lunedì 14 gennaio 2019

Giacomo Leopardi: «Il poeta non era depresso, morì per un male genetico»


Risolto il «caso» Giacomo Leopardi: «Il poeta non era depresso, morì per un male genetico»
Un medico monzese, Erik Sganzerla, studiando le sue lettere è arrivato a formulare una nuova affascinante ipotesi: che fosse affetto da spondilite anchilopoietica giovanile, una malattia rara che insorge dopo i 16 anni

E
«Non era un depresso, non era uno sfigato come direbbero i ragazzi di oggi, non era affetto da malattia tubercolare ossea». Erik Sganzerla, 68 anni, da venticinque direttore della Neurochirurgia dell’ospedale San Gerardo-Università Bicocca, parla di Giacomo Leopardi e riapre un cold case, ricostruendone la cartella clinica. Lo fa nel volume «Malattia e morte di Giacomo Leopardi» che presenterà mercoledì alle 20,45 nell’aula magna del liceo Mosè Bianchi in via della Minerva. Sganzerla non ricorda esattamente a quando risale il suo interesse per Leopardi: «Di certo sui banchi del liceo Beccaria di Milano. C’era chi stava dalla parte di Manzoni e chi di Leopardi. Io non ho mai amato troppo Manzoni». Negli anni poi, ha sempre affiancato la carriera di neurochirurgo (ha fatto parte del team di periti nel processo sulla morte di Stefano Cucchi), alla passione per la letteratura dell’Ottocento e al collezionismo di libri rari. Un paio di lettere di Leopardi sono nella sua collezione e sono pubblicate nel volume, così come una rara prima edizione, corretta a mano dallo stesso Leopardi, di «All’Italia e Sopra il monumento di Dante».
Partendo dalle 1.969 lettere che compongono la corrispondenza del poeta il neurochirurgo ha ricostruito le fasi della malattia, l’insorgere dei primi sintomi, la loro evoluzione, arrivando a formulare una nuova affascinante ipotesi che smonta quella finora più citata di «Morbo di Pott» o spondilite tubercolare. «Ho seguito un metodo di indagine squisitamente clinico — spiega il neurochirurgo —, ho analizzato i sintomi di cui parla nelle lettere tra cui disturbi urinari, deformità spinale, disturbi visivi, astenia, gracilità, bassa statura, disturbi intestinali e complicanze polmonari e cardipolmonari. Piuttosto che pensare a tante diverse patologie ho ricondotto questo quadro ad un comun meccanismo degeneratore».
Secondo il medico monzese, l’autore dei «Canti» e dello «Zibaldone» era affetto da una malattia genetica rara: la spondilite anchilopoietica giovanile che ancora oggi ha un’incidenza di 5 o 7 casi ogni 100 mila persone. «Dalle lettere sappiamo che Leopardi non è nato gracile e gobbo, anzi il fratello Carlo lo descrive come un bambino vivace e leader nei giochi — spiega Sganzerla —. La deformità spinale, una cifosi dorsale, insorge dopo i 16 anni come si trova conferma nelle parole del marchese Filippo Solari che scrive di aver lasciato “Giacomino di circa 16 anni sano e dritto” e di averlo ritrovato dopo 5 anni “consunto e scontorto”».
I celebri sette anni di studio «matto e disperatissimo» nella biblioteca paterna contribuirono ad aggravare la sua deformazione alla quale si aggiunsero i problemi della vista a fasi alterne, disturbi intestinali e complicanze cardiopolmonari che lo portarono alla morte a 39 anni, il 14 giugno 1837. «Con tutta probabilità — conclude il medico — avvenuta per scompenso cardio respiratorio». L’indagine esclude soprattutto la diagnosi di «depressione psicotica» come riportano invece studi recenti. «La sua malattia ha influenzato i tratti caratteriali, ma non si può certo parlare di depressione in un uomo che come Leopardi viaggiò molto fino alla fine dei suoi giorni, continuò a creare moltissimo. Aveva tanti progetti da realizzare ed ebbe sempre il coraggio di proiettare il suo sguardo oltre gli ostacoli».
13 gennaio 2019 | 20:15


venerdì 4 gennaio 2019

Limena: la colonia elioterapica sul Brenta durante il fascismo


Limena: la colonia elioterapica sul Brenta durante il fascismo
di Bruno Trevellin

(Limena, bimbi dell’asilo nell’area della colonia elioterapica sulla riva destra del Brenta dopo la cascata, foto Martinello)

“Le prime colonie di vacanza per bambini in Italia sorsero alla metà dell’Ottocento[1], per poi diffondersi in modo più organizzato e sistematico tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; avevano finalità essenzialmente curative ed erano rivolte a bambini bisognosi e malati che non avevano accesso alle terapie. Organizzazione e gestione erano in mano a banche, opere pie e singoli benefattori religiosi o laici, e il carattere privato e lo scopo caritatevole restarono prevalenti fino agli anni Venti del Novecento.
Fu l’avvento del fascismo a mutare questo stato di cose in modo radicale. Nel corso degli anni Venti il fascismo affidò la gestione delle colonie alle federazioni locali del Partito nazionale fascista, all’Opera nazionale Balilla, l’organizzazione legata al ministero dell’Educazione che inquadrava i bambini e i ragazzi, maschi e femmine, dai 6 ai 18 anni, e all’Opera nazionale maternità e infanzia per l’assistenza alle madri e ai bambini.
Nel 1937 esse, come tutte le organizzazioni e le strutture destinate all’infanzia, furono affidate alla Gioventù italiana del Littorio (Gil), dipendente dal Pnf, che collaborava per la gestione delle colonie con i presidi sanitari locali e con le prefetture. Negli anni Trenta e sino al 1942 crebbero in modo evidente sia il numero delle colonie di vacanza che quello dei bambini ospitati.”[2]

L’elenco delle colonie del fascio padovano in un giornale dell’epoca

(pagina dal giornale Il Veneto del 30 luglio 1936, in Certosa di Vigodarzere sos, a cura di Francato-Dorio-Cesaro, p. 97)

Come evidenzia la pagina del giornale Il Veneto del 30 luglio 1936, erano numerose le colonie elioterapiche diurne nel territorio padovano. Tra queste figura anche quella fluviale di Limena, ubicata su via Manetti, gestita con turni che andavano dal 15 luglio al 14 agosto. L’edificio, come per quello di Vigodarzere, doveva essere una costruzione con ‘pareti di tavole di legno intonacate con sabbia miscelata a calce e truciolo di legno’[3]. Assieme a quella di Limena sono menzionate anche quelle dei comuni vicini di Cadoneghe, Vigodarzere, Curtarolo, tutte sulle spiagge venutesi a creare nell’alveo del Brenta.
(colonia elioterapica fluviale di Vigodarzere, foto in Certosa di Vigodarzere sos, a cura di Francato-Dorio-Cesaro, p. 98)

“La colonia elioterapica era un nuovo luogo di socialità dove i bambini soggiornavano e venivano curati per malattie ai giorni nostri completamente debellate, ma che ai tempi della “marcia su Roma” erano causa di mortalità: le più temute erano la tubercolosi, il vaiolo, la difterite, i linfatismi e la scrofola che, colpendo il sistema linfatico, produceva le cosiddette “scrofole”, una serie di rigonfiamenti ghiandolari”[4].
“In base al ‘Regolamento per le colonie elioterapiche fasciste 1932’, da parte del PNF, risultarono esservi tre tipi di colonie elioterapiche:
-permanenti;
-temporanee;
-diurne.
Ognuna di queste aveva delle proprie peculiarità. Ad esempio, le colonie elioterapiche permanenti, organizzate in piccoli ospedali per la cura di malattie come rachitismo e tubercolosi, potevano essere collocate sia al mare che in montagna, potevano funzionare tutto l’anno, erano autonome dal punto di vista amministrativo e potevano disporre di attrezzature di primissima scelta. Le colonie elioterapiche temporanee erano istituti di cura improntati su un basso livello di profilassi, in quanto erano attive esclusivamente nel periodo estivo e, di conseguenza, non potevano esercitare un effetto curativo utile e durevole, anche se i beneficiari erano bambini e bambine che nelle loro case non avrebbero mai trovato i mezzi necessari per un miglioramento fisico “in un clima sano improntato sull’esposizione del corpo al sole”, sfruttando al massimo le ore di luce di una giornata per agevolare la loro spensieratezza, i giochi liberi, gli esercizi ginnici, il canto corale, le passeggiate e le conversazioni improntate su tematiche politico-fasciste, mentre le colonie diurne, posizionate nelle periferie dei centri urbani, erano le uniche ad avere un vero e proprio scopo profilattico, in quanto ospitavano fanciulli, e fanciulle, che per una qualche ragione non potevano disporre di una sana, corretta e sufficiente alimentazione: la loro cura consisteva nello stare all’aria aperta in contatto con le forze biotiche della natura e, per questa ragione, sono da considerarsi come le vere “colonie elioterapiche” fasciste, nonostante fossero le “temporanee” le più diffuse, in quanto dotate di intervento assistenziale del nuovo stato totalitario di massa e viste come veicolo di propaganda attraverso un modello educativo imperniato sulle gerarchie e sul gesto ripetuto (e ripetitivo).

Albergo, clinica e scuola
Le colonie fasciste avevano un triplice effetto, essere albergo, clinica e scuola nello stesso momento: “albergo”, perché al loro interno i piccoli coloni potevano alloggiare in ottime strutture e mangiare pietanze che a casa non potevano permettersi; “clinica” in quanto al loro interno venivano seguiti alla lettera dalle “signorine vigilatrici” e dai medici per la cura delle malattie; “scuola” poiché nelle strutture veniva inculcata la propaganda, l’educazione patriottica, il rispetto e l’obbedienza alle gerarchie.
Per poter accedere al soggiorno coloniale, i bambini e le bambine dovevano essere vaccinati almeno contro le malattie più difficili da curare, mentre i più grandi dovevano aver fatto il richiamo, onde evitare il diffondersi di tali malattie nelle strutture ad altri bambini.
I Segretari federali, a partire dagli anni ’30, inviarono una serie di lettere agli organi direttivi delle strutture elioterapiche contenenti indicazioni precise, come la prescrizione dei locali, le diete alimentari o gli aspetti igienici: le colonie elioterapiche, per il regime, dovevano essere condotte con uniformità in un ambiente sano, confortevole, di sana propaganda fascista, di educazione igienica e di elevazione morale.
Diversa era l’educazione all’interno della colonia in quanto, a parte le due tranches giornaliere di due ore di indottrinamento politico ed il saluto romano all’alza-ammaina bandiera, il resto dell’attività di colonia era diviso in base al sesso: ai bambini venivano impartiti esercizi ginnico-fisici di carattere paramilitare e nozioni di laboratorio manuale per essere pronti un domani a lavorare ed entrare a far parte di un forte ed intrepido esercito che avrebbe difeso l’”italica Patria”, mentre alle bambine venivano impartiti corsi di economia domestica e di cucito, soprattutto.

Le signorine vigilatrici
Punto di riferimento nella colonia elioterapica erano le “signorine vigilatrici”, ragazze di età compresa tra i 18 e i 30 anni, iscritte ai Fasci femminili locali. Queste erano in rapporto di 1 a 30 con i coloni, dovevano essere ben istruite tecnicamente nonché essere predisposte all'indole materna. La loro iscrizione obbligatoria al Partito permetteva loro di insegnare la politica fascista, soffermandosi con attenzione particolare sulla biografia del Duce e su tutto ciò che ha fatto e farà per la Nazione, per l’”italica gioventù” e per i destini del Paese per un domani migliore, spiegando le opere compiute e quelle che saranno fatte dal fascismo. La lingua parlata dalle “signorine vigilatrici” era l’italiano, poiché la maggior parte dei bambini, se non tutti, si esprimeva in dialetto”[5].
(colonia elioterapica fluviale di Curtarolo, foto Martinello)

“Al suo interno la colonia disponeva, di solito, di:
-ampio refettorio;
-servizi igienici;
-infermeria;
- piccoli ambulatori per la cura, ad esempio, di escoriazioni”[6].
“In puro stile fascista, la ripetitività del gesto caratterizzava la giornata all’interno delle colonie: appena giunti nella struttura, i piccoli coloni si posizionavano intorno all’asta che sorreggeva il tricolore nazionale e salutavano “romanamente” la sua “salita al cielo”. Nelle “diurne” si susseguivano la ginnastica respiratoria, la visita medica, l’indottrinamento politico-fascista, i giochi e le cure elioterapiche, il pranzo nel refettorio, la ricreazione post-pranzo (ore 13:30–ore 15), la seconda tranche di indottrinamento politico, i giochi e le cure, la doccia (nel caso di immersioni in piscina), il saluto all’ammaina bandiera ed il ritorno a casa; nelle “permanenti” (le marine, per intenderci) le attività in più rispetto alle altre erano la sveglia collettiva, compresa tra le ore 6:30 e le 7:00 (a seconda del regolamento interno alla colonia), la pulizia all’interno della camera e quella personale, la passeggiata in riva al mare marciando, la cena in refettorio e il “post-cena”, la preghiera serale ed il ritorno in camera.
I momenti clou dell’attività all’interno della colonia marina erano la “terapia dell’acqua” e la “terapia del sole”, la balneoterapia e l’elioterapia. Praticati nelle “marine”, per ovvi motivi, i bagni d’acqua avvenivano dopo quelli d’aria e consistevano in immersioni di circa venti minuti nell’acqua del mare, considerata la panacea di tutti i mali.
Con modalità diverse erano compiuti i bagni di sole: nelle “marine” era fatta mediante l’esposizione totale del corpo stando sdraiati su delle stuoie per circa un’ora, mentre nelle altre colonie l’elioterapia consisteva nello stare all’aria aperta svolgendo gli esercizi ginnici o anche il semplice correre all’interno della struttura, dimenticando tutti i problemi di salute. La continua inaugurazione di colonie elioterapiche in Italia fu il segno dello sforzo del fascismo di fornire alla popolazione servizi in grado di preservare l’”italianità”.
Le colonie climatiche fasciste non prevedevano discriminazioni sociali, visto che al suo interno si incontravano i figli del “popolino”, i figli delle famiglie più disagiate delle città, e quelli della medio-alta borghesia. Si possono individuare vari difetti delle colonie. In primis, all’interno delle strutture, venivano azzerate le individualità e le personalità dei piccoli ospiti, visto che al suo interno era difficile la vita, sembrava di stare in una caserma dato il numero eccessivo di controlli sanitari effettuati, il folle indottrinamento politico quotidiano, impartito severamente dalle assistenti, senza contare che la separazione fra bambini e bambine rendeva la nostalgia di casa, ed il distacco dalle madri, ancora più intenso, soprattutto nelle “marine”: la precisione dei tempi che scandivano la giornata delle colonie, l’obbligo di indossare divise uguali, il numero di riconoscimento della biancheria intima e le camerate enormi resero le “provvide” strutture fasciste un luogo di spersonalizzazione.
A partire dall'ottobre 1938 l’Italia, in piena “fase di crisi” del fascismo secondo Renzo de Felice, si allineò alle politiche della Germania nazista di "difesa della razza ariana", con la promulgazione delle leggi razziali che discriminavano tutti gli italiani di religione ebraica. In particolare, si iniziava a parlare di fortificazione dei caratteri e di difesa della consistenza biologica, spirituale e razziale della popolazione italiana da «inquinamenti con razze non ariane»: la razza nell’idea del Duce era sia una concezione “spirituale” che “biologica”.
I medici criticarono pesantemente l’impostazione dei programmi svolti all’interno delle colonie elioterapiche, programmi che lasciavano poco spazio allo svago, con uno stile “da caserma” e con una estenuante attività fisica”[7].


[1]I primi “ospizi marini”, come erano chiamati, sorsero dapprima in Gran Bretagna e successivamente nel resto d’Europa tra Belgio, Paesi Bassi e Francia. Il primo edificio destinato ad ospitare fanciulli necessitanti di una cura balneoterapia fu il Sea Bathing Infirmary for the Scrofulous Poor of all England di Margate, cittadina sul mare nella contea del Kent, nel sud-ovest dell’Inghilterra. E nel nostro Paese? Colui che importò d’Oltremanica tutto questo fu il medico fiorentino Giuseppe Barellai (1813-1884), «apostolo e precursore di una nuova civiltà fondata sulla reciproca fratellanza e sulla solidarietà tra le classi e le Nazioni». Fautore dell’igienismo sociale di stampo positivista e dell’efficacia della balneoterapia, nonché vicepresidente dell’Accademia medico-fisica di Firenze, Barellai istituì in Italia diversi “ospizi marini” per la cura delle malattie infantili attraverso i bagni di sole (elioterapia) e i bagni d’acqua (balneoterapia) per la pelle e per il miglioramento della circolazione sanguigna attraverso l’esposizione ai raggi del sole, una tecnica già usata ai tempi dei Romani” (in http://www.tuttostoria.net/tutto-storia-autori.aspx?code=969).
[2]In  https://e-review.it/mira-colonie-di-vacanza-nel-ventennio
[3] in Certosa di Vigodarzere sos, a cura di Francato-Dorio-Cesaro, p. 96
[4] In http://www.tuttostoria.net/tutto-storia-autori.aspx?code=969
[5] http://www.tuttostoria.net/tutto-storia-autori.aspx?code=969
[6] http://www.tuttostoria.net/tutto-storia-autori.aspx?code=969
[7] http://www.tuttostoria.net/tutto-storia-autori.aspx?code=969