domenica 27 dicembre 2020

JEAN BASTAIRE, Prefazione a Il portico del mistero della seconda virtù di C. Peguy

 

JEAN BASTAIRE, Prefazione a Il portico del mistero della seconda virtù di C. Peguy, ed. Gallimard (1986)

(traduzione di B. Trevellin)

 


All’anemia dell’essere Peguy oppone una terapeutica spirituale radicale che ha come strumento il poema il cui compito più alto non è di abbellimento, ma di conversione, di morte-resurrezione.

Con una stupefacente intuizione Peguy fa della dannazione un esilio e un fallimento di Dio che, per evitarlo, si riduce a sperare nel peccatore, prendendo Lui l’iniziativa, contando sul peccatore, trepidando per lui nell’attesa che si ravveda.

Il mistero centrale del cristianesimo è l’incarnazione e perciò ogni disprezzo per la carne, ogni disprezzo del temporale è un abominio, perchè Dio ha tanto amato il mondo, non solamente le anime, ma anche i corpi, la terra, la creazione, al punto che per essi ha donato suo Figlio.

Una creatura, Maria, è il prototipo della nuova umanità resuscitata in Cristo, superiore agli uomini e agli angeli, perché lei sola totalmente terrestre e totalmente divinizzata.

Peguy inoltre stabilisce un accostamento fondamentale tra infanzia e resurrezione. L’innocenza dei bambini è esplosiva, loro non conoscono il dubbio, corrono per correre e non per arrivare, sono puro slancio, irresistibili, hanno la freschezza di una terra parusiaca.

 

 

Un gran testo non è solamente bello. Crea della vita, ha un’influenza seminale. Così per i Miserabili o le Illuminazioni. Tra le opere di Peguy nessuna ha meglio giocato questo ruolo fecondante quanto Il portico del mistero della seconda virtù. Innumerevoli lettori ne sono stati beneficiati. Certamente ne hanno attinto la forza di una resurrezione intima.

Si tratta di ben altra cosa che di una fortuna temporanea, legata al clima di una generazione. Il punto d’impatto del Portico è la ferita dalla quale sgorga, in ogni uomo, il sangue dell’anima. All’anemia dell’essere, quando non ha che voglia di dormire e di morire, Peguy oppone una cura radicale. Egli non ne fa un motivo di ragionamento, ancor meno con ammonimenti o consigli. Egli ha orrore della morale e si fa beffe della psicologia. La sua terapeutica è spirituale. Ha come strumento il poema.

Non c’è poeta veritiero che non sia un avventuriero dello spirito. Peguy illustra questa definizione che esclude gli edonisti della penna e i pettegoli pieni di miasmi. Non si entra sotto il suo portico, dall’aspetto piccolo, senza mettere tutto a rischio. O piuttosto ci si sente spinti dal rischio supremo di perdere il coraggio e di cadere nel vuoto.

Peguy si è assunto questo impegno, in un campo di rovine. A parte i propri figli, non c’era niente altro di sicuro in grado di dare senso alla sua vita. La tradizione dreyfusiana e l’avvilimento del socialismo avevano minato la sua fede rivoluzionaria, avvelenato la sua gestione dei Cahiers, distrutto la sua famiglia. A colmare la disgrazia, lo consumò un amore impossibile.

L’inno alla speranza che il Portico è, ha origine dalla disperazione più profonda. Non è un caso se un tale seguito di pagine candide si chiude sulla notte del Venerdì Santo e la sepoltura di Gesù: non con l’angoscia, ma con la pacificazione di un riposo misterioso, che non sappiamo ancora se terminerà con la Pasqua, anche se lo fa pensare. Come se lo sfinimento dell’autore, dopo questa lotta invisibile con l’angelo, alla fine devolasse, doloroso segno in fondo al quadro.

L’opera deve senza dubbio a queste circostanze una tensione esistenziale che le permette di evitare bene le insidie. Essa è stata troppo spesso asservita a una lettura semplicistica, a pezzi scelti, che svuota quello che la sua tenerezza ha di sofferenza purificatrice, di amarezza trasfigurante. In realtà il Portico incarna alla lettera quello che il testo stesso dice dell’acqua cattiva divenuta sorgente viva. Sostenuta dalla speranza, la poesia svolge il suo compito più alto che non è di abbellimento, ma di conversione, di morte-resurrezione, tirando fuori dal male la luce.

 

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Di colpo, essa ritrova una funzione teologica e mistica che il cristianesimo occidentale ha trascurato in lei da lunghi secoli, abbandonando a veggenti incerti, più o meno eretici, ciò che si lascia sfuggire l’ortodossia delle speculazioni dialettiche: la carne dell’esperienza religiosa, il soffio del contatto ontologico.

La poesia teologica torna alla grande tradizione simbolica, così vivida fino al XII secolo e che il cristianesimo orientale ha mantenuto fino ai nostri giorni. Non diciamo che pensi per miti, queste vaste immagini materne nelle quali si concentra un’esperienza decisiva. Pensa per segni. Ma anziché essere prese dall’universo astratto del concetto, questi segni provengono dalla realtà concreta, fenomenica, storica. Il mito stesso, senza dubbio privilegiato, non è altro che un segno.

Il poeta teologo, come il teologo simbolico, procede a una lettura della Creazione. Il mondo per lui è una santa Scrittura in cui si trova narrato un evento sublime: lo stesso che racconta nell’altro Libro e che è fissato nelle parole dei patriarchi, dei profeti e degli evangelisti. Ci sono così due vie per la Rivelazione. Anziché fare due esempi, esse si fanno eco, come se fin dall’inizio la Parola divina, nello stesso tempo che prende forma nei testi sacri, avesse voluto incarnarsi in una carne cosmica.

Quando Peguy evoca l’anima-cavallo e il corpo-aratro, contempla la pioggia dei giorni peggiori per la buona terra delle anime, trasmette la speranza come su una sepoltura  si passa l’acqua benedetta, non si comporta come un creatore di immagini venute bene, tanto più efficaci quanto limpide. È molto più di tutto ciò: un lettore fedele che, attraverso la realtà umana, decifra la realtà divina.

Col suo tono furbo e coi suoi zoccoli grossi, egli comprende il linguaggio di Dio. Così non è sorprendente che faccia parlare Dio.

Lungi dall’essere un procedimento letterario, questo audace obbedisce a una logica intima. Nessuno meglio di Dio potrà offrire la parola essenziale che prima di incarnarsi in Gesù ha inscritto in ogni creatura. Se maneggia con una scioltezza sovrana il linguaggio delle creature e delle cose, è perché ne è l’autore. E se Peguy ne è lo scriba miracoloso, è perché svanisce davanti al Padre del Verbo. “Dice Dio”, nota egli semplicemente. “Parola di Yaweh”, affermano i profeti. Nell’uno e nell’altro caso, Dio annuncia se stesso nell’annunciare il mondo.

Così si spiega uno degli aspetti più sconcertanti del Portico: il lato terra terra, banale di questa visione. Il segno scelto pare insignificante e si accende improvvisamente di un significato segreto. Non è distrutto ma magnificato per lo spiegamento dei sensi. Il muto parla tutto d’un tratto. Il silenzio dei giorni quotidianamente si scioglie. Una lode insolita s’innalza da un universo qualsiasi, dal quale non ci si attende che dell’ordinario.

Così il poema sposa un fiume di immagini famigliari e domestiche: i figli, il padre, la madre, lo zio, a una folla di citazioni evangeliche e liturgiche: Matteo, Luca, Giovanni, l’Ave Maria, il Salve Regina, senza dimenticare Villon, La Fontaine e Hugo. “Tutto fa ventre”, direbbe la saggezza popolare alla quale Peguy egualmente ricorre. Tutto serve a investigare l’amore e al chiarimento mistico.  

 

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L’ammirevole nel portico è che con parole terrene, con immagini carnali che non hanno nulla di filosofico, con movimenti del cuore che sono quelli di ogni creatura, Peguy rivoluziona il cristianesimo nel senso che, come dice altrove, “una rivoluzione è un appello di una tradizione meno perfetta a una tradizione più perfetta”. La sua teologia della speranza distrugge definitivamente il giansenismo e sgombra la strada regale del vangelo, troppo lungamente ingombrata da paure che si fanno beffe della croce di Cristo.

Non solo l’autore del Portico ritorna all’interiore suo dramma personale dell’esilio e della sconfitta, convertendo la disperazione in tenerezza e la derelizione in abbandono creativo. Ma inverte parallelamente un dramma ontologico più generale che lo perseguita fin dalla sua giovinezza e che è al cuore della sua meditazione di Giovanna d’Arco: l’esilio e la sconfitta dei dannati. Con una stupefacente intuizione, egli fa della dannazione un esilio e un fallimento di Dio.

Per evitarlo, Dio si riduce a sperare nel peccatore come il peccatore spera in Dio. Dio prende l’iniziativa. Là come in amore e come in tutte le cose, egli prende l’iniziativa, egli dà l’esempio. Ciò non spiega del resto il più perfetto amore, dove colui che ama si sottomette all’amato, conta sull’amato? Dio conta sul peccatore, trepida per lui nell’attesa che si ravveda e, come il figliol prodigo, venga a cadere tra le sue braccia.

Non meno feconda è un’antropologia che scarta ogni tentazione manichea e fa dell’uomo un insieme nel quale il corpo e l’anima “simbolizzano” (si uniscono) e non “demonizzano” (si dividono). Con un’immagine sorprendente, alla quale in Eva altre di così belle fanno eco, Peguy paragona il corpo e l’anima a due mani giunte nella preghiera o a due polsi legati dal peccato. Corrono la stessa avventura. E il poeta ha l’audacia di rovesciare una proposizione ahimè troppo usuale, benché non cristiana, secondo la quale gli angeli sono fortunati a non avere un corpo. Per Peguy, è una mancanza, poiché non possono imitare Gesù, dal momento che non hanno “lo stesso corpo di Gesù”.

Il mistero centrale del cristianesimo è l’incarnazione. Dio si è veramente fatto uomo perché l’uomo si faccia veramente Dio, secondo l’adagio tradizionale dei Padri della Chiesa. Ogni disprezzo per la carne, ogni disprezzo del temporale è un abominio, perchè è un disprezzare e detestare la condizione reale che il Verbo ha assunto per salvarla. Dio ha tanto amato il mondo: non solamente le anime, ma anche i corpi, la terra, la creazione, al punto che per essi ha donato suo Figlio.

Una creatura è il prototipo della nuova umanità resuscitata in Cristo: Maria madre di Gesù. Lei è superiore agli uomini e agli angeli, senza ombra di peccato. Lei sola è una perfetta imitazione di Gesù, perché lei sola è totalmente terrestre e totalmente divinizzata. Lungi dall’essere un pietismo devoto, il culto di Peguy per Maria è un’esaltazione del temporale per l’eterno, una glorificazione della carne per lo spirito.

Parimenti il ruolo attribuito all’infanzia dall’autore del Portico è agli antipodi di ogni puerilità. Sono solo gli adulti a essere infantili. I bambini sono nuovi, baldanzosi. Con la freschezza di una terra parusiaca, la loro innocenza è esplosiva. Loro non conoscono il dubbio. Secondo la loro gratuità, corrono per correre e non per arrivare. Sono puro slancio. Ecco perché sono irresistibili.

Tra le sue due sorelle maggiori la fede e la carità, la speranza è una figlia piccola che tutto trascina. L’immagine trovata da Peguy è talmente giusta che ha fatto il giro del mondo. Essa riassume il Portico, perché così come esprime  il “puer eternus” dell’inconscio collettivo, esiste un accostamento fondamentale tra l’infanzia e la resurrezione, e la speranza apporta la grazia anticipata della Pasqua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 16 luglio 2020

Vecchiaia, saggezza, eternità in Romano Guardini


Vecchiaia, saggezza, eternità in Romano Guardini
di Bruno Trevellin



Romano Guardini (1885-1968), filosofo e teologo cattolico tra i più significativi del ‘900, pubblica  Le età della vita nel 1957, quando di anni ne ha 72. È un’età che gli consente di sostenere per esperienza quanto scrive a proposito della vecchiaia. Beninteso, il suo studio parla anche delle altre età della vita, non esclusivamente di quella che per ciascuno sarà l’ultima. La sua riflessione infatti inizia considerando la vita fin dal grembo materno, passando per la giovinezza, per l’età adulta, per finire appunto con la vecchiaia.
Soffermiamo la nostra attenzione proprio su questo momento della vita umana, momento in cui, dice Guardini, “si avverte il senso della caducità delle cose”, “si fa un bilancio delle proprie possibilità”, si vede “venir meno il senso dell’attesa”, per il fatto che “quanto più l’uomo invecchia, tanto meno si aspetta qualcosa e tanto più intensamente avverte la fine” e sente la vita scivolargli via sempre più velocemente.
In quell’età ha la sensazione che qualcosa sia continuamente alla fine, è sempre più consapevole  “che quanto si fa ora lo si è fatto anche ieri, che l’esperienza fatta oggi è quella di otto giorni fa”. A questo si aggiunge anche un altro elemento, non legato al tempo che passa, ma al modo in cui vengono vissuti gli avvenimenti, e cioè che essi si fanno labili, nel senso che “chi li vive ne è meno toccato e non li considera più così seriamente”. L’uomo che invecchia, anzi, dimentica con facilità quanto accade e ai suoi occhi acquistano invece sempre più importanza “gli avvenimenti di un tempo”, il passato, la vita trascorsa.
Risultano essere queste le caratteristiche della crisi di questa età e il modo per superarle, avverte Guardini, dipende da come viene accettata la prospettiva della morte, al punto che sarà vecchio, ma in senso negativo, colui che vecchio non vuole proprio diventare.
Gurdini a tal proposito osserva, e siamo nel lontano ’57, come uno dei fenomeni più inquietanti dell’epoca moderna sia l’opinione che il vero valore della vita coincida con la giovinezza, generatore di quella sorta di “materialismo senile” che mira solo a cose tangibili, quali “il mangiare e il bere, il conto in banca, la poltrona comoda”. Per Guardini ne deriverà quella che egli chiama “testardaggine senile”, fatta di smania di mettersi in mostra, voglia di tiranneggiare gli altri solo per la convinzione “di essere ancora qualcuno”, quando invece bisognerebbe “accettare il fatto che si diventa vecchi”.
Solo così infatti si potrà superare positivamente la crisi di questa età, solo così si realizzeranno comportamenti e valori fondamentali per la totalità della vita, come il discernimento, il coraggio, la pacatezza, il superamento dell’invidia verso i giovani, il risentimento verso le novità che si presentano nella storia. Solo così, cioè, si forma quella figura del vecchio inteso come saggio, da caratterizzare come “colui che è conscio della fine e l’accetta”, perché si trova sempre più preparato a ciò che gli dovrà succedere.
È accettando la fine infatti che il comportamento dell’uomo “acquista pacatezza e superiorità”, superiorità da intendere come “superamento dell’angoscia, del desiderio di gustare il piacere, della fretta di vivere quanto resta da vivere, dell’ansia con cui si sfrutta all’estremo ogni attimo del tempo che si va accorciando”.
E sarà proprio il senso di caducità che si manifesta nella vecchiaia a produrre la coscienza “di ciò che non passa, di ciò che è eterno”. Guardini però ci avvisa subito che eterno non è ciò che continua come quantità incommensurabile, “ma qualcosa di qualitativamente Altro, libero, incondizionato”, non essendo in rapporto con la vita biologica, ma con la persona che nell’eterno non è conservata e perpetuata, ma “realizzata in senso assoluto”.
È l’esperienza -che consente di distinguere ciò che importa da ciò che risulta irrilevante, ciò che è autentico- a farci comprendere “l’unità della vita e il significato che in essa hanno i singoli momenti”. Questo è la saggezza, da intendere come “ ciò che si viene a creare quando l’assoluto e l’eterno penetrano nella coscienza contingente e finita, e da questa gettano luce sulla vita”.
Purtroppo l’uomo di oggi ha dimenticato del tutto il significato della vecchiaia. La norma è il giovane e “il vecchio non sarebbe altro che un giovane sminuito”. Di conseguenza sono venuti meno i valori propri della vecchiaia quali la saggezza nelle sue varie forme, la capacità di discernimento e di giudizio.
Orbene, “solo colui che diventa vecchio nel modo giusto diventa capace di comprendere la totalità della vita”, non avendo egli più un futuro, ma solo un passato cui rivolgere lo sguardo, ma sarà proprio con quello sguardo che potrà vedere “i fatti nel loro contesto” (conquiste, rinunce, gioie, dolori). E poi “l’uomo che invecchia si avvicina non alla fine ma all’eterno”, cioè a Dio e al suo “regno senza tempo”.
Nella vecchiaia “gli avvenimenti della vita immediata perdono la loro urgenza”, mentre invece acquistano importanza ciò che prima era considerato irrilevante. “Si tratta di un’anticipazione di ciò che il linguaggio religioso chiama giudizio”. “Giudizio  -dice Guardini- significa che le cose sono liberate dai camuffamenti delle chiacchiere e dalle confusioni operate dalla menzogna e dalla violenza, e vengono portate nella pura potenza della verità di Dio, che non può essere né corrotta né ingannata. Di questo giudizio, che avrà luogo dopo la morte al cospetto di Dio, si attua, nella vecchiaia giusta, una specie di preparazione”. Questo giudizio “dà alla vecchiaia un senso che non ha nessun’altra fase della vita”.

giovedì 18 giugno 2020

Bruno Trevellin, L’amore al tempo della peste (e del Coronavirus)


Bruno Trevellin, L’amore al tempo della peste (e del Coronavirus)
Lettura parafrastica dal romanzo di Albert Camus, La peste



Raimond Rambert è uno dei protagonisti minori del romanzo La peste di A. Camus, ma è quello che meglio di ogni altro ci fa cogliere cosa avvenga, cosa è possibile che avvenga e cosa possa restare del sentimento amoroso quando si passa attraverso l’esperienza diretta di un flagello terribile come la peste.
Rambert fa il giornalista ed è finito a Orano, la città algerina della peste, per chiedere al dottor Bernard Rieux, il protagonista principale del romanzo, in cui dobbiamo riconoscere per molti aspetti lo stesso Camus, “ragguagli sulla condizione di vita degli arabi”.
Ebbene, una sera Rambert si rivolge proprio a Rieux anche per un aiuto concreto, per un favore personale, urgente: vuole che il dottore, proprio perché molto stimato negli ambienti amministrativi, lo aiuti ad andarsene dalla città, chiusa a causa della peste, per ricongiungersi alla sua donna che si trova a Parigi e della quale è perdutamente innamorato.
Sì, si era già rivolto alla prefettura, ma per sentirsi dire sempre e solamente che non era proprio possibile andarsene da Orano, che “non si poteva fare eccezione” e anzi era stato invitato a sfruttare la situazione per un reportage che poteva essere veramente interessante, perchè una città colpita dalla peste è sempre un buon argomento giornalistico. Rambert, però, non ne vuole sapere di rimanere e lo confessa sinceramente al dottore che lui non è stato “messo al mondo per fare dei reportages”, ma “per vivere con una donna”. Per questo gli chiede di sottoscrivergli un certificato medico che attesti che lui non ha la peste e che potrebbe servirgli per andarsene “legalmente”. Il dottore però gli fa subito notare che non può fargli quel certificato perché lui, medico, non potrà mai attestare che tra il momento in cui uscirà dal suo studio e quello in cui entrerà in prefettura non sarà contagiato. Gli fa inoltre notare che in città ci sono migliaia di uomini nella sua stessa situazione che non si possono proprio lasciare uscire.  
“Ma io non sono di qui!” protesta con forza Rambert, come se non essere del posto potesse assicurargli una partenza privilegiata e immediata. Il dottore però lo riporta subito con i piedi per terra, facendogli capire che a cominciare da quell’esatto istante anche lui, Rambert, deve considerarsi di Orano, come tutti gli altri abitanti costretti a rimanervi chiusi dentro come in una prigione, come dei reclusi.
“E’ una questione di umanità, (…) lei non si rende conto di cosa significa una separazione come questa per due persone che si intendono bene”,
continua a protestare Rambert. Rieux certo non è insensibile e anzi gli fa capire che desidera che tutti quelli che si amano e che la peste aveva separato, possano ricongiungersi, ma proprio non si può. Anche per quel suo caso, come per tutti gli altri simili, ci sono leggi, decreti, c’è la peste e lui, dottore, poteva fare solo il suo dovere.
A quel punto Rambert, seccato, gli risponde che farà in modo di sbrigarsela diversamente, perché in ogni caso lui vuole lasciare la città, costi quel che costi.
Non si dà per vinto e con ostinazione e astuzia si rivolge a un gran numero di funzionari. Con loro il suo ragionamento è sempre lo stesso: lui è estraneo alla città di Orano, non è uno del posto, per cui il suo caso deve essere considerato diversamente. Ma niente, gli rispondono sempre che non si può creare con lui un precedente. Oppure gli dicono di portare un po’ di pazienza perché tanto la peste sarebbe stata solo un fenomeno passeggero, una noia momentanea. Altri lo illudono, facendosi dare una nota scritta sulla sua richiesta, assicurandogli che se ne sarebbero occupati; altri, come succede spesso, se la cavano semplicemente indicandogli un altro ufficio a cui rivolgersi.
Insomma, ad un certo punto si rende conto che non potrà mai uscire dalla città in maniera legale e così, tramite un amico, Cottard, entra in contatto con una organizzazione di contrabbandieri che si occupa della rivendita di sigarette e alcool, i cui prezzi crescevano ogni giorno di più, traffico che stava consentendo proprio a Cottard di farsi una piccola fortuna nel bel mezzo della peste, proprio a lui che era diventato uno squattrinato perché spendeva più di quanto guadagnava. L’affare infatti sarebbe costato al giornalista diecimila franchi, anche perché bisogna corrompere delle guardie, ma gli rimane quello e solo quello come unico modo per andarsene.
La cosa a un certo punto sembra ormai fatta, quando una sera in un bar Tarrou, amico del dottor Rieux, dice a Rambert che gli dispiaceva per quella sua partenza perché avrebbe potuto essere utile nelle formazioni sanitarie di volontari, organizzate per portare soccorso e organizzare al meglio quanto richiedeva la situazione venutasi a creare in città con la peste. Questo invito non lascerà infatti indifferente il giornalista.
Comunque i ripetuti tentativi non vanno mai in porto, anche perché sempre un qualcosa impedisce a Rambert di fuggire dalla città e così ogni volta si ritrova a dover ricominciare tutto da capo, ricominciare a riorganizzare la sua fuga tramite i contrabbandieri. Alla fine quasi si rassegna. Una sera, con in casa Rieux e Tarrou, avendo ormai compreso che la peste “consiste nel ricominciare”, chiede a Rieux spiegazioni proprio sulle formazioni sanitarie. Lui, che aveva fatto la guerra civile di Spagna dalla parte dei vinti, pensando ai gesti di coraggio che aveva visto, afferma di sapere che l’uomo è sì capace di grandi azioni, ma che a lui interessa solo se è capace di un grande sentimento e dichiara di averne abbastanza delle persone “che muoiono per un’idea”, perché lui non crede all’eroismo: sa infatti che è facile e, soprattutto, sa che è omicida. Quello che solamente gli interessa è invece, e se ne rende conto esattamente in quel frangente,
“che si viva e che si muoia di quello che si ama”.
“L’uomo non è un’idea, Rambert”, gli fa notare Rieux e lui, prontamente e come infiammato dalla passione, gli risponde: “E’ un’idea, e un’idea corta, dal momento in cui ci distoglie dall’amore”, constatando che appunto “noi non siamo più capaci d’amore”.
Per Rambert darsi da fare in mezzo alla peste è cioè come un giocare agli eroi. Rieux gli dà ragione, gli dice anzi che ciò che sta per fare, fuggire, gli sembra pure “giusto e buono”, ma gli fa anche notare che non si tratta di eroismo, ma semmai di onestà: unica e sola maniera di lottare contro la peste. E per lui l’onestà è unicamente fare il suo mestiere di medico lì a Orano con il flagello imperante.
“Ma io non so –disse Rambert con ira- quale sia il mio mestiere! Forse io sono davvero nel torto scegliendo l’amore”.
Comincia ad avere dubbi Rambert, non solo sul suo mestiere di giornalista, ma pure sul significato del suo amore. In ogni caso loro, Rieux e Tarrou, non lo possono capire, perché loro due non hanno nulla da perdere e quindi per loro è più facile “essere dalla parte giusta”, quella cioè che consiste nel rimanere e combattere la peste, mentre lui, rimanendo, rischia il contagio, rischia di morire, rischia di perdere l’amore: rischia di perdere tutto.
A quel punto Rieux vuota il bicchiere ed esce, seguito da Tarrou, perché ha “da fare”. Proprio mentre sta per uscire, Tarrou informa il giornalista del fatto che la moglie di Rieux si trova in una casa di salute a qualche centinaio di chilometri da Orano. Rambert ne rimane colpito, coglie che anche il dottore ha qualcosa da perdere proprio come lui e infatti il giorno dopo telefona a Rieux per chiedergli di prenderlo come volontario nelle formazioni sanitarie. Gli è cioè bastata una notte per cambiare idea. Anche Rieux aveva da perdere, anche Rieux era nella sua stessa situazione, diversa solo perché peggiore, nel senso che sua moglie è non solo lontana e irraggiungibile, ma anche gravemente malata.
Allora cosa è giusto fare: scappare comunque, anche illegalmente, o rimanere?
Soprattutto, si può ancora essere liberi durante la peste? Si può cioè poter scegliere? La risposta di Camus è no! No perchè la peste cancella i destini individuali per lasciare posto solo a sentimenti condivisi da tutti. E il più forte è quello della separazione e dell’esilio, che toglie ogni futuro, e quindi l’amore e l’amicizia.
“La peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche dell’amicizia; l’amore, infatti, richiede un po’ di futuro, e per noi non c’erano più che attimi”.
Sarà questa la riflessione di Rieux. Beninteso, Rambert lavora sodo nelle formazioni, non lascia tramontare il sogno della fuga, dell’evasione, solo che non vive più pensando esclusivamente a quella; intanto si dà da fare, lottando anche lui contro il contagio. Una notte, però, ha una crisi. Uscito da un bar ubriaco e avendo come l’impressione di essersi preso la peste, si mette a correre verso la città alta e, arrivato a una piazzetta, “chiamò la sua donna con un altissimo grido, al di sopra delle mura”.
Tornato a casa e non vedendosi addosso alcun segno del contagio, quasi si vergognò di quel suo momento di crisi. “Può capitare che se ne abbia voglia”, gli spiegò Rieux, che forse era stato tentato anch’egli da quello stesso gesto. Gli consiglia pure di non frequentare più gli ambienti del contrabbando, perché stava diventando rischioso. Il suo è un invito a Rambert perché faccia presto a fuggire.

Finalmente tutto sembra pronto, la fuga è organizzata per la mezzanotte, ma Rambert ha un ultimo ripensamento e va a incontrare Rieux. Per dirgli cosa? Per dirgli che non sarebbe più partito, anzi per dirgli che voleva restare con loro, nelle squadre sanitarie.
 “E sua moglie?” gli chiede Rieux. Restare significa non solo rinunciare a lei, ma continuare a esporsi al contagio.
“Rambert disse che aveva ancora riflettuto, che continuava a credere in quello che credeva, ma che se fosse partito ne avrebbe avuto vergogna; e questo avrebbe guastato il suo amore per colei che aveva lasciato”.
A Rieux, che gli fa presente che è una cosa stupida, perché non c’è nessuna vergogna a preferire la felicità, Rambert risponde, convinto che sì, non c’è vergogna a preferire la felicità, ma che “ci può essere vergogna nell’essere felici da soli”. No, essere felici da soli non può più bastare a Rambert, dopo tutto quello che ha visto e fatto.
“Tarrou, che sino ad allora aveva taciuto, senza voltare la testa verso loro fece notare che se Rambert voleva condividere le sventure degli uomini non avrebbe mai più avuto tempo per la felicità. Bisognava scegliere”.
Rambert gli risponde che non è stata quella la sua riflessione, ma un’altra e ben diversa, maturata in quei giorni estenuanti di servizio sanitario.
“Ho sempre pensato di essere estraneo a questa città e di non aver nulla a che fare con voi. Ma adesso che ho veduto quello che ho veduto, so che io sono qui, che io lo voglia o no. Questa storia riguarda tutti”.
Del resto neanche per gli altri due si trattava di scelta. Neanche loro avevano scelto, neanche Rieux.
“Nulla al mondo vale che ci distolga da quello che si ama. E tuttavia me ne distolgo anch’io, senza poterne sapere la causa (…). È un fatto, ecco tutto (…). Registriamolo e ricaviamone le conseguenze (…). Non posso nello stesso tempo guarire e sapere (…). E allora guariamo il più presto possibile: è la cosa che più importa”.
È con queste parole che il dottore chiude quella loro concitata discussione.
La natura vera dell’amore è dunque quella di una continua mancanza e incompletezza. Rieux, ad esempio, sapeva che sua madre lo amava, ma sapeva anche
“che non è gran cosa amare una creatura o almeno che un amore non è mai sì forte da trovare la propria espressione. Di modo che sua madre e lui si sarebbero sempre amati in silenzio. E lei sarebbe morta –o lui- senza che, durante la loro vita, fossero potuti andare oltre, nella confessione del loro affetto. Nello stesso modo egli era vissuto accanto a Tarrou, e questi era morto, quella sera, senza che la loro amicizia avesse il tempo di essere veramente vissuta”.
Cosa si guadagna allora? Si guadagna ciò che resta, cioè il ricordo, dell’amore e dell’amicizia, anche se è duro vivere solo di quello che si ricorda e privati di ogni speranza, senza la quale non c’è pace.

Verso la fine del romanzo Rieux viene informato della morte della moglie per telegramma. Accoglie la notizia con calma. Era una cosa penosa, ma se l’aspettava, perché sapeva
“che la sua pena era senza sorpresa. Da mesi e da due giorni (da due giorni gli era morto l’amico Tarrou), era lo stesso dolore che continuava”.

Una bella mattina di febbraio le porte della città vennero aperte. La peste finalmente se ne era andata, ma aveva fatto il suo lavoro, quello di mutare il cuore degli uomini. Un senso vago faceva loro desiderare che, dopo tanti mesi perduti nella lontananza, nel distacco forzato, “il tempo della gioia avrebbe dovuto trascorrere due volte meno in fretta del tempo dell’attesa”, ma non sarà così e a quegli uomini, come Rambert, non restavano ora che l’impazienza e lo smarrimento del ricongiungimento.
“L’amore o l’affetto che i mesi di peste avevano ridotto all’astratto, Rambert ora aspettava, in un tremito, di confrontarlo con la creatura di carne che n’era stata il sostegno.
Avrebbe desiderato diventare colui che al principio della peste voleva correre con un solo slancio fuori della città, e slanciarsi incontro a colei che amava; ma sapeva che non era più possibile. Egli era mutato, la peste aveva messo in lui una distrazione che con tutte le sue forze egli cercava di negare e tuttavia continuava in lui come una sorda angoscia. In un certo senso, aveva il sentimento che la peste era finita troppo all’improvviso (…). La felicità arrivava di gran carriera, l’evento andava più presto dell’attesa. Rambert capiva che tutto gli sarebbe stato restituito d’un colpo, e la gioia è una bruciatura che non si assapora”.
Arriva la sua donna, arriva col treno, gli corre subito incontro e gli si butta sul petto, proprio come avrebbe voluto e desiderato.
“Tenendola ben abbracciata, stringendo a sé una testa di cui non vedeva se non i capelli conosciuti, egli lasciò sgorgare le lacrime senza sapere se venissero dalla gioia presente o da un dolore troppo a lungo represso, sicuro almeno che gli avrebbero impedito di verificare se il viso affondato nella sua spalla era quello di cui aveva tanto sognato o invece quello di una estranea. Più tardi avrebbe saputo s’era vero il sospetto. Per il momento egli voleva fare come tutti coloro che avevano l’aria di credere, intorno a lui, che la peste può venire e andarsene senza che il cuore dell’uomo ne sia modificato”.
Il sospetto era fondato. Dal momento in cui la peste aveva di fatto chiuso le porte della città, tutti quelli come Rambert erano vissuti nella separazione, “erano stati tagliati fuori dal calore umano che fa tutto dimenticare".
Certo, Rambert aveva ritrovato l’assente che credeva perduto, ma aveva anche colto che quelli come lui “sarebbero stati felici” per qualche tempo, ma sapendo ormai
“che se una cosa si può desiderare sempre e ottenere talvolta, essa è l’affetto umano”.  
    


sabato 25 aprile 2020

Lettera a una professoressa da un collega in DaD (Didattica a Distanza), di Bruno Trevellin


Limena, 25 aprile 2020
Lettera a una professoressa da un collega in DaD (Didattica a Distanza), di Bruno Trevellin


Cara collega,
in questo periodo in cui siamo costretti alla cosiddetta didattica a distanza, mi sembra quasi naturale tornare sulle pagine di quel libro ‘rivoluzionario’ nato dall’esperienza di don Milani nel lontano ’67. Aiuta a riflettere ancora sulla scuola e sul ruolo dei docenti oggi. Se don Milani lo cita anche l’attuale ministro della PI, possiamo ben farlo anche noi, dipendenti del suo Ministero. “Siete eroi anonimi”, ci ha scritto di recente, riconoscendo che stiamo “lavorando con ogni mezzo” per far sì che gli alunni “non perdano il contatto con la scuola” dalla quale, come diceva don Milani, citato dal Ministro “‘attendono di essere fatti eguali”. Sappiamo che non è così, che non è ancora così. Sappiamo che la scuola non è uguale in ogni angolo del Paese (lo dicono i dati Invalsi). Così come sappiamo che non sarà la didattica a distanza a generare uguaglianza o ad arginare la dispersione scolastica ufficiale e latente. Però la situazione è grave e lo rimarrà a lungo, a quanto pare, e perciò ogni sforzo e ogni tentativo vanno intrapresi. Anche dal fango di una palude nascono i giunchi.
Voglio partire però da una semplice quanto significativa ed emblematica (e forte) frase contenuta in quel libro di Barbiana. “La scuola sarà sempre meglio della merda” scrive Lucio, che aveva 36 mucche, proprio in Lettera a una professoressa. Lucio era uno degli alunni di don Milani e le mucche le aveva per davvero e per lui l’alternativa alla scuola era solo il lavoro in stalla con suo padre dalle sei del mattino alle sei di sera. Conosco, cara collega, quel lavoro; l’ho visto fare a mio nonno per tante estati, quando andavo a trovarlo per le vacanze più di cinquant’anni fa. Si alzava all’alba e finiva proprio al tramonto!
Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole” continua Lucio, rivolto alla prof. che nella scuola pubblica bocciava tranquillamente i figli dei contadini. Era proprio così, allora: chi era ultimo in partenza restava sempre ultimo, e senza la prospettiva di un traguardo. No, oggi, almeno in Italia, non è più così, siamo più attenti alle esigenze degli ultimi. E anche la civiltà contadina non c’è più, anche se mi sa che è solo cambiato il tipo di ‘merda’-scusami se insisto con questo termine così poco scolastico, così poco educato, così poco urbano- in cui i ragazzi rischiano di rimanere impantanati.
Mi chiedo: ma senza la scuola, anche a distanza, dove sarebbero oggi loro, i ragazzi? Non certo con la forca in mano, quella da stalla, a quattro punte, che io ho fatto in tempo a maneggiare, ma sempre e solo con un cellulare tra le dita per rispondere e scrivere quotidianamente centinaia di whatsapp spesso volgari e inutili o postare foto irresponsabili e pericolose in instagram. E allora resistiamo, anche con una didattica a distanza. Didattica ad oltranza si dovrebbe chiamare! Che pone delle questioni: per quanto tempo? Con che valutazioni? Su che registro? Con che esami?
Quanto tempo stavano a scuola quei ragazzi di Barbiana? Sono troppe oggi le nostre 30 ore settimanali? Don Milani non faceva sconti. Alla sua scuola si andava tutti i giorni “dalla mattina presto fino a buio, estate e inverno”, anche di domenica, salvo l’ora per la messa. Registriamo però che sta avvenendo un qualcosa di simile, anche se a parti inverse, nel senso che con la didattica a distanza sono i docenti più che gli alunni a occuparsi di scuola tutte le ore del giorno, compresi i festivi. E questo vale per tutte le materie!
Arredi e strumenti? A Barbiana non c’erano “né cattedre, né lavagna, né banchi…Di ogni libro c’era una copia” e tutti i ragazzi si stringevano sopra quel testo unico e prezioso. Oggi noi non abbiamo una cattedra, facciamo lezione dal salotto o dalla cucina di casa nostra, e non sentiamo nostalgia di quell’arredo per molti aspetti superato da tempo. Oggi di libri nei loro zaini ce ne sono fin troppi, solo che ciò che manca pare sia quel desiderio di starci sopra. Mi sembra, cara collega, che quel ‘mutamento antropologico’ di cui parlava Pasolini, si sia veramente compiuto e che abbia veramente fatto i suoi danni. Lui proponeva addirittura di abolirla la scuola media dell’obbligo perché “vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche” (Corriere della Sera, 18 ottobre 1975). Non c’è quel desiderio non perché manchino i maestri, ma perché questi rischiano di parlare per nulla e senza effetto perché sono purtroppo ben altri ‘i libri’ su cui riversano il loro desiderio i ragazzi di oggi, e sappiamo che non sono quelli digitali.
Trascuratezza, lassismo? Neanche per sogno! “La vita era dura” a Barbiana. “Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare”, scrivono sempre quei ragazzi nella loro lettera. Oggi quasi ci passa la voglia di avanzare certe pretese ‘comportamentali’, se solo pensiamo che per un provvedimento di natura disciplinare anche lieve bisogna organizzare una sorta di processo con tanto di convocazioni, di contestazione degli addebiti, di testimoni e di timori per possibili ricorsi da parte delle famiglie!
Ricreazione? Vacanze? A Barbiana “non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica”, ma i ragazzi là non ne facevano un problema, l’alternativa era solo e sempre il lavoro in stalla. Meglio starsene alla scuola del prete, allora. E in ogni caso loro non avevano da far ricreazione neanche a casa.
Ma i ragazzi odiano la scuola! Così si pensa! Non è vero, scrivono ancora gli alunni di don Milani, “che i ragazzi odiano la scuola e amano il gioco”. Per più di metà non era così e, a dire la verità, anche oggi sento, sentiamo tanta nostalgia dei banchi di scuola anche da parte dei nostri alunni, quelli che incontriamo ogni giorno in streaming. C’è un vecchio desiderio, carsico, che si sta come facendo strada, che sta come riaffiorando: il desiderio di apprendere, di conoscere in una compagnia di amici aiutati da un maestro. Certo non è ancora di tutti, ma di sicuro lo è già per la maggior parte. E sappiamo che è anche il nostro.
Studiare per il registro! Copiare i compiti! No, dai! Semmai invitiamoli a studiare insieme, meglio ancora: ad aiutare gli altri nello studio, ad aiutarsi tra coetanei. Non farseli fare dai genitori o da un docente di ripetizioni a pagamento, i compiti. Copiamo da Barbiana dove i ragazzi diventavano presto maestri: don Milani, da solo, non sarebbe sopravvissuto! Tanto lo sappiamo anche noi che “per scorrere un atlante o spiegare le frazioni non occorre una laurea”. Cercavano insieme su quell’unico libro e “le ore passavano serene”. E poi su che libri li facciamo studiare oggi? Su quelli che chiedono ancora a ragazzi di 12-13 anni di sapere i confini di uno stato –e noi pure glieli chiediamo-, anziché le cause delle condizioni di miseria di una popolazione? Quelli che ti propongono ancora l’Iliade nella traduzione di Vincenzo Monti del 1825? L’abbiamo imparata anche noi più di mezzo secolo fa, la ricordi certamente anche tu, cara collega. È rimasta nei libri di oggi tale e quale, come tante altre cose.
C’è poi l’eterna questione delle bocciature. A Barbiana i bocciati alla scuola pubblica andavano alla media ‘privata’ del prete. Per loro sì che il gioco e le vacanze erano un diritto e la scuola un sacrificio, loro “non avevano mai sentito dire che a scuola si va per imparare e che andarci è un privilegio. Il maestro per loro era uno dall’altra parte della barricata e conveniva ingannarlo. Cercavano perfino di copiare”. Ci misero del tempo per capire che non serviva, perché là, a Barbiana, non c’era registro. Noi invece di registri ne abbiamo oggi di onnicomprensivi e pure di elettronici, di quelli che conservano i dati in secula seculorum. Non dovrebbe più scapparci niente, neanche le uscite per il bagno! Ma ti pare! Ci stiamo riducendo a scrivere anche di questo. Per fortuna che nessuno le andrà mai a leggere informazioni così dettagliate!
Però che tristezza se già allora don Milani e i suoi ragazzi dovevano constatare che quelli della scuola pubblica studiavano invece solo “per il registro, per le pagelle, per il diploma”. Erano cioè già arrivisti a 12 anni, perché “il diploma è quattrini”. Anche adesso non è che sia cambiato, ce lo sentiamo dire, anche dalle famiglie, che al voto ci tengono tanto, più dei figli. Quasi li farebbero loro i compiti al posto dei figli (succede, e non raramente!) per far prendere loro un bel voto, spesso lo sentono come un voto dato a loro come genitori. Mi chiedo e dico: possiamo pensarla, solo pensarla diversamente almeno una volta! In tanti paesi con sistemi educativi avanzati (Svezia, Finlandia) li hanno eliminati da tempo i voti! Un ragazzo, ci diciamo spesso, a scuola deve impegnarsi e far bene perché così si fa nella vita, non perché è in continua competizione con il mondo intero!
Cara collega, mi pare che il libro di Barbiana non sia superato e che semmai sia ancora troppo trascurato, ma per ripeterci quanto oggi sia dura per noi docenti mi pare non possano che essere sottoscritte le considerazioni, queste sì attualissime, di Massimo Recalcati che si leggono nel suo libro L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento.
Dice infatti, e non possiamo che essere d’accordo con lui, che “uno dei problemi della scuola oggi è che gli insegnanti sono oppressi per la maggior parte del tempo da mansioni che esulano completamente dall’attività didattica (…). L’ora di lezione (…) è marginalizzata da attività che esulano dalla didattica in senso stretto, schiacciata sotto la pressa di una valutazione sempre più ridotta a misurazione”, in una sorta di “impeto valutativo” che vuole sempre e solo rendere “tutto misurabile e quantificabile”. Degenerazione decimologica della scuola, la definisce, che non fa altro che riflettere “il culto feticistico del numero e della quantificazione che è un idolo imperante del nostro tempo”. Anziché una “scuola centrata sull’erotica dell’insegnamento”, quello cioè che “non inquadra, non uniforma, non produce scolari, ma che “sa animare il desiderio del sapere”, abbiamo sempre davanti come obiettivo una scuola “performativa della trasmissione delle competenze”.
Illusione tecnologico-cognitivista: morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici, esaltazione delle metodologie dell’apprendimento, accanimento valutativo, burocratizzazione fatale della funzione dell’insegnante che deve sempre più rispondere alle esigenze dell’istituzione e non a quella degli allievi, declino dell’ora di lezione”. Queste le conclusioni di Recalcati, da sottoscrivere. Spesso non sappiamo come uscirne, anzi spesso ci sottomettiamo quasi inconsapevolmente a questo meccanismo elefantiaco che riproduce solo e sempre se stesso. Ne abbiamo fatto esperienza in queste settimane, quando non passava giorno che non ci arrivasse o un decreto ministeriale o una circolare o una nota attuativa.
Noi però abbiamo imparato non solo a sopravvivere, e a resistere, ma a farcela in condizioni estreme come quelle di oggi, abbiamo imparato in poche ore a utilizzare strumenti nuovi, a lavorare in modalità sincrone e asincrone, con aule virtuali, teams, zoom, e-learning. Però è chiaro che non vediamo l’ora di tornare a scuola con i nostri colleghi e con i nostri ragazzi per continuare a svolgere il nostro ruolo di intellettuali, non quello di impiegati sempre alle prese con tabulati e schedine da compilare e che nessuno andrà mai a consultare e neanche a contestare. Perché sappiamo che  l’insegnante di cui la scuola ha bisogno è un intellettuale, perché sappiamo che «gli intellettuali oggi possono abitare solo in quella specie di riserva indiana chiamata scuola», più che nell’accademia”, si legge in un articolo di Avvenire del 17 aprile 2020, proprio perché sappiamo che “una cosa è il ruolo e l’altra la funzione dell’insegnante. C’è certamente il ruolo di chi deve sapere riempire un registro, ma c’è soprattutto «la funzione di chi, adempiendo al proprio mandato, accende la coscienza di un adolescente” e spiega perché vale la pena studiare Dante, studiare il teorema di Pitagora, imparare le lingue degli altri, fermarsi ad ammirare un quadro di Van Gogh, ascoltare una suite di Bach, o anche una canzone di Battiato.
Un caro saluto
Bruno Trevellin
(docente di scuola media, con in classe ragazze e ragazzi della stessa età e anche con lo stesso cuore di quelli di Barbiana)

Per approfondire e capire
Due libri:
1.     Lettera a una professoressa, 1967
2.     M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, 2014
Due film:
1.     Vado a scuola, di Pascal Plisson, 2013
2.     Il ragazzo che catturava il vento, di  Chiwetel Ejiofor, 2019 (anche in Netflix)

 

venerdì 10 aprile 2020

Esilio, sofferenza dell’innocente e silenzio di Dio ne La peste di A. Camus (di Bruno Trevellin)


Esilio, sofferenza dell’innocente e silenzio di Dio ne La peste di A. Camus (di BRUNO TREVELLIN)



Albert Camus (1913-1960), premio Nobel per la Letteratura nel 1957, ambienta il suo romanzo La peste (pubblicato nel 1947) a Orano, cittadina sulla costa algerina che non ha nulla di straordianario e che, anzi, definisce fin dall’inizio decisamente “brutta”. È stata costruita avendo addirittura il mare alle spalle anziché in fronte. I cittadini non pensano ad altro che a lavorare per far soldi, interessandosi soprattutto di commerci e di concludere affari. Certo anche loro amano le donne, il cinema, i bagni al mare, ma riservano questi piaceri solo al sabato sera e alla domenica perché in tutti gli altri giorni della settimana non hanno altro in mente che fare soldi, “molti soldi”. I giovani hanno desideri violenti e brevi, mentre gli anziani hanno per vizi le associazioni bocciofile o i giochi d’azzardo.
Fin dall’inizio Camus sottolinea che per conoscere una città, ogni città, è necessario capire come “vi si lavora, come vi si ama e come vi si muore”. Ebbene, a Orano come altrove gli uomini e le donne o si divorano “nell’atto d’amore o s’impegnano in una lunga abitudine a due” e così “in mancanza di tempo e di riflessione”, si ritrovano  costretti ad amarsi senza saperlo. Ma di più originale a Orano c’è la difficoltà o meglio la scomodità del morire. In una città in cui si dà così tanto peso agli affari, in cui anche il clima si caratterizza per i suoi eccessi, bisogna trovarsi sempre in buona salute, perché a Orano “un malato si trova proprio solo” e ancor peggio viene a trovarsi un moribondo.
Proprio una città con queste caratteristiche viene colpita da una terribile peste in un non meglio precisato 194…  La moria di sorci cui si assiste nelle prime pagine ne è il segnale evidente e temuto.
Protagonista del romanzo è il dottor Bernard Rieux che, prudente all’inizio, non ha poi più dubbi che si tratti proprio della peste, anche se poteva essere poco credibile, visto che in Occidente era scomparsa ormai da tempo. La sua reazione cioè fu la stessa dei suoi concittadini, perché i flagelli sono sì una cosa comune, “ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa” e i flagelli, guerre o pestilenze che siano, colgono sempre impreparati gli uomini e così questi continuano a concludere i loro affari e a progettare i loro viaggi, sentendosi ancora liberi, quando invece “nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli”. Anche per lui cioè il pericolo è agli inizi irreale, pur essendo già morto di peste un primo gruppo di malati, anche perché per un dottore “pochi casi non fanno un’epidemia” e poi, se è solo all’inizio, un flagello come la peste lo si può ancora fermare e “tutto sarebbe andato bene. Le stesse misure adottate dalle autorità all’inizio non sono proprio draconiane. Mirando a non preoccupare più di tanto l’opinione pubblica, annunciano che si tratta solo di “una febbre perniciosa” e che non si può ancora dire che sia infettiva. Ma poi il flagello si afferma decisamente, spazzando via ogni perplessità. Viene dichiarato lo stato di peste e Orano viene chiusa. Una volta serrate le sue porte, tutti gli abitanti sono come presi nello stesso sacco e un sentimento così individuale come la separazione da una persona cara diventa di tutto un popolo e “insieme alla paura, la principale sofferenza” di quello che si presenterà come un lungo periodo d’esilio”. Madri figli sposi amanti si videro di colpo allontanati e senza rimedio alcuno, rimanendo solo i telegrammi per comunicare tra di loro e anche questi ridotti in breve a banali formule del tipo: “Sto bene. Penso a te” e null’altro. Anche chi si fosse messo d’impegno a scrivere lettere, dopo le prime sanguinanti parole uscite dal cuore, si ritrovò a ricopiare le stesse lettere che dopo un certo tempo si svuotarono così di significato, al punto che si finì per preferire “il convenzionale appello del telegramma”. Anche la piccola soddisfazione dello scrivere fu cioè negata.
La prima cosa che portò con sé la peste fu l’esilio, il sentimento dell’esilio inteso come quel vuoto che ci si porta dentro e che si traduce nel “il desiderio irragionevole di tornare indietro” o di “affrettare il cammino del tempo”, cercando di venire a patti con lui, col tempo, in una condizione che si rivela essere la stessa del prigioniero, di colui che è ridotto solo al proprio passato. Gli abitanti di Orano finiscono perciò proprio per provare “la profonda sofferenza di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati, che è vivere con una memoria che non serve a nulla”. Ed è un esilio ancora più amaro perché si tratta di un esilio in patria.

Anche le autorità religiose sono chiamate a fare la loro parte. Organizzano una settimana di preghiere collettive, che terminano la domenica con una messa in onore di san Rocco, patrono degli appestati. L’omelia viene affidata a padre Paneluox, gesuita di “natura focosa e appassionata”, studioso di sant’Agostino (Camus si laureò proprio con una tesi sul santo africano). A un uditorio accorso numerosissimo si rivolge “con una sola frase veemente e martellata:
‘Fratelli miei, voi siete nella sventura, fratelli miei, voi lo avete meritato’.

È questo l’incipit della prima predica di Paneluox, cui ne seguirà una seconda, dai risvolti completamente diversi, e ne vedremo il perché. In questa prima ricorda la peste che Dio manda in Egitto per colpire i suoi nemici, per colpire il Faraone che si oppone ai disegni di Dio e che finirà con l’inginocchiarsi davanti a Lui. La peste che ora stanno patendo a Orano non è che la conseguenza dei peccati di chi vi abita. Ma non vuole privare i suoi uditori di ogni sorta di consolazione e ricorda ai fedeli che in fondo a ogni sofferenza c’è un bagliore di eternità che manifesta la volontà divina, che trasforma il male in bene. Insomma, il padre Paneluox vuole spiegare l’origine divina della peste e il carattere punitivo del flagello. Per lui anzi la peste, si dirà più avanti nel testo, non nella predica, “porta un suo beneficio, che apre gli occhi, che costringe a pensare”.
È proprio Paneloux, almeno in questa parte centrale della narrazione, l’altro vero protagonista del romanzo assieme al dottor Rieux. Solo che per Rieux “bisogna essere pazzi, ciechi o vili per rassegnarsi alla peste” e lui non è credente. All’amico Tarrou che gli chiede espressamente se crede in Dio, risponde infatti senza esitazioni:

“No, ma che vuol dire questo? Sono nella notte, e cerco di vederci chiaro. Da molto tempo ho finito di trovare originale la cosa”.

Da molto tempo ormai Rieux ha a che fare con la morte per lasciarsi ancora prendere da quella domanda e pensando a Paneloux, uomo di studio, dice che lui, Paneloux,

“non ha veduto morire abbastanza: per questo parla in nome d’una verità. Ma il minimo prete di campagna, che amministra i suoi parrocchiani e che ha sentito il respiro dei moribondi la pensa come me. Curerebbe la miseria prima di volerne dimostrare la perfezione”.

Ma allora perché un medico come Rieux dimostra così tanta devozione nel seguire gli appestati se non crede in Dio? Rispondendo all’amico Tarrou, disse, in modo quasi irriverente e blasfemo, che:

“se avesse creduto in un Dio onnipotente avrebbe trascurato di guarire gli uomini, lasciandone la cura a lui. Ma che nessuno al mondo, no, nemmeno Paneloux, che credeva di credervi, credeva in un Dio di tal genere; nessuno infatti si abbandonava del tutto, e in questo almeno, lui, Rieux, credeva di essere sulla via della verità, lottando contro la creazione com’essa è”.

È anzi convinto che

“se l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace”.

Questo considera il suo compito nella vita, questa la sua sfida, condurre pur nella consapevolezza che porterà a vittorie solo e sempre provvisorie. Anche la peste per lui, per Rieux, è infatti solo “un’interminabile sconfitta”, come gli ha ben insegnato la miseria, quella miseria che Camus stesso ben conosce perché vissuta concretamente nella fanciullezza e nella giovinezza. Per lui dunque, diversamente da Paneloux e dai molti moralisti che andavano girando allora per Orano, non è questione di mettersi in ginocchio, come invitava a fare nella sua predica Paneloux, ma di impedire al maggior numero di persone di morire e per farlo egli ritiene che non ci sia che un mezzo: combattere la peste.
Rieux però (e Camus con lui) sa che Paneloux è sicuramente migliore di quella sua prima predica e non nega l’evidenza del peccato tra gli uomini. Lo fa attraverso la vecchia madre spagnola di Marcello e Luigi (in cui possiamo riconoscere la madre stessa di Camus, figlia di immigrati spagnoli, rimasta vedova e in miseria quando Albert non aveva che un anno, essendo il padre morto nella prima battaglia della Marna). I due fratelli dovevano far scappare il giornalista Rambert da Orano. Quella loro madre è una donna che va a messa tutte le mattine e che pur dentro l’imperversare della peste continua a conservare la sua serenità. “Vi è del peccato nel mondo” osserva proprio lei “e allora, per forza”. Camus ne fa una descrizione breve ma profonda. È “magra e attiva, vestita di nero, col volto bruno e rugoso sotto i capelli bianchi molto puliti. Silenziosa, sorrideva vivamente con gli occhi”. È questa vecchia signora che non può fare a meno di chiedere a Rambert, che vuole trovare un modo per fuggire dalla città così da ricongiungersi alla donna che ama: “Lei crede nel buon Dio?” per sentirsi rispondere negativamente. Rambert poi però non scapperà, preferirà rimanere a curare gli appestati, sostenendo che partendo avrebbe provato una vergogna che gli avrebbe guastato l’amore per la sua donna.

Ciò che però risulterà scandaloso per Rieux sarà guardare in faccia, a lungo, l’agonia di un innocente e lo farà proprio assieme a Paneloux che aveva scelto di assistere i moribondi nella casa di quarantena.
Siamo all’episodio centrale del romanzo. Prende la peste il figlio del giudice Othon e tutta la famiglia viene messa in quarantena. Il ragazzo viene portato all’ospedale, in una ex aula scolastica con dieci letti. Rieux, assistito da Paneloux, Rambert e Tarrou, non dai genitori del ragazzo che si trovavano appunto in quarantena e separati l’uno dall’altra, giudicò subito il caso disperato. Ma Camus vuole dare una descrizione lunga e particolareggiata di tutte le pene sofferte dal ragazzo.

“Il piccolo corpo si lasciava divorare dall’infezione senza reagire per nulla. Minutissimi bubboni, dolorosi, ma appena formati, bloccavano le articolazioni delle gracili membra. Era un vinto, sin dal principio (…). Con gli occhi chiusi nella faccia scomposta, coi denti stretti sino al limite delle forze, immobile nel corpo, girava e rigirava la testa da dritta a manca, sul capezzale senza lenzuola (…). Il dottore stringeva con forza la sbarra del letto in cui gemeva il ragazzo; non lasciava con gli occhi il piccolo malato, che s’irrigidì all’improvviso e, coi denti di nuovo stretti, s’incavò un poco all’altezza della vita, aprendo lentamente le braccia e le gambe. Dal corpicino, nudo sotto la coperta militare, saliva un odore di lana e d’acre sudore (…). Di bambini, ne avevano ormai veduti morire: il terrore, da mesi non sceglieva affatto; ma non avevano ancora seguito le loro sofferenze minuto per minuto, come stavano facendo dalla mattina. E, beninteso, il dolore inflitto a quegli innocenti non aveva mai finito di sembrarli quello che in verità era, ossia uno scandalo. Ma sino ad allora si erano scandalizzati astrattamente, in qualche modo: mai avevano guardato in faccia, sì a lungo, l’agonia di un innocente”.

Il testo prosegue ancora a lungo nel descrivere l’agonia atroce del ragazzo, in una sofferenza che sembra non voglia mai finire. A un certo punto, non sopportando più quel dolore, il padre Paneloux “guardò quella bocca infantile, insozzata dalla malattia, piena d’un grido di tutti gli evi” e, lasciandosi scivolare in ginocchio, lo sentirono dire:

“Mio Dio, salva questo ragazzo”.

Il ragazzo però non viene salvato, non c’è nessun miracolo. Il suo grido di dolore anzi s’indebolisce un poco alla volta per poi finire “con la bocca aperta, ma muta”, “rimpicciolito di colpo, con resti di lacrime sul viso”. Rieux esausto e incapace di sopportare la scena, uscì dalla stanza non senza aver fatto notare con collera proprio a Paneloux:

“Questo qui, almeno, era innocente, lei lo sa bene!”

Raggiunto da Paneloux, si scusa subito per il tono usato con lui, dicendo che la stanchezza lo faceva impazzire e che ormai c’erano ore in cui non sentiva che la sua rivolta.

“E’ rivoltante in quanto supera la nostra misura. Ma forse dobbiamo amare quello che non possiamo capire”,

gli suggerisce Paneloux, ma Rieux, alzandosi di scatto dalla panca su cui erano seduti, “con tutta la forza e la passione di cui era capace” e scuotendo la testa, gli obbietta che non può essere d’accordo.

“No, padre, io mi faccio un’altra idea dell’amore; e mi rifiuterò sino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati”.

Sul viso di Paneloux a quel punto passò prima un’ombra di rivolta, poi:

“Dottore, -fece con tristezza- ora ho capito quello che chiamano grazia”.

Al che subito Rieux riprende:

“E’ quello che non ho, lo so bene. Ma non voglio discuterne con lei. Noi lavoriamo insieme per qualcosa che riunisce al di là delle bestemmie e delle preghiere. Questo solo è importante”.

Paneloux gli fa notare che anche lui, Rieux, in fondo  “lavora per la salvezza dell’uomo”, ma per il dottore “la salvezza dell’uomo è un’espressione troppo grande” e lui non va così lontano, interessandogli dell’uomo la salute, “prima di tutto la sua salute”.
Paneloux, come Camus, ha studiato sant’Agostino, doctor gratiae, conosce bene la dottrina sulla grazia del vescovo di Ippona (città dell’Algeria come Orano), sa che senza la grazia non c’è salvezza, ma solo ora lo ha anche capito, vedendo non una semplice morte, ma la morte atroce di un ragazzo.

Rieux tuttavia rimase pensieroso,  si scusa per quel suo scatto di prima, assicurandolo che non si ripeterà e Paneloux gli stringe la mano constatando con tristezza che non era riuscito a persuadere il dottore sul fatto che forse dobbiamo amare ciò che non riusciamo a capire.

“Che importa? –disse Rieux- Quello che odio, è la morte e il male, lei lo sa. E che lo voglia o no, noi siamo insieme per sopportarli e combatterli”.
E, trattenendo la mano di Paneloux,

“Lei vede, -disse evitando di guardarlo- Dio stesso ora non ci può separare”.

Sopportare e combattere la morte e il male è ciò che tiene insieme dunque Rieux e Paneloux, il medico e il gesuita, e su questo, il primo ne è certo, neanche Dio li potrà separare. Ma è Paneloux a cambiare, proprio da quel giorno in cui aveva visto e assistito alla morte del ragazzo. Non aveva lasciato il suo lavoro tra gli appestati, mettendosi anzi al primo posto tra quelli che erano impegnati nei soccorsi, “tra i salvatori”, come vengono chiamati, e anzi “gli spettacoli di morte non gli erano mancati” e pur protetto dal siero, non gli era estraneo il pensiero della propria morte. Sarà proprio sotto l’impressione di quel fatto che preparerà la sua seconda predica, quella alla quale invita a essere presente anche Rieux. Si ritrovò con meno uditori della prima volta, non solo perché le persone avevano cominciato a disertare i doveri religiosi o perché si abbandonavano a una vita profondamente immorale, ma soprattutto perché avevano “sostituito le pratiche ordinarie con superstizioni poco ragionevoli”, preferendo per esempio portare medagliette protettive o amuleti di san Rocco anziché andare a messa, oppure facendo ricorso alle profezie, di Nostradamus, di santa Odila.
Parlò dal pulpito con un tono più dolce e riflessivo di quello della prima predica, con anche una certa esitazione e, fatto curioso, non usò più il pronome ‘voi’, ma ‘noi’. Nella predica disse “che non bisognava tentare di spiegarsi lo spettacolo della peste, ma cercare di imparare quello che si poteva imparare” perché ci sono

“cose che si potevano spiegare riguardo a Dio e altre che non si potevano. Certamente vi erano il bene e il male e, in generale, ci si spiegava agevolmente quello che li separava; ma nell’ambito del male cominciava la difficoltà. C’erano, a esempio, il male apparentemente necessario e il male apparentemente inutile. C’erano Don Giovanni sprofondato agli Inferi e la morte di un bambino. Se infatti è giusto che un libertino sia fulminato, non si capisce la sofferenza dell’innocente”.   

La predica è cioè pensata e pronunciata sotto l’influenza dell’episodio del ragazzo morto. Anzi, proprio perché non c’è niente al mondo di più importante della sofferenza di un bambino e dell’orrore che si porta dietro, bisogna trovarne le ragioni. È duro Paneloux duro nella sua seconda predica:

“Fratelli miei, il momento è venuto. Bisogna tutto credere o tutto negare. E chi mai, tra di voi, oserebbe tutto negare?”.

A queste parole Rieux pensò che il padre stesse rasentando l’eresia, ma il prete sa, ci avverte Camus, che “la religione del tempo di peste non poteva essere la religione di tutti i giorni”, quella più indulgente e classica. Per Paneloux è Dio stesso che “negli eccessi della sventura” vuole l’anima eccessiva, mettendo le anime in una sventura tale da obbligarle

“a ritrovare o assumere la più grande virtù, quella del Tutto o Nulla”.

La sofferenza di un bambino era umiliante, ma proprio per questo bisognava entrarci e, cosa non facile da dire per Paneloux, “bisognava volerla in quanto Dio la voleva”. Solo così un cristiano “non avrebbe risparmiato nulla”, solo così “avrebbe scelto di tutto credere per non essere ridotto a tutto negare”, solo così “avrebbe saputo abbandonarsi alla volontà divina, anche se incomprensibile”; non si sarebbe cioè più potuto dire: “Non capisco questo, ma è inaccettabile”, perché invece

“bisognava slanciarsi al cuore di quell’inaccettabile che ci era offerto, e proprio per stabilire la nostra scelta. La sofferenza dei bambini era pane nostro amaro, ma senza questo pane la nostra anima sarebbe perita di fame spirituale”.

Non c’era proprio una via di mezzo nella peste: o si odia Dio o lo si ama. Certo, non si trattava di fare come i cristiani dell’Abissinia di secoli prima, che vedevano nella peste uno strumento per guadagnarsi l’eternità al punto che si avvolgevano nelle lenzuola degli appestati pur di morire ad ogni costo, in una sorta di “furore di salvezza” non raccomandabile. Questo aveva già detto Paneloux nella sua prima predica. E non si doveva neanche arrivare a comportarsi come i monaci del Cairo che, per evitare il contagio, distribuivano la comunione prendendo la particola da mettere in bocca ai fedeli con delle pinzette, in una specie di paura, pur umana, che era arrivata a travolgerli. Bisognava semmai essere come quel monaco di Marsiglia che dopo aver visto morire di peste settantasette confratelli e dopo aver assistito alla fuga di tre di loro scelse di rimanere solo. Lo gridò dal pulpito Paneloux:

“Fratelli miei, bisogna essere colui che resta!”.

Che fare allora? Non ha dubbi Paneloux:

“Bisognava soltanto cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentare di fare il bene. Ma per il resto bisognava restare, e accettare di rimettersene a Dio, anche per la morte dei bambini, e senza cercare un personale ausilio”.

E a tal proposito ricordò, per sé sicuramente, la figura del vescovo Belzunce di Marsiglia che, dopo essersi dato tanto da fare durante la peste, convinto che non ci fosse più rimedio, si fece murare in casa per salvarsi, sollevando l’ira dei suoi fedeli dei quali era stato fino a poco prima l’idolo, al punto che arrivarono a gettargli sopra i muri i corpi morti degli appestati per infettarlo. Aveva cioè voluto, in un momento di debolezza, isolarsi dal mondo della morte e i morti, per contrappasso, finirono per cadergli addosso. Quel vescovo, pur così premuroso, non aveva ancora capito “che non c’è isola nella peste”.  

“Fratelli miei, -disse infine Paneloux, annunciando che stava per concludere- l’amore di Dio è un amore difficile: suppone un totale abbandono di se stessi e lo sdegno per la propria persona. Ma lui solo può cancellare la sofferenza e la morte dei bambini, lui solo in ogni caso può renderla necessaria, in quanto è impossibile capirla e non si può che volerla. Ecco la difficile lezione che volevo dividere con voi; ecco la fede, crudele agli occhi degli uomini, decisiva agli occhi di Dio, a cui bisogna avvicinarsi (…) la verità sorgerà dall’ingiustizia apparente”.

Termina la sua omelia ricordando che è proprio per questo che in molte chiese del sud della Francia “gli appestati dormono da secoli sotto le lastre del coro e i preti parlano al disopra dei loro sepolcri, e lo spirito ch’essi propagano sorge da quella cenere a cui anche i bambini hanno portato la loro parte”.

Ma che predica è questa di Paneloux? Soprattutto, cosa voleva dire? Appena fuori di chiesa Rieux ha modo di sentire i commenti di un vecchio prete e di un giovane diacono. Il primo elogia l’eloquenza del gesuita, ma critica l’arditezza del suo pensiero che rischia di provocare “più inquietudine che forza”. Il diacono dice di conoscere bene il padre Paneloux ed è convinto che, conoscendone l’evoluzione del pensiero, si sarebbe fatto ancora più ardito, al punto da non ricevere l’imprimatur. In particolare, il diacono si è fatto l’idea che è una contraddizione che un prete consulti un medico. Chi però sembra aver colto nel segno le parole della predica è Tarrou, informato da Rieux su quello che era stato il discorso di quella seconda omelia. Tarrou, che conosce un prete che aveva perso la fede dopo aver visto in guerra “il volto di un giovane con gli occhi crepati”, non ha dubbi.

“Paneloux ha ragione –disse Tarrou- quando all’innocenza fanno crepare gli cchi, un cristiano deve perdere la fede o accettare che crepino gli occhi anche a lui. Paneloux non vuole perdere la fede, andrà sino in fondo. Questo ha voluto dire”.

Osservazione questa che consentirà di capire ciò che accadrà successivamente nel comportamento di Paneloux che “sembrò incomprensibile” a quanti gli stavano vicino.  Si ammala, ha la febbre, ma non è la peste, lui ne conosce bene i sintomi. La vecchia signora presso la quale è ospite (“frequentatrice di chiese e ancora immune alla peste”) gli propone di chiamare un medico, insistentemente e ripetutamente, ma lui rifiuta. Una mattina però si ritrovò in condizioni pietose e chiese di essere portato all’ospedale, dove lo raggiunse Rieux. Il dottore constatò che non aveva nessuno dei sintomi della peste, ma nel dubbio lo doveva isolare. In ogni caso gli sarebbe stato vicino, e glielo disse “con dolcezza”. Paneloux lo guardò, quindi

“sillabò difficilmente, in modo ch’era impossibile sapere se lo dicesse con tristezza o no: ‘Grazie. Ma i religiosi non hanno amici; essi hanno posto ogni cosa in Dio’.

Si fece poi dare il crocifisso che stava a capo del letto e non lo lasciò più. “La mattina del giorno dopo lo trovarono morto, quasi riverso fuori dal letto, il suo sguardo non esprimeva nulla. Sulla sua scheda fu scritto: ‘Caso dubbio’. La sua sembra quasi una morte in parallelo con quella del ragazzo, morto  anch’egli all’ospedale in isolamento e “nella buca delle coperte in disordine, rimpicciolito di colpo”.

Poteva finire anche a questo punto il romanzo di Camus, e l’autore stesso ce lo lascia quasi intendere. Lo fa scrivere quale cronaca  dei fatti al dottor Rieux, “testimone fedele” e consapevole “che non c’era una sola sofferenza sua che non fosse anche quella degli altri” e che “decisamente, egli doveva parlare per tutti”. Solo di uno però non poteva parlare, di Paneloux, riconoscendo che è giusto “che la cronaca termini su di lui, che aveva un cuore ignaro, ossia solitario”.

Rieux scrive

“per non essere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza che gli erano state fatte, e per dire semplicemente quello che si impara in mezzo ai flagelli, e che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”.

Ma sa anche che la sua non sarà mai la cronaca di una vittoria definitiva, ma solo la testimonianza di quanto avrebbero dovuto ancora fare “tutti gli uomini che non potendo essere santi e rifiutandosi di ammettere i flagelli, si sforzano di essere dei medici”. Chiamato a testimoniare una sorta di delitto, il medico si è messo cioè dalla parte della vittima, unendosi ai suoi concittadini nelle tre sole certezze comuni: l’amore, la sofferenza, l’esilio.
Certo, arriva anche la fine della pestilenza e nella città di Orano si levano gridi di allegria, ma Rieux è consapevole che si tratta di un’allegria che è sempre minacciata. Lui medico sa, diversamente dalla folla, “che il bacillo della peste non muore né scompare mai”, sa che può restarsene come addormentato per decine di anni ad aspettare paziente in camere, cantine, valige, e proprio per questo sa che potrà sempre arrivare un giorno in cui,

“sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi sorci per mandarli a morire in una città felice”.

Certezza, e profezia, quella finale del dottor Rieux che non lascia spazio a illusioni. La peste, cioè il Male, sta sempre in agguato, pronta a seminare terrore e morte. Del resto cosa “vuol dire la peste? È la vita, ecco tutto”. [1]

NOTA FINALE
Camus conosce per esperienza l’assurdità del Male. Giovanissimo viene colpito dalla tubercolosi, all’epoca inguaribile, malattia che lo costringerà a lasciare le sue due vere passioni, il calcio (era un promettente portiere, al punto che ne La peste non può fare a meno di creare un personaggio, minore, Gonzales, esperto centro-mediano, di quelli cioè che hanno come compito “distribuire il gioco”) e il teatro (Camus giovane era anche attore). E altrettanto assurda dobbiamo considerare la sua stessa fine, avvenuta per incidente stradale con l’editore Michel Gallimard, che stava alla guida, morte che lui aveva considerato tra le più assurde che potessero capitargli, anche se per quella morte fu avanzata l’ipotesi che dietro ci fosse la mano del KGB per le sue ripetute denunce dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Tra l’altro Camus per quel viaggio si era procurato il biglietto per farlo in treno anziché in auto.




[1] Saggio elaborato sulla IV edizione Bombiani del 1957