giovedì 24 agosto 2017

Lingua. Punti, virgole e &... Errori (e scherzi) d'autore con la punteggiatura

Lingua. Punti, virgole e &... Errori (e scherzi) d'autore con la punteggiatura


Giacomo Gambassi mercoledì 23 agosto 2017
Dalla lineetta evidenziatrice di Foscolo ai sei puntini di sospensione di Manzoni. Oggi è boom sul web di punti esclamativi e interrogativi. L'analisi del linguista Massimo Arcangeli 
La lettera tratta dal film "Totò Peppino e la malafemmena"
(La lettera tratta dal film "Totò Peppino e la malafemmena")

«Punto, punto e virgola, un punto e un punto e virgola... Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in abbondandum». Non si può che sorridere ogni volta che ci imbattiamo nella celebre sequenza della lettera tratta dal film Totò, Peppino e la... malafemmina in cui il principe della risata, per non apparire «provinciale», sparge a piene mani i segni che le grammatiche vogliono siano usati in ben altro modo. Però ha ragione Antonio De Curtis: la punteggiatura – come tutta la lingua – è anche gioco, invenzione, creatività. Non solo regole che comunque ci sono, vanno rispettate e soprattutto conosciute prima di poterle trasgredire.
Prendiamo Alessandro Manzoni che nei Promessi Sposi arriva a impiegare fino a sei puntini di sospensione (benché i manuali ne contemplino tre), mentre Carlo Emilio Gadda ne utilizza regolarmente quattro. O Ugo Foscolo che nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis inventa la lineetta evidenziatrice e quindi sovradimensionata rispetto all’originale. Ancora. Carlo Dossi ricorre a due virgole sovrapposte per trovare una via di mezzo fra la virgola e il punto e virgola, e come segno “emotivo” lancia la lineetta con il punto sottostante. E che cosa dire di Giuseppe Pontiggia che ama le parentesi vuote, cioè prive di contenuti, che si aprono e si chiudono in un rigo a loro dedicato? Oppure dei cinque nuovi punti introdotti da Hervé Bazin: d’amore (a forma di cuore), di persuasione e d’autorità (simili a una croce), d’acclamazione (che somiglia a un doppio punto esclamativo) e di dubbio (che pare una zeta mal riuscita)? Potere della fantasia che irrompe nella punteggiatura fino quasi a rasentare l’“errore d’autore”. Che però non è da segnare con la matita rossa.

«La lingua stimola la mente. E ciò vale anche per i segni di interpunzione che possono cambiare, essere reinventati o rivisti, assolvere a funzioni nuove, fino ad arrivare a creare “simboli visivi” come le emoticon e le emoji che nascono proprio da punti, virgole, parentesi assemblate assieme», spiega Massimo Arcangeli, docente di Linguistica italiana all’Università di Cagliari, che nel libro La solitudine del punto esclamativo (Il Saggiatore; pagine 336; euro 19) racconta passato, presente e futuro (prossimo) di tutti quei segni indispensabili nella scrittura. Guai però a ritenere che le fondamenta della punteggiatura possano essere scardinate su due piedi. «Una cosa è la novità frutto di un ragionamento originale e dell’uso consapevole e corretto della lingua, come ci insegnano scrittori e poeti. Tutt’altro è l’errore che qualcuno può tentare di spacciare per un tocco di freschezza e che invece va sanzionato senza se e senza ma», tiene a precisare Arcangeli.

Certo, i simboli presenti nei testi non vanno ritenuti di per sé immutabili. Pensiamo al punto. C’erano il punto fermo seguito dalla minuscola, il punto trafermo seguito dalla maiuscola, il punto fermissimo seguito dalla maiuscola divisa dal punto da una doppia spaziatura e il punto trafermissimo seguito dalla maiuscola nel rigo successivo. «Abbiamo perduto questa eccessiva raffinatezza e adesso ne utilizziamo soltanto uno», avverte il linguista. Comunque c’è chi, come Enrico Brizzi in Jack Frusciante è uscito dal gruppo, si è preso la licenza di aprire il capoverso con la minuscola dopo il punto. Un po’ come accade sulla Rete dove qualcosa sta mutando. «Ormai non sappiamo più se completare un sms o un periodo sui social network con un punto perché lo riteniamo superfluo – osserva Arcangeli –. Sicuramente è interessante notare come il punto fermo stia iniziando ad assumere un significato inconsueto: quando lo si mette, richiama un tono secco o magari irritato. Se, quindi, chiudo un messaggio con un punto fermo, può darsi che l’interlocutore mi consideri un po’ contrariato».

Più facile divertirsi (senza rischiare troppo di incorrere in abbagli) con parentesi, puntini, lineette e virgolette. «Sono segni “secondari” che ancora godono di uno status di relativa libertà. Ad esempio, possiamo scegliere fra le virgolette alte (“ e ”), i caporali (« e »), gli apici singoli (’). Oppure possiamo usare il trattino per introdurre un discorso diretto». Tormentato il passato della virgola. «Prima è stata una barra trasversale, poi ha assunto l’aspetto di un apostrofo – racconta lo studioso –. Del resto gli odierni segni di interpunzione sono il risultato di una sedimentazione di secoli che ha una delle radici nel Medioevo quando si impose la lettura silenziosa e poi nella stampa a caratteri mobili che ha portato a una regolarizzazione dell’intero sistema della punteggiatura». Oggi la virgola soffre. «In troppi la impiegano per separare il soggetto dal verbo: lo fanno perché la riducono a una pausa del parlato. Che non ha nulla di logico ma è soltanto nella mente di chi scrive». A rischio il punto e virgola. «Si tratta di un segno fondamentale che non è equiparabile al punto o alla virgola. Ha un ruolo di negoziazione intermedio che, tuttavia, si sta perdendo. E ciò è indice di impoverimento dell’italiano».

Invece ci sono simboli che conoscono un’autentica esplosione. Grazie a Internet e ai cellulari. Uno è il punto esclamativo. Sconosciuto agli antichi greci e romani, usato da Petrarca ma non per dare voce grafica alle manifestazioni di gioia o dolore, c’è stato chi lo avrebbe voluto chiamare punto “affettuoso”, “pathetico” o “ammirativo”. «Nell’angloamericano – nota il linguista – viene anche definito bang (botto, scoppio) o shriek (strillo, urlo). Fatto sta che oggi, in particolare sul web, i punti esclamativi sono spesso raddoppiati o triplicati. Lo stesso accade per i punti interrogativi. Non va dimenticato che era già stato proposto di usare insieme il punto esclamativo e quello interrogativo per rendere l’idea di una domanda che ha un’impronta di stupore. Non solo. Guardando alla lingua spagnola, Dossi usò il “doppio punto esclamativo o interrogativo”, ossia all’inizio e alla fine di una frase. In Francia, poi, a fine Ottocento il poeta Alcanter de Brahm concepì il “point d’ironie”, una specie di punto interrogativo allo specchio per marcare il tono di scherno e scherzo».

Ai segni di interpunzione si devono le “faccine” che con altre centinaia di “icone” costellano ormai messaggini, post o tweet. «Per riprodurre un sorriso – chiarisce Arcangeli – basta scrivere :-). Oppure per esprimere scetticismo ecco la formula :-/. Tutto questo è alla base di emoticon ed emoji che hanno riportato le immagini fra le righe». Il che non è una rivoluzione. Già nei manoscritti medievali comparivano le capocchie di chiodo per presentare una pausa ritmica di media durata; ha secoli di vita anche il cancelletto (#); oppure si può sperimentare lo slash (/), come ha fatto Alessandro Baricco nel romanzo City del 1999, per dare il senso dell’interruzione e della ripresa rapida. «L’insinuarsi di faccine e simili nel testo – sottolinea il docente – ci riporta ai codici miniati, riccamente decorati, e fa comprendere come oggi l’italiano sia sempre più condizionato non solo dall’oralità ma anche dal visivo. Siamo di fronte una scrittura contaminata dove si sostituisce la parola “casa” con l’immagine di un’abitazione. Una scrittura che sta recuperando in concretezza dopo aver puntato per secoli sull’astrattezza». È un pericolo? «Non dobbiamo demonizzare quanto sta avvenendo – conclude lo studioso –. Tuttavia, dal momento che stiamo attraversando una delicata fase di passaggio, questo processo va accompagnato. I giovani sono molto creativi sul fronte della lingua nuova o nuovissima ma è necessario aiutarli a comprendere l’importanza della tutela della memoria che può passare dai segni di interpunzione ma anche dal lessico».

mercoledì 16 agosto 2017

giovedì 3 agosto 2017

Rivolta di Varsavia (agosto-ottobre 1944)



Rivolta di Varsavia (agosto-ottobre 1944)
Con il termine Rivolta di Varsavia si indica l'iniziativa insurrezionale dell'Esercito Nazionale Polacco che fra il 1º agosto ed il 2 ottobre 1944 combatté contro le truppe tedesche di occupazione allo scopo di liberare la città di Varsavia prima dell'arrivo dell'esercito sovietico, giunto ormai alle porte della capitale polacca dopo le grandi vittorie dell'offensiva d'estate sul Fronte orientale.
Il tragico fallimento dell'insurrezione, spietatamente schiacciata dalle forze tedesche dopo due mesi di battaglia cittadina, e soprattutto le cause di questo fallimento, principalmente ricondotte da alcune correnti storiografiche al mancato soccorso ai rivoltosi da parte dell'Armata Rossa, sono tuttora materia di vivaci diatribe storico-politiche.
Gli scontri e il mancato soccorso sovietico
La battaglia trasformò Varsavia in un inferno che colpì duramente la popolazione civile, stretta fra i due fuochi, stremata dall'improvvisa scomparsa di generi alimentari ed oggetto della brutale repressione. Heinrich Himmler, superiore di von dem Bach in qualità di comandante supremo delle SS e responsabile della germanizzazione delle zone occupate dalle forze del Reich, diede ordine di uccidere senza distinzione di età, di sesso e di funzione; i militari tedeschi erano quindi autorizzati a sparare anche ai bambini, alle donne, al personale medico ed ai religiosi, nonché a bombardare e ad incendiare gli edifici senza curarsi di chi li occupava.
Gli omicidi sulla popolazione civile commessi a Varsavia (specialmente nei quartieri di Wola -38 mila persone- Ochota -oltre 10 mila- e di Mokotów) avevano l'intento di distruggere la sua forza vitale e la città come capitale del paese. La gente veniva raccolta nei capannoni delle fabbriche, nelle chiese e in altri grandi edifici e poi uccisa a sangue freddo. A volte venivano uccise intere famiglie con neonati. I cadaveri venivano ammassati in grandi pile a cui poi veniva appiccato il fuoco. A questo lavoro era stato adibito il Verbrennungskommando Warschau, costituito dai prigionieri delle SS.
Lo sperato soccorso sovietico non vi fu, in primo luogo per le difficoltà dell'Armata Rossa sulla riva destra della Vistola (sobborgo varsaviano di Praga), dopo la dura sconfitta subita delle unità corazzate sovietiche, contrattaccate di sorpresa da alcune Panzerdivisionen tedesche (Battaglie di Radzymin e Wolomin del 1º-10 agosto 1944); e inoltre anche per la volontà politica di Stalin di non aiutare la rivolta nazionalista a vantaggio di un successivo insediamento di strutture politico-militari polacche filosovietiche organizzate nel cosiddetto "Comitato di Lublino" e nell'Armia Ludowa.

Fine della rivolta

La resa dell'Esercito Nazionale fu siglata il 2 ottobre 1944 da Komorowski e da von dem Bach. I tedeschi riconobbero agli insorti ed ai civili catturati lo status di prigionieri di guerra, tutelati quindi dalla convenzione di Ginevra, ma imposero la deportazione di quasi mezzo milione di persone in previsione dell'esecuzione di uno dei più insensati ordini di Adolf Hitler: la totale distruzione della città di Varsavia.
«Ogni abitante deve essere ucciso, senza fare prigionieri. Che la città sia rasa al suolo e resti come terribile esempio per l'intera Europa. »
L'attuazione delle condizioni di resa fu surreale: i civili ed i militari polacchi sfilarono orgogliosamente per la città, consegnandosi ai militari tedeschi mentre a pochi chilometri di distanza, oltre la Vistola, stazionava inattivo quello stesso esercito sovietico che altrove stava combattendo vittoriosamente contro la Wehrmacht.
Una volta sgomberata dalla popolazione, Varsavia fu distrutta, casa per casa, da corpi delle SS sottratti al combattimento per tale scopo; solo nel gennaio del 1945 l'Armata Rossa arrivò nella capitale abbandonata dai tedeschi e ridotta in macerie. Il tragico epilogo della rivolta incrinò i rapporti fra gli Alleati ed il governo polacco che il 3 ottobre 1944 rilasciò il seguente comunicato:
« Non abbiamo ricevuto alcun sostegno effettivo... Siamo stati trattati peggio degli alleati di Hitler in Romania, in Italia e in Finlandia. La nostra rivolta avviene in un momento in cui i nostri soldati all’estero stanno contribuendo alla liberazione di Francia, Belgio e Paesi Bassi. Ci riserviamo di non esprimere giudizi su questa tragedia, ma possa la giustizia di Dio pronunciare un verdetto sull’errore terribile col quale la nazione polacca si è scontrata e possa Egli punirne gli artefici. »
La scarsa considerazione che il Comando degli Alleati aveva per le richieste polacche a fronte di quelle russe, del resto, era già stata evidenziata ai tempi della Conferenza di Teheran, avvenuta 9 mesi prima dell'inizio della rivolta, dove Churchill, Stalin e Roosevelt si erano accordati perché la Russia mantenesse i territori polacchi acquisiti nell'invasione del 1939 e inglobasse il resto della Polonia nella propria orbita, ma il governo polacco venne a sapere di tali decisioni solo durante la Conferenza di Yalta, a guerra ormai conclusa.
(informazioni da Wikipedia.org)

La Polonia non morirà
finché noi vivremo.
(inizio dell’inno nazionale polacco, conosciuto come Mazurek Dąbrowskiego (Mazurka di Dąbrowski) scritto ed eseguito per la prima volta nel 1797 a Reggio Emilia da Józef Wybicki, tenente dell’armata polacca del generale Jan Henryk Dąbrowski)