Il dialetto è più vivo che mai
(ma solo quando unisce il Paese)
(ma solo quando unisce il Paese)
Progetti scientifici, app ideate dai giovani e una
florida letteratura di successo
Così la lingua materna ci arricchisce. Gli specialisti: non sia strumento di divisioni
Così la lingua materna ci arricchisce. Gli specialisti: non sia strumento di divisioni
di Roberta ScorraneseMES – Museo
dell’Emigrazione a Piacenza
Ormai quasi
quarantacinque anni fa, nella sua ultima apparizione pubblica prima della
morte, Pier Paolo Pasolini tenne un
famoso discorso a Lecce. Parlò dei
dialetti a rischio scomparsa, della televisione colpevole di un «genocidio
culturale» con l’imposizione di una lingua standard, «quella di Mike Bongiorno»,
per capirci. Era un’altra Italia, quella del 1975: tra le classi sociali
c’erano fossati culturali che andavano riempiti e la padronanza dell’italiano
era il punto di partenza. I dialetti erano stati già stigmatizzati dal fascismo
e negli anni Settanta, come osserverà poi un grande sociolinguista come Gaetano
Berruto, «ci si vergognava della propria lingua madre». E la televisione unificava
il Paese con un idioma omogeneo, accessibile a tutti ma intriso di una fredda
correttezza formale che agli occhi di Pasolini suonava come una spaventosa
ingiunzione dall’alto.
Otto milioni di italiani parlano così
Ma la fosca
previsione pasoliniana ha preso una piega inaspettata e oggi le cose sono
cambiate. I dialetti (non solo in Italia) ravvivano le conversazioni sui
social, hanno pagine Facebook dedicate, progetti scientifici molto seri che li
sostengono, per non parlare di una florida letteratura (Camilleri, Ferrante,
Fois e tanti altri) che ha rivitalizzato e in alcuni casi reinventato il
siciliano o il napoletano. Restituendoci così un Paese più ricco e fertile:
ecco perché abbiamo voluto chiudere l’anno con questo tema nel Bello
dell’Italia, prima di aprirne un’altra, tutta nuova a gennaio (vedi l’articolo
in basso). L’ultima, rilevante, indagine
Istat dice che in Italia il 32 per cento delle persone al di sopra dei sei anni
si esprime sia in italiano che in dialetto e ben 8 milioni e rotti usano prevalentemente
il vernacolo (dati del 2015). Eppure il tema è delicato: ci sono regioni
che impugnano il dialetto quale arma separatista, o comunque di forte e
rischiosa matrice identitaria.
I «nostalgici»
Ci sono i
nostalgici dell’Italia rurale e quelli che, semplicemente, parlano in veneto o
pugliese per non farsi capire dagli altri, dal «diverso». Ma ogni tentativo di
imposizione del dialetto, per gli specialisti, è un fallimento «non fosse altro
per il fatto che il vernacolo è un organismo in continua mutazione e,
soprattutto, perché ci sono miriadi di varianti per ogni regione», spiega Vera
Gheno, sociolinguista, collaboratrice di Zanichelli e autrice di Potere
alle parole (Einaudi). L’esercizio sovranista, se
applicato al dialetto, non avrà mai esito , perché, dice Gheno, «se si decide
di tradurre un termine, poniamo, in bergamasco, ci sarà certamente un paese
della Valle Camonica che protesterà perché da loro si dice in un altro modo». E
così all’infinito, contravvenendo peraltro, alla massima più bella che ci ha
lasciato Tullio De Mauro: «La via per la
felicità passa dal plurilinguismo». È questo il punto, come afferma
Giuseppe Antonelli, ordinario di Linguistica italiana all’Università di Pavia e
autore de Il Museo della lingua italiana (Mondadori): «bisogna approfittare del fatto che oggi non ci si vergogna
più di avere una lingua materna e usarla per arricchire il nostro modo di
esprimerci e di guardare le cose». Perché il dialetto non è soltanto una connotazione
coloristica regionale: è uno sguardo sul mondo, è un modo di pensare, di
ragionare, di prendere decisioni.
L’impegno dei più giovani
Ecco perché
sono soprattutto i più giovani a rivitalizzarlo. Per esempio, Massimo Gismondi,
studente del Politecnico di Torino e originario di Castellaro (Imperia), di
appena 22 anni, ha sviluppato un’applicazione che traduce dall’italiano al
taggiasco e viceversa. A Soncino (Cremona), alcuni ragazzi hanno organizzato
dei tutorial su Youtube in cui i nonni insegnano la pronuncia più ortodossa
delle parole dialettali. E Gheno, attenta osservatrice del linguaggio dei
giovani, si dice stupita del fatto che «molti oggi non solo lo parlino, ma lo
scrivano pure su Facebook o Twitter», visto che il dialetto è uno strumento
soprattutto orale. Su una cosa tutti i linguisti concordano: è una grande
fortuna che queste lingue siano giunte fino a noi quasi integre dopo secoli e
qualunque tentativo di imbalsamarle in formule standard da difendere come se
fossero animali in via d’estinzione è sbagliato, perché anche il vernacolo muta
pelle. Gheno sottolinea che la città dove si usa di più il termine «minchia»
non è Partinico ma Torino («Sa quanti siciliani emigrarono lì nel secolo
scorso?»). Certo, ben vengano i tanti e internazionali progetti scientifici di
sostegno, come il World Oral Literature Project dell’Università di Cambridge
(Uk) che documenta e conserva in un archivio online il patrimonio linguistico.
O come quello di Google, che nella versione per iPhone del traduttore riconosce
sei dialetti italiani. Ma questa lingua materna deve unirci e arricchirci, mai
dividerci.
Corriere della Sera, 16 dicembre 2019
Corriere della Sera, 16 dicembre 2019