martedì 17 dicembre 2019

Il dialetto è più vivo che mai


Il dialetto è più vivo che mai
(ma solo quando unisce il Paese)
Progetti scientifici, app ideate dai giovani e una florida letteratura di successo
Così la lingua materna ci arricchisce. Gli specialisti: non sia strumento di divisioni

di Roberta ScorraneseMES – Museo dell’Emigrazione a Piacenza


Ormai quasi quarantacinque anni fa, nella sua ultima apparizione pubblica prima della morte, Pier Paolo Pasolini tenne un famoso discorso a Lecce. Parlò dei dialetti a rischio scomparsa, della televisione colpevole di un «genocidio culturale» con l’imposizione di una lingua standard, «quella di Mike Bongiorno», per capirci. Era un’altra Italia, quella del 1975: tra le classi sociali c’erano fossati culturali che andavano riempiti e la padronanza dell’italiano era il punto di partenza. I dialetti erano stati già stigmatizzati dal fascismo e negli anni Settanta, come osserverà poi un grande sociolinguista come Gaetano Berruto, «ci si vergognava della propria lingua madre». E la televisione unificava il Paese con un idioma omogeneo, accessibile a tutti ma intriso di una fredda correttezza formale che agli occhi di Pasolini suonava come una spaventosa ingiunzione dall’alto.

Otto milioni di italiani parlano così
Ma la fosca previsione pasoliniana ha preso una piega inaspettata e oggi le cose sono cambiate. I dialetti (non solo in Italia) ravvivano le conversazioni sui social, hanno pagine Facebook dedicate, progetti scientifici molto seri che li sostengono, per non parlare di una florida letteratura (Camilleri, Ferrante, Fois e tanti altri) che ha rivitalizzato e in alcuni casi reinventato il siciliano o il napoletano. Restituendoci così un Paese più ricco e fertile: ecco perché abbiamo voluto chiudere l’anno con questo tema nel Bello dell’Italia, prima di aprirne un’altra, tutta nuova a gennaio (vedi l’articolo in basso). L’ultima, rilevante, indagine Istat dice che in Italia il 32 per cento delle persone al di sopra dei sei anni si esprime sia in italiano che in dialetto e ben 8 milioni e rotti usano prevalentemente il vernacolo (dati del 2015). Eppure il tema è delicato: ci sono regioni che impugnano il dialetto quale arma separatista, o comunque di forte e rischiosa matrice identitaria.

I «nostalgici»
Ci sono i nostalgici dell’Italia rurale e quelli che, semplicemente, parlano in veneto o pugliese per non farsi capire dagli altri, dal «diverso». Ma ogni tentativo di imposizione del dialetto, per gli specialisti, è un fallimento «non fosse altro per il fatto che il vernacolo è un organismo in continua mutazione e, soprattutto, perché ci sono miriadi di varianti per ogni regione», spiega Vera Gheno, sociolinguista, collaboratrice di Zanichelli e autrice di Potere alle parole (Einaudi). L’esercizio sovranista, se applicato al dialetto, non avrà mai esito , perché, dice Gheno, «se si decide di tradurre un termine, poniamo, in bergamasco, ci sarà certamente un paese della Valle Camonica che protesterà perché da loro si dice in un altro modo». E così all’infinito, contravvenendo peraltro, alla massima più bella che ci ha lasciato Tullio De Mauro: «La via per la felicità passa dal plurilinguismo». È questo il punto, come afferma Giuseppe Antonelli, ordinario di Linguistica italiana all’Università di Pavia e autore de Il Museo della lingua italiana (Mondadori): «bisogna approfittare del fatto che oggi non ci si vergogna più di avere una lingua materna e usarla per arricchire il nostro modo di esprimerci e di guardare le cose». Perché il dialetto non è soltanto una connotazione coloristica regionale: è uno sguardo sul mondo, è un modo di pensare, di ragionare, di prendere decisioni.


L’impegno dei più giovani
Ecco perché sono soprattutto i più giovani a rivitalizzarlo. Per esempio, Massimo Gismondi, studente del Politecnico di Torino e originario di Castellaro (Imperia), di appena 22 anni, ha sviluppato un’applicazione che traduce dall’italiano al taggiasco e viceversa. A Soncino (Cremona), alcuni ragazzi hanno organizzato dei tutorial su Youtube in cui i nonni insegnano la pronuncia più ortodossa delle parole dialettali. E Gheno, attenta osservatrice del linguaggio dei giovani, si dice stupita del fatto che «molti oggi non solo lo parlino, ma lo scrivano pure su Facebook o Twitter», visto che il dialetto è uno strumento soprattutto orale. Su una cosa tutti i linguisti concordano: è una grande fortuna che queste lingue siano giunte fino a noi quasi integre dopo secoli e qualunque tentativo di imbalsamarle in formule standard da difendere come se fossero animali in via d’estinzione è sbagliato, perché anche il vernacolo muta pelle. Gheno sottolinea che la città dove si usa di più il termine «minchia» non è Partinico ma Torino («Sa quanti siciliani emigrarono lì nel secolo scorso?»). Certo, ben vengano i tanti e internazionali progetti scientifici di sostegno, come il World Oral Literature Project dell’Università di Cambridge (Uk) che documenta e conserva in un archivio online il patrimonio linguistico. O come quello di Google, che nella versione per iPhone del traduttore riconosce sei dialetti italiani. Ma questa lingua materna deve unirci e arricchirci, mai dividerci.
Corriere della Sera, 16 dicembre 2019


venerdì 6 dicembre 2019

Limena 1943: padri e figli nei lager di Hitler di Bruno Trevellin


Limena 1943: padri e figli nei lager di Hitler
(di Bruno Trevellin)

(foto in RENATO MARTINELLO, Limena 1866-1970. Storie di uomini, uomini nella storia, pag. 158, Limena, 1992)

Sono stati ben 73 gli internati militari limenesi finiti nei lager tedeschi. Catturati dalla Wehrmacht dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, furono trasferiti nei campi di prigionia della Germania nazista, privati dei diritti che la Convenzione di Ginevra garantiva ai prigionieri di guerra e costretti come schiavi al lavoro coatto, quasi sempre nelle fabbriche belliche. I più vecchi avevano poco più di trent’anni, i più giovani erano ragazzi non ancora ventenni.
Potevano tornare in Italia, ma accettando di arruolarsi come soldati della Repubblica di Salò. Non lo fecero e rimasero nei lager per quasi due anni fino alla fine della guerra.
Nei tondi con foto della stampa sono riportati i loro cognomi e, anche se non sempre, i nomi di battesimo (a volte indicati con la sola iniziale), spesso con l’anno di nascita. Partendo dalla prima colonna a sinistra troviamo:
Aggigano I., 1918; Benvoluti Gino, 1907; Cabrelle Gino; Dolzan Ermenegildo; Martinello Massimo; Pinton Primo;
Aggujaro dr. Silvio, 1915; Bordinazzo A., 1921; Caon Amedeo, 1910; Fantin, 1911; Marzaro Marino; Piccolo Nicola; Scantamburlo A., 1916;
Agostini G., 1922; Bordinazzo Antonio; Celeghin Ferrante; Fantin Umberto, 1914; Mialto Aldo, 1912; Piva Emilio, 1915; Squizzato Primo;
Bortolazzo Francesco, 1911; Cesaro Bernardino, 1912; Favaro Silvio; Morbin Cesare; Piva Luigi, 1921; Tiso A.;
Gaiola Albano (+ deceduto), 1918; Ceron Albino; Fincato P., 1914; Molinari Luigi; Ramina Dino, 1923; Tiso Sante; Zecchinato Raffaele;
Marcato Albano (+), 1913; Celeghin Leonio; Gaiola Giulio; Morbin Arturo; Rizzetto M.; Tognon Mario, 1924; Zoccarato Aldo, 1924;
Miotto F. (+ deceduto), 1908; Celeghin Andrea; Granziero Tullio; Norbiato Angelo, 1914; Rossetto A., 1914; Varotto Amorino, 1916; Zoccarato Riccardo, 1921;
Brocca Giorgio; Cusinato Mario; Lovison G., 1923; Nardo Angelo, 1914; Rossetto Antonio, 1922; Varotto Bruno, 1920;
Bano Bruno, 1915; Brocca Primo; Destro Angelo; Marin Antonio; Nalesso Dino; Scarso Antonio, 1909; Zago Alessandro;
Bano Gino, 1910; Cabrelle A., 1923; De Rossi Stefano; Marini Giuseppe, 1913; Pertile Ampelio, 1923; Scaldaferro Giovanni; Zagon Antonio;
Barichello Gino, 1923; Cabrelle Alfredo; De Rossi Stefano; Martinello Attilio, 1921; Pezzolo Giuseppe; Scarso Pietro.   

Uno di loro, Nicolò Piccolo, è ancora in vita. Abita a Limena in via Buonarroti. Oggi ha 95 anni.
(Nicolò Piccolo, classe 1924, internato nel lager di Allendorf a 19 anni)