaginava in testa a Sandokan.
Può rivelarsi invece struggente ripercorrere l’itinerario biografico e letterario di Ferdinando Camon, lo scrittore padovano che meglio di chiunque altro ha descritto la fine della civiltà contadina con la sua trilogiaIl ciclo degli ultimi (composta da Il quinto stato del 1970, La vita eterna del 1972 e il successo planetario Un altare per la madre del 1978). Nella Bassa a cavallo tra le province di Padova e Verona la situazione sociale ed economica non è più depressa come ai tempi dell’infanzia deprivata di Camon, ma il paesaggio è ancora a tratti quello rurale descritto dai suoi primi, dolenti romanzi. E soprattutto l’altare che ha ispirato uno dei suoi libri più famosi è ancora lì, nella chiesa dell’ex monastero camaldolese di San Salvaro, che oggi ospita tra l’altro un ostello della gioventù e un Museo dedicato all’evoluzione del territorio della Bassa padovana: «Ed ecco una mattina capita una piccola schiera di fedeli, inviata a mio padre con la richiesta: se accettava di buona volontà che l’altare da lui costruito diventasse l’altare per la messa…».
Nel libro di Sergio Frigo le curiosità e le suggestioni sono tante: gli amanti di Hemingway troveranno un itinerario che passa da Roncade, la «calda, bianca città» della Bassa trevigiana descritta nel romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi fino alla frazione di Biancade, dove nella settecentesca villa Ca’ Morellato, lo scrittore americano incontrò Gabriele D’Annunzio. E così si potrebbe continuare, pagina dopo pagina, città dopo città, dalle cime delle Dolomiti al delta del Po, la letteratura che si accompagna al turismo. O, forse, viceversa.


mercoledì 5 settembre 2018

Didone e il doppio di un mito fra eroismo, amore e castità


Didone e il doppio di un mito fra eroismo, amore e castità
(di Cesare Cavalleri, mercoledì 5 settembre 2018)

Didone, la regina di Cartagine cantata da Virgilio nel Libro IV dell'Eneide, si uccise quando Enea l'abbandonò per riprendere il suo viaggio verso la fondazione di Roma. Letteratura e storia l'hanno tramandata come suicida per amore, ma le cose sono più complicate di quanto appare. Lo spiega molto bene Antonio Ziosi nel volume Didone. La tragedia dell'abbandono, nel quale, attraverso, Virgilio, Ovidio, Boccaccio, Marlowe, Metastasio, Ungaretti e Brodskij illustra le variazioni che il mito ha percorso nei secoli (Marsilio, pagine 344, euro 10).
Invero, Didone non è una sola, ce ne sono due. La più antica si chiamava Elissa (nome fenicio) ed era sorella del re di Tiro, Pigmalione, il quale, nel racconto di Timeo (IV-III sec. a.C.) le fece uccidere il marito che da altre fonti sappiamo chiamarsi Sicheo. Elissa fuggì con alcuni concittadini e molte ricchezze, riparò in Africa e fondò la città di Cartagine. Quando il re dei Libii la chiese in sposa, la regina, per non spezzare il giuramento di fedeltà verso il marito, finse di preparare un rito per sciogliersi dal voto, e quando dalla pira si alzarono le fiamme, vi si gettò dentro e morì. Per questo fu chiamata "Didone", che vuol dire virago, poiché, come disse Servio, il primo commentatore di Virgilio, «aveva compiuto un'azione virile».
Didone, dunque, eroina di fedeltà, o vedova lussuriosa che non si rassegna all'abbandono dell'amante? In realtà, nell'attenta lettura di Ziosi, «Virgilio rende omaggio alla tradizione "storica", che vedeva in Didone un'eroina della castità coniugale. Nell'Eneide Didone non muore perché innamorata, affranta e abbandonata, ma per aver tradito la fedeltà alla memoria del primo marito. Il cuore del Libro IV è sì l'amore, ma la vera tragedia di Didone è quella del pudor. Eppure - e qui sta il paradosso della regina virgiliana - la letteratura successiva ricorderà questa Didone proprio per la sua tragedia d'amore e di abbandono». Non per caso, dunque, gli apologisti cristiani, fra i quali Tertulliano, Girolamo e, in parte, lo stesso Agostino, presenteranno Didone come esempio di castità vedovile.
L'interpretazione "passionale" della storia di Didone (che secondo Virgilio non si lancerà nel rogo come Elissa, ma si getterà sulla spada che Enea aveva lasciato) circolò quasi subito, soprattutto nella versione che Ovidio, di soli 27 anni più giovane di Virgilio, ne dà nelle Heroides, dove leggiamo: «Il mio [di Didone] epitaffio non sarà "Elissa di Sicheo"; il mio tumolo di marmo recherà, invece, solo questi versi: "Fu Enea a offrire sia la causa della morte sia la spada, ma Didone cadde colpendosi con le sue mani». Con tanti saluti al pudor e alla castità vedovile.
La rilettura ovidiana ispirerà anche la Tragedia di Didone di Marlowe (1586) e, soprattutto, la fortunatissima Didone abbandonata di Metastasio (1724), di cui si contano almeno 112 versioni in musica. Metastasio raggiunge talvolta effetti di comico involontario come nel finale del Primo Atto, quando fa dire a Enea, straziato dal dubbio se partire o restare: «Se resto sul lido, / se sciolgo le vele, / infido, crudele / mi sento chiamar. / E intanto, confuso / nel dubbio funesto, / non parto, non resto, / ma provo il martire / che avrei nel partire, / che avrei nel restar». Alessandro Manzoni ne fece una brillante parodia: «Tu vuoi saper s'io vada / Tu vuoi saper se resto. / Sappi, ben mio, che questo / non lo saprai da me. // Vuoi ch'io dica perché non lo dico? / Non lo dico, oh destino inimico! / Non lo dico, oh terribile intrico / Non lo dico, perché non lo so».
Antonio Ziosi, che insegna lingua e lettura latina nell'Università di Bologna, non poteva passare sotto silenzio i lancinanti Cori descrittivi di stati d'animo di Didone, 19 brevi liriche contenute in La terra Promessa (1950-1954). Basti la citazione del Coro III: «Ora il vento s'è fatto silenzioso / e silenzioso il mare; / Tutto tace, ma grido / Il grido, sola, del mio cuore, / Grido d'amore, grido di vergogna / Del mio cuore che brucia / Da quando ti mirai e mi hai guardata / E più non sono che un oggetto debole. // Grido e brucia il mio cuore senza pace / Da quando più non sono / Se non cosa in rovina e abbandonata». Della poesia Didone ed Enea, di Iosif Brodskij, diremo, se ci sarà, in un'altra occasione.


domenica 2 settembre 2018

La scuola ridotta a circo della competizione


La scuola ridotta a circo della competizione

Angélique Del Rey giovedì 30 agosto 2018
Fare della valutazione degli allievi un mezzo che stabilisce chi può riuscire meglio o peggio nella vita genera una mentalità dove ciascuno pensa solo a farcela in barba agli altri
Robin Williams in una scena del film «L’attimo fuggente» di Peter Weir (1989) Angelique del Rey
Quando si è insegnanti, si vede spesso la competizione come un valore positivo. In sala professori si sente regolarmente questa lamentela: «Quando non ci sono voti in vista, gli allievi non studiano più». È un fatto: gli allievi prendono molto sul serio l’attribuzione di voti ai loro lavori e al loro rendimento scolastico, e tendono a identificare le loro capacità con i voti ricevuti in questa o quella materia. Inoltre si confrontano fra loro attraverso il voto, traendone ora un motivo di orgoglio, ora un motivo di vergogna o un certo disprezzo di sé stessi. E’ vero anche che la maggior parte studia “per il voto”, cioè in uno spirito di competizione con gli altri, e a certuni basta un voto basso per demotivarsi e perdere ogni speranza di cavarsela in un modo o nell’altro in quella competizione. Si può certo deplorare questa interiorizzazione dello spirito competitivo nelle aule scolastiche, ma non va ignorato che per parte loro gli allievi ne sono ben poco responsabili. Si tratta di qualcosa che gli è stato insegnato insieme alla matematica e al francese.

In effetti, è la scuola stessa, quando attribuisce un ruolo centrale alla valutazione, che va considerata responsabile di tale spirito competitivo, come anche dei suoi effetti deleteri: narcisismo o disprezzo di sé, desiderio di farcela in barba agli altri, atteggiamento strumentale verso lo studio, perdita di un rapporto oggettivo con il sapere, perdita del senso della comunità e dell’aiuto reciproco... Tuttavia, qualche anno fa le autorità competenti hanno fatto arrivare agli insegnanti un certo messaggio: «Bisogna smettere di dare voti!». Il voto – si sentiva dire sempre più spesso dagli ispettori e dagli altri formatori degli insegnanti – stigmatizza e ingenera il disgusto per lo studio. Ma soprattutto, è completamente privo di efficacia nel far riuscire l’allievo. Di fatto, nel 2008, quando ho deciso di scrivere il mio primo libro sulla valutazione in ambito scolastico, A l’école des compétences, la “valutazione per competenze” era già in voga da qualche tempo nell’ambiente della gestione dell’istruzione. Il discorso dominante a quell’epoca era il seguente: se vogliamo valutare l’efficacia reale dell’insegnamento (nonché operare confronti a livello internazionale), occorre mirare le competenze acquisite grazie all’insegnamento stesso, in altre parole il “saper fare” realmente acquisito dagli allievi, e non i saperi normati da questo o quel sistema scolastico regionale.

Ed effettivamente, poco importa il voto buono o cattivo preso per un compito di matematica o una tesina di storia o di filosofia, se poi quel voto non riesce a valutare le acquisizioni reali per la «riuscita di un 15enne nella vita», tanto per riprendere la formula-chiave utilizzata dall’OCSE nel suo programma SeDesCo, che ha dato luogo al noto sistema di valutazione PISA. In apparenza, dunque, nella “cultura della valutazione” scolastica è in atto un cambiamento virtuoso a livello non soltanto nazionale – in Francia o in Italia –, ma anche internazionale. Sta uscendo di scena il tipo di valutazione che stigmatizza e ingenera uno spirito competitivo deleterio! Purtroppo si tratta soltanto di un’apparenza. In realtà, queste nuove valutazioni non fanno altro che rafforzare lo spirito competitivo e incoraggiare gli allievi a identificarsi con le valutazioni che ricevono.

Come sappiamo, la valutazione non è nata ieri. Ha fatto la sua comparsa con le prime istituzioni scolastiche delle società moderne, e a quel tempo ha svolto una funzione essenziale nella formazione di società in cui i valori dell’uguaglianza e della libertà hanno assunto un ruolo centrale. Invece nelle società dell’Ancien Régime, le posizioni e i ruoli sociali dipendevano dalla nascita: per occupare un rango sociale elevato occorreva essere “figli di”, cioè bennati. Poi, con lo sviluppo delle società moderne, si è affermata l’idea che gli individui sono tutti uguali per nascita, e la questione della distribuzione degli onori e delle funzioni nella società stessa è passata a dipendere dalla valutazione delle capacità formate da sistemi scolastici ancora da costruire. Il nuovo motto è diventato: «A ciascuno secondo il suo merito». Torniamo ai nuovi sistemi di valutazione. Il loro problema di fondo è che pretendono di non essere istituzioni, bensì di valutare la persona come essere. Quando di un alunno o di un dipendente d’impresa (in occasione di un “bilancio delle competenze”) si dice che manca di questo o quel “saper essere” (“desiderio di imparare”, “rispetto di ogni differenza”, oppure “leadership”, “sicurezza di sé” ecc.), non si stanno giudicando le sue produzioni, bensì il suo essere (carattere, affinità elettive ecc.).

Ma c’è di peggio: si suppone che potrebbe imparare a essere diverso, come se in fondo non fosse che un insieme di competenze acquisite, privo di un’identità propria. In realtà, quindi, dietro la naturalizzazione della valutazione si cela la negazione delle differenze concrete che fondano le nostre identità: la negazione del nostro essere in quanto tale. Questa naturalizzazione dei nuovi sistemi di valutazione, contrariamente a quello che si dice, incoraggia il valutato a identificarsi con le valutazioni che riceve: di qui i fenomeni di abbandono scolastico o di suicidio dei dipendenti d’impresa, l’incessante ricerca di riconoscimento sui social media ecc. Effettivamente, quando il sistema di valutazione si presenta come un’istituzione in sé, è sempre possibile dirsi: «Ho fallito (come allievo, come dipendente ecc.), ma la valutazione non ha me come oggetto».

Quando invece il sistema pretende di valutare l’essere della persona, quale può essere l’esito? «Se ricevo una valutazione negativa è perché sono una nullità». Il neoliberismo, diceva Michel Foucault in uno dei suoi ultimi corsi al Collège de France, intitolato Nascita della biopolitica, è l’impresa diventata valore di tutte le cose, con la sua logica di investimento e di ritorno sull’investimento. È la vita individuale vista come impresa, è l’amicizia o l’amore visto come impresa, è il tempo libero visto come impresa, è l’apprendimento o lo studio visti come imprese... Tutte queste cose saranno ormai considerate alla stregua di forme di investimento, con un ritorno atteso e quindi, com’è logico, con una valutazione del rapporto investimento/profitto. Una valutazione della performance. In tal modo, per tornare all’ambito scolastico, l’alunno giungerà gradualmente a considerare la sua intelligenza come un capitale (“capitale cognitivo”) in cui investire prendendo lezioni, e al tempo stesso si aspetterà un “ritorno sull’investimento” in termini di occupazione. Ormai si dà per scontato il fatto di essere valutati, cioè essere desiderabili (e non soltanto a scuola, ma ovunque: al lavoro, in famiglia, fra amici ecc.). '«Sono valutato, ergo sum ». Tuttavia queste valutazioni sono assolutamente paradossali: in nome del riconoscimento del merito, negano il vero merito e generano un clima deleterio di concorrenza in cui ciascuno pensa solo a farcela in barba agli altri.