Dibattito. Da Arendt a Morin: il Sessantotto fra critica e
autocritica
Carlo Cardia venerdì
3 agosto 2018
È il classico “evento-sfinge” che ha molte facce e
talvolta in contrasto tra loro, come dimostrano i giudizi dell’epoca in autori
come Arendt, Morin, Glucksmann, Badiou
Parigi, uno studente
lancia una pietra contro la polizia nel maggio 1968 (AP Photo)
L’errore più comune, nelle
commemorazioni del 68, è di volerlo chiudere in definizioni totalizzanti,
delinearne i caratteri essenziali, chiedersi cos’è rimasto di quel movimento
decenni dopo. È una tentazione irresistibile, ma proprio per questo da evitare.
Contrariamente a quanto si sostiene, il 68 è un evento attorno al quale ha
ruotato un’epoca con protagonisti molteplici e in cui si mischiano non violenza
e violenza estrema, idealità e opportunismo puro, che ha spinto a chiedere
palingenesi immaginarie e a dichiararsi poi maoisti estremi, a volere tutto e
il contrario di tutto.
André Glucksmann: il '68 come sogno a occhi aperti
È più utile riflettere qua e là con
i protagonisti più vivaci, e pronti al cambiamento, come André Glucksmann,
che vollero evitare le celebrazioni, con «le prevedibili enfasi e i racconti
degli ex-combattenti», proponendo, «per un’ora, o per il tempo di un sogno a
occhi aperti, di attingere alla fonte dell’evento, alla cascata d’impertinenza,
di rabbia ironica, di fraternità erudita che, cinquant’anni fa, guidarono le
barricate entusiaste, gli anfiteatri in rivolta e i giorni di follia in cui
Parigi piombò in un’atmosfera flaubertiana di educazione sentimentale».
Glucksmann ha visto il 68 come un
mischiarsi di sentimenti, d’infinite contraddizioni, e non senza graffiare un
po’ verso le presunzioni ermeneutiche, ricordando alle femministe che
«Catherine Deneuve, con i suoi film, ha allentato il giogo delle donne più di
quanto esse non riusciranno a fare con i loro dibattiti collerici».
Invece, da questa non-definibilità,
che alcuni protagonisti rivivono con la memoria della giovinezza, meravigliosa
eppur ingannevole, si può tratteggiare qualche tratto dell’epoca che ruota
attorno al 68. Per esempio, raramente si ricorda che mentre molti giovani
invocavano mutamenti rivoluzionari, metastorici, e riempivano sé stessi con la
retorica, l’entusiasmo e con scivolamenti nella violenza, tutto intorno (per
loro merito, e/o nonostante loro) si moveva un oceano di riformismo, di
mutamenti nel costume, nel lavoro, nella Chiesa e nelle religioni. E questa
volontà riformatrice, per un primo inarrivabile paradosso, suscitò reazioni
inconsulte proprio in molti di coloro che volevano cambiare tutto.
Hannah Arendt: fu vera rivoluzione?
Per cogliere qualche scorcio dei
tanti 68 che hanno coesistito a lungo, si può guardare con gli occhi di chi ha
vissuto la parabola degli anni 70, e ha saputo già allora scrutarne le
antinomie. A cominciare da Hannah Arendt, che ha dedicato al 68 più di
un’analisi profetica, di recente riproposta in un prezioso saggio di Eugenia
Lamedica, che fa riflettere più di tanti ricordi personali ( Hannah Arendt e
il 68, Jaca Book, pagine 128, euro 16,00).
Per la filosofa-scrittrice il 68
nasce dalla «crisi della politica», mette «a nudo la vulnerabilità dell’intero
sistema politico, rapidamente disintegratosi davanti agli occhi attoniti dei
giovani ribelli». Mentre questi volevano solo «sfidare il sistema universitario
fossilizzato» in realtà «cadde il sistema del potere governativo, assieme a
quello delle imponenti burocrazie di partito», si verificò insomma ciò che i
marxisti avrebbero chiamato una «situazione rivoluzionaria».
Ma il 68 fu una rivoluzione? La domanda preannuncia già la risposta, e chiede
molto realismo. Se Ernst Bloch affermava che i giovani ribelli stavano dando
«un contributo importante » alla storia delle rivoluzioni, soprattutto di
quelle a venire, l’Arendt rispondeva che
mancava loro un prerequisito fondamentale: «un gruppo di veri rivoluzionari.
Proprio quello che agli studenti della sinistra piacerebbe moltissimo essere ma
che non sono affatto». Ha simpatia per il movimento, l’«alto contenuto morale»
della protesta, ma diffida subito della compassione come virtù rivoluzionaria e
ricorda che questa aveva portato nell’89 francese e nel 17 bolscevico alle più
atroci stragi compiute in nome dell’umanità.
Soprattutto, la Arendt privilegia la contestazione dei giovani americani rispetto a
quelli europei, ricorda le due basi che legittimavano una rivolta morale e
giuridica, anzitutto la “scoperta” della base razziale della democrazia
americana: l’esclusione dei neri e degli indiami d’America dal consensus
iuris che aveva dato vita prima al corpo politico delle colonie e poi a
quello della Federazione. E Jefferson era così convinto di questa pecca
originaria che dichiarò: «Tremo all’idea che Dio sia giusto».
L’altra pecca riguardava l’orizzonte
in cui era chiusa la ricerca scientifica, tutta piegata a permettere agli
uomini di poter vincere le guerre perché «non è rimasta neanche una maledetta
cosa che uno possa esser e fare che non possa venire trasformata in guerra».
Infine, la cultura americana professava l’ideale del benessere, per il quale
dopo il fallimento del pauperismo, che alimenta sempre le ideologie marxiste,
il commercio avrebbe vinto e avrebbe diffuso ricchezza in una società che non
aspettava altro.
Hannah Arendt, allora, condivide lo spirito della contestazione, avendo già
criticato nel suo Vita activa il comportamentismo delle scienze sociali
che «si propongono di ridurre tutto l’uomo, in tutte le sue attività, a livello
di un animale condizionato, che si comporta in modo prevedibile».
Si radica qui, in un movimento senza
futuro, quel “ribellismo esistenziale” che porta i giovani a sempre nuove
esperienze, allucinogeni, comunità di eguali, non violenza, libero amore, come
un cocktail di bene e di male inestricabile, ma che produrrà altri danni. Così,
il movimento studentesco colpisce la Arendt per il suo tratto distintivo
rispetto a tutte le altre generazioni, per la «sua determinazione ad agire, la
sua gioia nell’azione, la sicurezza di essere capaci di cambiare le cose grazie
ai propri sforzi». Quanto agli obiettivi, opinioni, dottrine, la critica è
senza appello: «la sterilità teoretica e
l’ottusità analitica (del) movimento sono sorprendenti e deprimenti tanto
quanto è gradita la sua gioia nell’azione».
Insomma, la Arendt è un po’
sessantottina solo quando dice che la nuova generazione agisce per una spinta
morale iniziale, e perché con essa si scopre che «agire è divertente».
Ma il suo andirivieni critico non
finisce qui. Esprime ancora ammirazione per il fatto che il 68 legittima la
disobbedienza civile come strumento di cambiamento della società, del diritto,
del costume, e che questa innovazione è quanto di più legato allo “spirito
americano” possa esistere. Infatti la difficoltà a incorporare la disobbedienza
non è nello spirito americano, bensì «nella natura stessa del diritto», perché
la «legge non può giustificare la violazione della legge».
Così, senza citarlo, si evoca Henri
Bergson che individua la dialettica tra morale e diritto nel fatto che l’etica
traccia i nuovi orizzonti, e il diritto (conservatore di natura) resiste, ma
non più di tanto perché all’improvviso matura una svolta e, per la splendida
immagine di Kirchmann. ogni grande riforma manda al macero intere biblioteche
giuridiche.
Edgar Morin e «l'estasi della storia»
Per parte sua Edgar Morin,
anch’egli compartecipe degli eventi del 68, vive momenti esaltanti come
professore, per esempio quando dovendo fare una lezione agli studenti che
occupano l’università di Nanterre chiede loro il permesso democratico: la
maggioranza è per il sì, ma poi uno studente gli toglie la luce, e deve
rinunciare alla lezione.
Morin è commentatore e interprete
del 68 e ancora oggi, in un libretto dove rilegge alcuni suoi saggi (Maggio
68. La Breccia, Cortina, pagine 128, euro 11,00), concorda con Hannah
Arendt sulla spinta vitalistica del 68 che legge come “una breccia” nel muro
dell’ordine costituito dell’epoca, come una “crisi spirituale” che realizza
combinazioni singolari, quasi un «transfert di fede» tra ciò che era
all’inizio, rivolta ideale, comunismo libertario, e l’ingabbiamento finale in
dottrine maoiste, vetero-marxiste, che lo fanno morire anzitempo.
Morin propone una riflessione di
secondo livello, e nel 1978 capisce che nel decennio trascorso da un lato
«tutto era cambiato, ma dall’altro, nulla era cambiato, perché da allora
nascono tanti fenomeni nuovi, e novissimi, ma che non possono essere addebitati
al 68: femminismo, movimento degli omosessuali, ecologismo, il soggettivismo
estremo e via di seguito. In realtà, stando ai fatti, negli anni 70 si
determina “la perdita di una speranza” con la pax sovietica, il maoismo
rivela il suo volto, la burocrazia uccide le rivoluzioni, e via di seguito ».
Di qui la lettura più originale di Edgar Morin. Il 68 è stato un evento
simbolico di crisi di una civiltà in cui affiorano aspirazioni profonde, quasi
antropologiche, che appassiscono, o si rovesciano nel loro opposto, ma che
rinasceranno in altra forma, in una visione ciclica senza fine. Allora, va bene
l’intuizione di Ionesco che gridò agli
studenti parigini: tranquilli, tanto «vous serez tous de notaires»,
sarete tutti notai; ma vanno bene altre intuizioni, purché si colga
l’elemento esistenziale, transeunte, del 68, e si vedano i frammenti che appaiono
e scompaiono in un caleidoscopio continuo.
Brillanti altri rilievi di Morin,
sulle incongruenze del movimento rispetto alle teorie e dottrine dominanti,
gauchismo e maoismo utilizzati come prêt-à-porter. E decisivo il
giudizio sulla significanza del 68 come “evento-sfinge” dell’epoca, che si
presenta con esplosioni di gioia e sentimenti di fraternizzazione universale,
addirittura come «estasi della storia», cioè «uno di quei momenti in cui la
prosa delle cronologia, il senso di soffocamento quotidiano si sospendono», ma
che vive presto la realtà triste del settarismo, il rancore, la spinta alla
violenza, tutto e il contrario di tutto che impedisce ogni lettura univoca.
Alain Badiou e l'inutile attualità del '68
Per paradosso spetta ad Alain
Badiou sognare ancora il 68 ma ribadirne l’inutilità delle “commemorazioni”
in un breve scritto (Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68,
Orthotes, pagine 114, euro 14,00). Per Badiou alcuni lo ricordano «perché siamo
sicuri che è morto, 50 anni dopo esso non dà più segni di vita», altri vi
vedono il trionfo dell’individualismo che apre le porte al capitalismo sfrenato
e a una glorificazione della beata “democrazia” con i suoi epigoni, davvero
vincenti, della realizzazione del capitalismo postmoderno e nel suo universo
variopinto di consumi; quindi, il prodotto dialettico del maggio 68 sarebbe
proprio Sarkozy, «cioè lo Stato di diritto difeso e coraggiosamente dall’armata
americana e dalla polizia repubblicana contro i barbari russi o cinesi per non
dimenticare i violenti musulmani e i loro terroristi».
Insomma, bisognerebbe ricominciare
daccapo con un nuovo 68. Un giudizio che non rasserena nessuno, tranne gli
storici che vogliono continuare a leggere il passato. (1, continua)
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