martedì 2 marzo 2021

John Ruskin e l’insolito ateismo dei Fini, signori di Limena, sulla facciata di San Moisè a Venezia (di Bruno Trevellin)

 

John Ruskin e l’insolito ateismo dei Fini, signori di Limena, sulla facciata di San Moisè a Venezia

di Bruno Trevellin



John Ruskin (1819-1900), docente di Storia dell’Arte a Oxford, nel suo libro più famoso Le pietre di Venezia (1852)[1] si occupa brevemente della chiesa del San Moisè, la cui facciata marmorea venne realizzata nel 1668 da Enrico Meyring su disegno dell’architetto Alessandro Tremignon per volontà della famiglia Fini quale monumento sepolcrale della stessa. I Fini erano tra le famiglie più in vista della Serenissima,[2]  proprietari di un notevole palazzo sul Canal Grande e di una villa padronale con vasti possedimenti terrieri a Limena (oltre 1300 campi, circa un terzo dell’attuale territorio comunale).[3]

Ebbene, Ruskin in questo sua opera, omaggio al suo amore infelice per Venezia, città morta, che ha influenzato tra gli altri Proust, Mann, Visconti, non usa mezzi termini per definire questa facciata “volgare” e “come manifestazione d’insolito ateismo” oltre che come “culmine d’ogni follia architettonica”, dedicata al culto di una famiglia anziché a Dio. Ancor più taglienti sono stati i giudizi di Pietro Selvatico, di Jacob Burckkardt, di Alvise Piero Zorzi.[4]

Su di essa, tra putti e ornamenti floreali, dominano a sinistra il busto di Girolamo Fini, a destra quello del nipote Vincenzo e al centro su di un obelisco quello del capo famiglia Vincenzo Fini “con relative lapidi indicanti onori e uffici, meriti civili munificenza religiosa e le date di morte a memoria perenne di gloria. Le figure di cammelli sopra la porta centrale indicano le vie del loro mercato”.[5] Inoltre, la figura della Fama che suona la tromba sembra voler proclamare nei secoli la loro gloria. Il busto di Vincenzo reca l’iscrizione: omne fastigium implet Vincentius Fini (Vincenzo Fini riempie di virtù ogni fastigio). Simile nella volontà celebrativa doveva essere anche l’iscrizione posta sul frontone della villa limenese che col suo fermo annuncio: nondum finis voleva dichiarare al  mondo il destino perpetuo della potente famiglia.[6]

Sappiamo come andò a finire. La villa limenese scomparsa, le proprietà terriere vendute nel 1813 dalla vedova di Girolamo Vincenzo Fini per il sostentamento della famiglia e per l’educazione dei figli,[7] il palazzo sul Canal Grande, dopo la caduta della Serenissima, prima frazionato e affittato, poi definitivamente venduto e trasformato in Grand Hotel e dal 1972 proprietà della RegioneVeneto.


(Tomba sepolcrale di Girolamo Fini in San Moisè)



[1] JOHN RUSKIN, Le pietre di Venezia, Milano, 2019, pag. 334

[2] “Vincenzo Fini (1606-1660), appartenente a una nobile famiglia di origine cretese, a Venezia divenne in breve tempo un avvocato di successo. Nel 1649 ottenne che la sua famiglia fosse iscritta nel Libro d’oro della nobiltà veneta, sborsando 100 mila ducati. In Maggior Consiglio molti furono i voti contrari come i commenti sprezzanti nei confronti di questo avvocato cretese, che pretendeva di entrare nel novero della nobiltà veneziana, ma la grave situazione in cui versavano le casse dello stato obbligò i boriosi patrizi ad acconsentire. Nel 1658 Vincenzo ottenne con supplica al doge anche l’importante carica di Procuratore de citra (la più alta carica dopo quella del doge) pagando altri 100 mila ducati (di solito erano sufficienti 20 mila)”. La facciata venne finanziata con un primo lascito testamentario di 30 mila ducati da Vincenzo e con un secondo di 60 mila da Girolamo. Citazione da ALESSANDRO BULLO, La facciata di San Moisè, 2017 (https://www.venicecafe.it/la-facciata-di-san-moise/)

[3] RENATO MARTINELLO, L’oratorio della Beata Vergine del rosario a Limena, Padova, 1993, pag. 4

[4] Per il Selvatico è “il culmine d’ogni architettonica follia, sregolatezza di una meschina mente a cui manca l’ingegno e per il Burckhardt non si tratta di “vera architettura, bensì di lavori di ebanisteria eseguiti in marmo” (BULLO)

[5] ATTILIO COSTANTINI, Chiesa di San Moisè, Genova, 2007, pag. 4

[6] MARTINELLO, pag. 5

[7] MARTINELLO, pag. 9-10


venerdì 29 gennaio 2021

UN RAGAZZO NEL LAGER, di Bruno Trevellin. L'intervista

 

UN RAGAZZO NEL LAGER, di Bruno Trevellin

 

Intervista rilasciata da Nicolò Piccolo, limenese, deportato nel ’43 a 19 anni nel lager di Allendorf. Fu uno dei 600 mila soldati italiani che dissero ‘no’ al rimpatrio come combattenti nelle milizie nazi-fasciste

 


(Nicolò Piccolo a 19 anni)



(Nicolò Piccolo, 97 anni,  nella sua casa di via Buonarroti a Limena)

 

Il signor Piccolo è oggi ancora ben cosciente e conserva ricordi vivissimi del periodo vissuto in prigionia.

 

Signor Piccolo, a che età è stato chiamato alle armi e come è finito ad Allendorf?

Il 24 maggio del ’43, all’età di diciannove anni, venni arruolato nel XXI Guardia alla Frontiera di stanza in Friuli, a Cividale. Portavamo un cappello come quello degli alpini, ma senza la penna. L’8 settembre, dopo una breve sparatoria, fummo catturati dai Tedeschi e trasferiti a Gorizia. Alla consegna delle armi, venimmo da loro derisi perché dicevano che noi Italiani non sapevamo proprio portarle le armi, visto che i nostri fucili non erano per niente puliti e oliati come i loro. Caricati su un treno bestiame ‘sigillato’, dopo tre giorni di viaggio, arrivammo al campo di concentramento di Allendorf, passando per Monaco di Baviera.

Che lavoro eravate costretti a fare?

Lavoravamo in una fabbrica di armi, tutti i giorni, senza riposo, ‘da buio a buio’. Solo dopo molto tempo ci venne concesso il riposo domenicale. Ricordo che le bombe fabbricate, il nostro lavoro consisteva principalmente nel riempire granate, venivano accatastate in grandi quantità. Ce n’erano di vario tipo e dimensioni.

Signor Piccolo, lei è partito per la guerra che pesava più di 70 kg. ed è ritornato ridotto a 39. Qual era l’alimentazione di voi prigionieri ad Allendorf?

Ci davano una brodaglia molto annacquata, che ci versavano dentro un bussolotto di metallo. Una volta che ebbi l’ardire di osservare che dentro non c’era neanche una patata (glielo dissi in veneto: “Ma gnanca ‘na patata!”), mi venne tolto il bussolotto e fui accusato di essere un badogliano, cioè un traditore della Germania, perché Badoglio aveva firmato l’Armistizio. Ma il cibo principale erano le bucce di patate e gli avanzi della mensa dei Tedeschi. La ‘caccia’ al cibo era il pensiero quotidiano. Arrivavamo a frugare (‘a rumare’, precisa) nei letamai, proprio come fanno le galline pur di recuperare qualcosa da mettere in bocca. Quando uscivamo dal campo in fila per andare a lavorare, chi stava davanti rubava il piatto con gli ossi che davano ai cani e qualche volta sono riuscito anch’io a rubare al cane gli ossi congelati, mettendoli sotto la giacca. E più avanti, quando ci concessero di uscire dal campo, andavamo a carità dalle famiglie del posto. Abbiamo trovato persone buone, ci davano brodo, a volte carne. Si rubava anche qualcosa in giro, polli specialmente. La fame era sempre tanta. Una volta i Tedeschi avevano portato me e un altro prigioniero in mezzo al fiume congelato, largo come il nostro Brenta, e noi dovevamo spaccare il ghiaccio per far scorrere l’acqua. Loro col fucile puntato hanno fatto marcia indietro e ci hanno lasciato lì in mezzo al fiume. La paura di annegare era tanta! Ma abbiamo anche pensato che volessero ammazzarci lì sul posto. Mentre uno spaccava e l’altro faceva leva sul ghiaccio, ho trovato un piccolo pesce congelato. Ero stato fortunato! l’ho preso e messo in bocca così com’era.

Parliamo degli alloggi, della condizione igienico-sanitaria.

Si dormiva in baracche, in letti a castello. Io dormivo in alto sul terzo ripiano. In mezzo a cimici e pidocchi. In due anni ci fecero fare un’unica doccia sotto un’acqua bollente. Non ho mai visto medici, anche perché, per fortuna, sono sempre stato bene. Nel campo c’era un’infermeria, ma per modo di dire. Basti pensare che al posto delle garze veniva usata una sorta di carta assorbente.

Che vestiario, che scarpe avevate?

Stracci, solo stracci. Al posto delle scarpe, avevamo zoccoli di legno e come calzini usavamo stracci che avvolgevamo attorno ai piedi.

Ricorda in particolare qualche compagno di prigionia? Che rapporto c’era tra voi?

Io ero con uno di Ancona, con uno che poi si è stabilito in Germania e con Elio Visintini, un friulano che sono andato anche a trovare a casa sua. Tra prigionieri si era tutti come fratelli.

È mai stato messo in carcere?

Ho fatto un mese in un carcere delle SS perché avevo osato saltare il turno di lavoro in un giorno di festa, di una grande festa (non ricorda se Natale o Pasqua). Mi presi un pugno terribile in bocca dalla guardia tedesca che mi spaccò i denti e che mi fece così male che ancora mi pare di sentirlo. Quella volta temevo che mi uccidessero, invece dopo un mese mi fecero rientrare al campo per necessità lavorative.

Gli era stato proposto di rientrare in Italia, arruolandosi nell’esercito della RSI (Repubblica Sociale Italiana)?

Certo, ma rifiutai, come fecero quasi tutti. Ho preferito restare nel campo di prigionia, piuttosto che rientrare ed essere costretto a combattere in Italia contro i nostri.

Avevate la possibilità di comunicare con i familiari?

No, sono stato un anno e mezzo senza avere notizie di casa, poi mi fu concesso di scrivere due volte, ma da casa non ho mai ricevuto nessuna lettera, nessuna informazione. Da casa ho ricevuto solo due pacchi, perché gli altri me li hanno rubati. Mio papà si faceva fare una cassettina di legno da Milieto Piva, che era falegname, e quando arrivava il pacco con dentro il pane biscotto, lo mangiavamo tutti assieme. I pacchi li tenevo nascosti nella lavanderia.

 Aveva dei soldi quando arrivò al campo? Vi davano una paga?

Avevo 150 lire di carta che arrotolai per bene e che nascosi dentro la fessura di una trave della baracca, ma quel mio nascondiglio venne scoperto quasi subito da una guardia che mi rubò i soldi. In Germania mai visto paga. Quando si era ancora in Friuli, a Cividale e a Piedicolle, ci davano la paga militare di 40 centesimi al giorno, ma non potevamo spendere niente, così li ho risparmiati, ma finirono nelle mani dei tedeschi.

Nel campo c’era una chiesa per i prigionieri italiani? Si pregava in quelle condizioni?

No, non c’era. In due anni non ho mai visto un prete e non sono mai stato a una messa. Nei paesi vicini c’erano chiese protestanti e chiese cattoliche. Avevamo imparato a distinguerle perché sul campanile di quelle protestanti c’era una banderuola con un gallo e su quello delle chiese cattoliche una croce. Avrò anche pregato qualche volta, ma tutti avevamo solo in mente di mangiare, avevamo fame.

 Piangeva?

Piangevo sempre la sera, quando non c’era nulla da mangiare e avevo fame.

 Vi arrivavano informazioni su come stava andando la guerra?

Un sergente ci teneva informati su come stava andando la guerra. Ovviamente le informazioni viaggiavano attraverso ‘radio scarpa’ o attraverso ‘radio reticolato’, così chiamavamo quel nostro sistema di comunicazione, quello cioè del passaparola.

 C’erano altri campi di concentramento vicino al vostro?

Vicino al nostro c’era un campo di concentramento femminile, in cui erano rinchiuse 1500 donne ungheresi (Si seppe poi che erano tutte ebree).

 Ha mai pensato alla fuga?

E dove si andava? Manco sapevamo dove si trovava l’Italia.

Sa di qualcuno dei vostri morto nel lager?

No, non ho ricordo di questo

Vi hanno mai dato permessi per uscire dal campo?

Scherzi! Non c’erano permessi, se ci vedevano fuori ci ammazzavano (questa affermazione pare si riferisca allo status di IMI, non a quello in cui passò poi di ‘lavoratore civile’).

C’erano rifugi antiaereo?

C’erano rifugi dentro il campo, sottoterra, ma se cadeva una bomba avrebbe fatto un flagello.

Come avete capito che la vostra prigionia era finita?

Una mattina trovammo i cancelli del campo aperti e nessuna delle guardie a custodire il campo. Abbiamo capito in quel momento che per noi era arrivata la liberazione. Poi arrivarono gli alleati, americani e inglesi. Gli Americani erano più buoni degli Inglesi. Ci davano cibo e sigarette. Ho imparato da loro a fumare.



(foto aeree del bombardamento di Allendorf da parte degli Alleati)

Ci parli del suo ritorno in Italia, a Limena

Io e gli altri siamo ritornati con mezzi di fortuna, su treni merci o bestiame principalmente. Io tornai a casa il 24 maggio (o giugno) del ’45. Quando arrivai a Limena fu Raimondo Piva che si precipitò ad avvisare i miei che stavo per tornare. Mio cugino Cesare, che stava lavorando i campi con i buoi, mollò tutto e corse ad incontrarmi con tutti gli altri di casa, che mi credevano morto.

Signor Piccolo, qual è stato il sentimento che più lo ha accompagnato in tutto il periodo della prigionia?

Ogni giorno si viveva con la paura di morire, con la paura di morire da un momento all’altro.

 

Nicolò Piccolo nel 1954 si sposò con Ortensia ed ebbe tre figlie. Nella vita fece prima il contadino, poi lavorò per due aziende di Limena. Non ottenne nessun riconoscimento e nessun indennizzo per i venti mesi trascorsi nel campo di concentramento tedesco di Allendorf. Fu anche lui un IMI (Internato Militare Italiano), privato di ogni diritto spettante ai prigionieri di guerra in base alle convenzioni internazionali, privato di ogni dignità, per due anni schiavo. Il crimine commesso nei suoi confronti e nei confronti degli altri 600 mila prigionieri italiani che come lui finirono nei campi di concentramento è oggi considerato un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità.

Nell’intervista non ha accenni d’odio o di rancore il signor Piccolo, solo il dolore per un ricordo che lo porta ogni tanto a fermarsi per non mettersi a piangere, anche durante l’intervista. Soprattutto gli rimane ancora il dubbio che quanto ci ha raccontato non venga creduto, che non lo si consideri come realmente accaduto.

 

(intervista pubblicata in UN RAGAZZO NEL LAGER, di Bruno Trevellin, 2020)