UN RAGAZZO NEL LAGER,
di Bruno Trevellin
Intervista rilasciata
da Nicolò Piccolo, limenese, deportato nel ’43 a 19 anni nel lager di Allendorf.
Fu uno dei 600 mila soldati italiani che dissero ‘no’ al rimpatrio come
combattenti nelle milizie nazi-fasciste
(Nicolò
Piccolo a 19 anni)
(Nicolò
Piccolo, 97 anni, nella sua casa di via
Buonarroti a Limena)
Il
signor Piccolo è oggi ancora ben cosciente e conserva ricordi vivissimi del
periodo vissuto in prigionia.
Signor Piccolo, a che età
è stato chiamato alle armi e come è finito ad Allendorf?
Il
24 maggio del ’43, all’età di diciannove anni, venni arruolato nel XXI Guardia
alla Frontiera di stanza in Friuli, a Cividale. Portavamo un cappello come
quello degli alpini, ma senza la penna. L’8 settembre, dopo una breve
sparatoria, fummo catturati dai Tedeschi e trasferiti a Gorizia. Alla consegna
delle armi, venimmo da loro derisi perché dicevano che noi Italiani non
sapevamo proprio portarle le armi, visto che i nostri fucili non erano per
niente puliti e oliati come i loro. Caricati su un treno bestiame ‘sigillato’,
dopo tre giorni di viaggio, arrivammo al campo di concentramento di Allendorf,
passando per Monaco di Baviera.
Che lavoro eravate
costretti a fare?
Lavoravamo
in una fabbrica di armi, tutti i giorni, senza riposo, ‘da buio a buio’. Solo
dopo molto tempo ci venne concesso il riposo domenicale. Ricordo che le bombe
fabbricate, il nostro lavoro consisteva principalmente nel riempire granate,
venivano accatastate in grandi quantità. Ce n’erano di vario tipo e dimensioni.
Signor Piccolo, lei è
partito per la guerra che pesava più di 70 kg. ed è ritornato ridotto a 39.
Qual era l’alimentazione di voi prigionieri ad Allendorf?
Ci
davano una brodaglia molto annacquata, che ci versavano dentro un bussolotto di
metallo. Una volta che ebbi l’ardire di osservare che dentro non c’era neanche
una patata (glielo dissi in veneto: “Ma gnanca ‘na patata!”), mi venne tolto il
bussolotto e fui accusato di essere un badogliano, cioè un traditore della
Germania, perché Badoglio aveva firmato l’Armistizio. Ma il cibo principale
erano le bucce di patate e gli avanzi della mensa dei Tedeschi. La ‘caccia’ al
cibo era il pensiero quotidiano. Arrivavamo a frugare (‘a rumare’, precisa) nei
letamai, proprio come fanno le galline pur di recuperare qualcosa da mettere in
bocca. Quando uscivamo dal campo in fila per andare a lavorare, chi stava
davanti rubava il piatto con gli ossi che davano ai cani e qualche volta sono
riuscito anch’io a rubare al cane gli ossi congelati, mettendoli sotto la
giacca. E più avanti, quando ci concessero di uscire dal campo, andavamo a
carità dalle famiglie del posto. Abbiamo trovato persone buone, ci davano
brodo, a volte carne. Si rubava anche qualcosa in giro, polli specialmente. La
fame era sempre tanta. Una volta i Tedeschi avevano portato me e un altro
prigioniero in mezzo al fiume congelato, largo come il nostro Brenta, e noi
dovevamo spaccare il ghiaccio per far scorrere l’acqua. Loro col fucile puntato
hanno fatto marcia indietro e ci hanno lasciato lì in mezzo al fiume. La paura
di annegare era tanta! Ma abbiamo anche pensato che volessero ammazzarci lì sul
posto. Mentre uno spaccava e l’altro faceva leva sul ghiaccio, ho trovato un
piccolo pesce congelato. Ero stato fortunato! l’ho preso e messo in bocca così
com’era.
Parliamo degli alloggi,
della condizione igienico-sanitaria.
Si
dormiva in baracche, in letti a castello. Io dormivo in alto sul terzo ripiano.
In mezzo a cimici e pidocchi. In due anni ci fecero fare un’unica doccia sotto
un’acqua bollente. Non ho mai visto medici, anche perché, per fortuna, sono sempre
stato bene. Nel campo c’era un’infermeria, ma per modo di dire. Basti pensare
che al posto delle garze veniva usata una sorta di carta assorbente.
Che vestiario, che
scarpe avevate?
Stracci,
solo stracci. Al posto delle scarpe, avevamo zoccoli di legno e come calzini
usavamo stracci che avvolgevamo attorno ai piedi.
Ricorda in particolare qualche
compagno di prigionia? Che rapporto c’era tra voi?
Io
ero con uno di Ancona, con uno che poi si è stabilito in Germania e con Elio
Visintini, un friulano che sono andato anche a trovare a casa sua. Tra
prigionieri si era tutti come fratelli.
È mai stato messo in
carcere?
Ho
fatto un mese in un carcere delle SS perché avevo osato saltare il turno di
lavoro in un giorno di festa, di una grande festa (non ricorda se Natale o
Pasqua). Mi presi un pugno terribile in bocca dalla guardia tedesca che mi
spaccò i denti e che mi fece così male che ancora mi pare di sentirlo. Quella
volta temevo che mi uccidessero, invece dopo un mese mi fecero rientrare al
campo per necessità lavorative.
Gli era stato proposto
di rientrare in Italia, arruolandosi nell’esercito della RSI (Repubblica
Sociale Italiana)?
Certo,
ma rifiutai, come fecero quasi tutti. Ho preferito restare nel campo di
prigionia, piuttosto che rientrare ed essere costretto a combattere in Italia
contro i nostri.
Avevate la possibilità
di comunicare con i familiari?
No,
sono stato un anno e mezzo senza avere notizie di casa, poi mi fu concesso di
scrivere due volte, ma da casa non ho mai ricevuto nessuna lettera, nessuna
informazione. Da casa ho ricevuto solo due pacchi, perché gli altri me li hanno
rubati. Mio papà si faceva fare una cassettina di legno da Milieto Piva, che
era falegname, e quando arrivava il pacco con dentro il pane biscotto, lo
mangiavamo tutti assieme. I pacchi li tenevo nascosti nella lavanderia.
Aveva dei soldi quando
arrivò al campo? Vi davano una paga?
Avevo
150 lire di carta che arrotolai per bene e che nascosi dentro la fessura di una
trave della baracca, ma quel mio nascondiglio venne scoperto quasi subito da
una guardia che mi rubò i soldi. In Germania mai visto paga. Quando si era
ancora in Friuli, a Cividale e a Piedicolle, ci davano la paga militare di 40
centesimi al giorno, ma non potevamo spendere niente, così li ho risparmiati,
ma finirono nelle mani dei tedeschi.
Nel campo c’era una
chiesa per i prigionieri italiani? Si pregava in quelle condizioni?
No,
non c’era. In due anni non ho mai visto un prete e non sono mai stato a una
messa. Nei paesi vicini c’erano chiese protestanti e chiese cattoliche. Avevamo
imparato a distinguerle perché sul campanile di quelle protestanti c’era una
banderuola con un gallo e su quello delle chiese cattoliche una croce. Avrò anche
pregato qualche volta, ma tutti avevamo solo in mente di mangiare, avevamo
fame.
Piangeva?
Piangevo
sempre la sera, quando non c’era nulla da mangiare e avevo fame.
Vi arrivavano
informazioni su come stava andando la guerra?
Un
sergente ci teneva informati su come stava andando la guerra. Ovviamente le
informazioni viaggiavano attraverso ‘radio scarpa’ o attraverso ‘radio
reticolato’, così chiamavamo quel nostro sistema di comunicazione, quello cioè
del passaparola.
C’erano altri campi di
concentramento vicino al vostro?
Vicino
al nostro c’era un campo di concentramento femminile, in cui erano rinchiuse
1500 donne ungheresi (Si seppe poi che erano tutte ebree).
Ha mai pensato alla
fuga?
E
dove si andava? Manco sapevamo dove si trovava l’Italia.
Sa di qualcuno dei
vostri morto nel lager?
No,
non ho ricordo di questo
Vi hanno mai dato
permessi per uscire dal campo?
Scherzi!
Non c’erano permessi, se ci vedevano fuori ci ammazzavano (questa affermazione
pare si riferisca allo status di IMI, non a quello in cui passò poi di
‘lavoratore civile’).
C’erano rifugi
antiaereo?
C’erano
rifugi dentro il campo, sottoterra, ma se cadeva una bomba avrebbe fatto un
flagello.
Come avete capito che
la vostra prigionia era finita?
Una
mattina trovammo i cancelli del campo aperti e nessuna delle guardie a
custodire il campo. Abbiamo capito in quel momento che per noi era arrivata la
liberazione. Poi arrivarono gli alleati, americani e inglesi. Gli Americani
erano più buoni degli Inglesi. Ci davano cibo e sigarette. Ho imparato da loro
a fumare.
(foto
aeree del bombardamento di Allendorf da parte degli Alleati)
Ci parli del suo
ritorno in Italia, a Limena
Io
e gli altri siamo ritornati con mezzi di fortuna, su treni merci o bestiame
principalmente. Io tornai a casa il 24 maggio (o giugno) del ’45. Quando
arrivai a Limena fu Raimondo Piva che si precipitò ad avvisare i miei che stavo
per tornare. Mio cugino Cesare, che stava lavorando i campi con i buoi, mollò
tutto e corse ad incontrarmi con tutti gli altri di casa, che mi credevano
morto.
Signor Piccolo, qual è
stato il sentimento che più lo ha accompagnato in tutto il periodo della
prigionia?
Ogni
giorno si viveva con la paura di morire, con la paura di morire da un momento
all’altro.
Nicolò
Piccolo nel 1954 si sposò con Ortensia ed ebbe tre figlie. Nella vita fece
prima il contadino, poi lavorò per due aziende di Limena. Non ottenne nessun
riconoscimento e nessun indennizzo per i venti mesi trascorsi nel campo di
concentramento tedesco di Allendorf. Fu anche lui un IMI (Internato Militare
Italiano), privato di ogni diritto spettante ai prigionieri di guerra in base
alle convenzioni internazionali, privato di ogni dignità, per due anni schiavo.
Il crimine commesso nei suoi confronti e nei confronti degli altri 600 mila
prigionieri italiani che come lui finirono nei campi di concentramento è oggi
considerato un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità.
Nell’intervista
non ha accenni d’odio o di rancore il signor Piccolo, solo il dolore per un
ricordo che lo porta ogni tanto a fermarsi per non mettersi a piangere, anche
durante l’intervista. Soprattutto gli rimane ancora il dubbio che quanto ci ha
raccontato non venga creduto, che non lo si consideri come realmente accaduto.
(intervista
pubblicata in UN RAGAZZO NEL LAGER,
di Bruno Trevellin, 2020)