John
Ruskin e l’insolito ateismo dei Fini, signori di Limena, sulla facciata di San
Moisè a Venezia
di Bruno Trevellin
John Ruskin (1819-1900),
docente di Storia dell’Arte a Oxford, nel suo libro più famoso Le pietre di Venezia (1852)[1]
si occupa brevemente della chiesa del San Moisè, la cui facciata marmorea venne
realizzata nel 1668 da Enrico Meyring su disegno dell’architetto Alessandro
Tremignon per volontà della famiglia Fini quale monumento sepolcrale della
stessa. I Fini erano tra le famiglie più in vista della Serenissima,[2] proprietari di un notevole palazzo sul Canal
Grande e di una villa padronale con vasti possedimenti terrieri a Limena (oltre
1300 campi, circa un terzo dell’attuale territorio comunale).[3]
Ebbene, Ruskin in questo sua
opera, omaggio al suo amore infelice per Venezia, città morta, che ha
influenzato tra gli altri Proust, Mann, Visconti, non usa mezzi termini per
definire questa facciata “volgare” e “come manifestazione d’insolito ateismo”
oltre che come “culmine d’ogni follia architettonica”, dedicata al culto di una
famiglia anziché a Dio. Ancor più taglienti sono stati i giudizi di
Pietro Selvatico, di Jacob Burckkardt, di Alvise Piero Zorzi.[4]
Su di essa, tra putti e
ornamenti floreali, dominano a sinistra il busto di Girolamo Fini, a destra
quello del nipote Vincenzo e al centro su di un obelisco quello del capo
famiglia Vincenzo Fini “con relative lapidi indicanti onori e uffici, meriti
civili munificenza religiosa e le date di morte a memoria perenne di gloria. Le
figure di cammelli sopra la porta centrale indicano le vie del loro mercato”.[5]
Inoltre, la figura della Fama che suona la tromba sembra voler proclamare nei
secoli la loro gloria. Il busto di Vincenzo reca l’iscrizione: omne fastigium implet Vincentius Fini
(Vincenzo Fini riempie di virtù ogni fastigio). Simile nella volontà
celebrativa doveva essere anche l’iscrizione posta sul frontone della villa
limenese che col suo fermo annuncio: nondum
finis voleva dichiarare al mondo il
destino perpetuo della potente famiglia.[6]
Sappiamo come andò a finire.
La villa limenese scomparsa, le proprietà terriere vendute nel 1813 dalla
vedova di Girolamo Vincenzo Fini per il sostentamento della famiglia e per
l’educazione dei figli,[7]
il palazzo sul Canal Grande, dopo la caduta della Serenissima, prima frazionato
e affittato, poi definitivamente venduto e trasformato in Grand Hotel e dal
1972 proprietà della RegioneVeneto.
(Tomba sepolcrale di Girolamo Fini in San Moisè)
[1] JOHN RUSKIN, Le pietre di Venezia, Milano, 2019, pag. 334
[2] “Vincenzo Fini (1606-1660), appartenente a una nobile famiglia di origine cretese, a Venezia divenne in breve tempo un avvocato di successo. Nel 1649 ottenne che la sua famiglia fosse iscritta nel Libro d’oro della nobiltà veneta, sborsando 100 mila ducati. In Maggior Consiglio molti furono i voti contrari come i commenti sprezzanti nei confronti di questo avvocato cretese, che pretendeva di entrare nel novero della nobiltà veneziana, ma la grave situazione in cui versavano le casse dello stato obbligò i boriosi patrizi ad acconsentire. Nel 1658 Vincenzo ottenne con supplica al doge anche l’importante carica di Procuratore de citra (la più alta carica dopo quella del doge) pagando altri 100 mila ducati (di solito erano sufficienti 20 mila)”. La facciata venne finanziata con un primo lascito testamentario di 30 mila ducati da Vincenzo e con un secondo di 60 mila da Girolamo. Citazione da ALESSANDRO BULLO, La facciata di San Moisè, 2017 (https://www.venicecafe.it/la-facciata-di-san-moise/)
[3] RENATO MARTINELLO, L’oratorio della Beata Vergine del rosario a Limena, Padova, 1993, pag. 4
[4] Per il
Selvatico è “il culmine d’ogni architettonica follia, sregolatezza di una
meschina mente a cui manca l’ingegno e per il Burckhardt non si tratta di “vera
architettura, bensì di lavori di ebanisteria eseguiti in marmo” (BULLO)
[5] ATTILIO COSTANTINI, Chiesa di San Moisè, Genova, 2007, pag. 4
[6] MARTINELLO, pag. 5
[7] MARTINELLO, pag. 9-10