martedì 28 agosto 2018

AFRICA DEPREDATA DALLA FRANCIA


Konare: è la Francia a depredare l’Africa, ditele di smettere
Scritto il 07/8/18

Ma la Francianon era il paese dei Lumi, patria della libertà già nel Settecento? Sì, ma solo in Europa: certo non in Africa, dove 14 paesi vivono tuttora sotto il giogo di una dominazione coloniale feroce e parassitaria, che sta facendo esplodere la crisidei migranti. Lo afferma, in una drammatica video-testimonianza su “ByoBlu”, il leader panafricano Mohamed Konare, originario della Costa d’Avorio. “Libertè, egalitè, fraternitè”: valori che magari hanno ancora un peso in Francia, mentre nel continente nero – schiavizzato dal governo di Parigi – si sopravvive senza libertà e senza nessuna uguaglianza, mentre l’unica fraternità (criminale) è quella che lega alla potenza sfruttatrice i tanti dittatori africani, insediati dalla Franciaa suon di sanguinosi colpi di Stato. A milioni, oggi, gli schiavi dell’Africa “francese” si riversano sulle coste italiane? Ovvio: a casa loro non hanno speranze, per colpa della piovra rappresentata dal sistema coloniale, che ancora oggi depreda i paesi sub-sahariani. Non hanno scampo, gli africani: sono vittime del più subdolo dei ricatti, cioè l’imposizione del Franco Cefa, moneta coloniale imposta all’Africa e tuttora di proprietà francese. Un controllo ferreo, per uno smisurato trasferimento di ricchezza: non meno di 500 miliardi di dollari all’anno, secondo stime ufficiali. Ora basta, però: bisogna che i giovani smettano di emigrare, dice Konare. Devono restare a casa, a lottare, perché l’Africa abbia finalmente un futuro.
«Dobbiamo “assediare” pacificamente tutte le ambasciate francesi in Africa, per smuovere l’opinione pubblica internazionale. Ci stiamo preparando: lo faremo». Mohamed Konare è consapevole di quanto sia pericolosa la sua posizione: nel solo dopoguerra, l’Africa ha subito 45 golpe orchestrati da Parigi. La potenza coloniale non ha esitato a far uccidere chiunque abbia osato ribellarsi: le vittime sono decine, dal leader congolese Patrice Lumumba al rivoluzionario sovranista Thomas Sankara, che dal Burkina Faso osò chiedere l’annullamento del debito africano e la fine degli “aiuti” (usurai) della finanzainternazionale: miliardi offerti dal Fmi e dalla Banca Mondiale, per vincolare l’economiaafricana alla schiavitù del debito e imporre la rapina neoliberista delle risorse, affidate alle multinazionali con la complicità dei governanti africani corrotti. Uno schema che è all’origine dell’attuale disastro che investe l’Africa, come spiega l’economista Ilaria Bifarini: il Pil africano sta crescendo ma resta in mano a pochissimi, la popolazione del continente nero sta letteralmente esplodendo ma vive in condizioni economiche molto peggiori, rispetto a trent’anni fa. Nel frattempo è cambiato tutto, nel mondo globalizzato, tranne un aspetto che non è esagerato definire mostruoso: l’arcaico sfruttamento coloniale da parte della Francia, di cui Konare fornisce un quadro semplicemente sconcertante.
Il 50% della produzione delle ex colonie francesi finisce subito a Parigi: un furto sistematico, legalizzato dagli accordi della decolonizzazione, le “false indipendenze” concesse da Charles de Gaulle per continuare la razzia dietro il paravento dell’autonomia solo formale dell’Africa Francese. L’altro 50% del Pil viene comunque sottratto alla popolazione, grazie alla complicità dei regimi africani. Un sistema criminale, la cui regia – accusa Konare – è interamente francese: resta di proprietà della Franciail Franco Cefa, su cui Parigi esercita uno smisurato signoraggio. I paesi africani, obbligati a usare la moneta coloniale francese, non possono sviluppare liberamente la loro economia, né vendere a chi vogliono i loro prodotti. Il gas algerino finisce a Parigi insieme al petrolio. Stessa sorte per le merci di paesi importanti come il Senegal e il Camerun, la Costa d’Avorio, il Mali, il Togo, il Niger. Caffè e cacao, diamanti, oro, rame, uranio, coltan: il continente più ricco del pianeta sopravvive in miseria, sfruttato a sangue dai signori di Parigi, che oggi esibiscono l’ipocrita cinismo di Macron (ospite d’onore di Papa Francesco) ma ieri, almeno, erano capaci di franchezza: «Senza l’Africa – ammise François Mitterrand nel 1975 – la Francianon avrà storianel 21mo secolo». Profezia confermata dal suo successore, Jacques Chirac, nel 2008: «Senza l’Africa, la Franciascivolerebbe a livello di una potenza del terzo mondo». E l’orrore continua: i paesi dell’Africa ex francese devono far approvare a Parigi i loro bilanci.
Tutto questo deve finire, annuncia Konare: bisogna porre fine all’esodo dei giovani, e iniziare la lotta di liberazione dell’Africa. Come? Svelando, all’opinione pubblica, lo spaventoso vampirismo della Francia: beninteso, i cittadini francesi non ne sono nemmeno consapevoli. Piuttosto, sono potenziali alleati: lo diventeranno, dice Konare, quando prenderanno coscienza di questo orrore, perpetrato dalle stesse élite che, in Europa, organizzano le crisie l’austerity per gli europei. Carte truccate: come farebbe, la Francia, a mantenere il bilancio in ordine secondo i vincoli Ue, se non avesse dalla sua – ogni anno – quei 500 miliardi “rubati” all’Africa occidentale? E con che coraggio l’ometto dell’Eliseo (sostenuto dal Vaticano) dà lezioni all’Italia sui migranti, visto è proprio Parigi la maggiore responsabile dell’esodo biblico che stiamo vivendo? L’Africa deve svegliarsi, ora o mai più: l’appello di Konare è intensamente drammatico. Missione: salvare gli africani, restituendo loro la sovranità economica. «L’Africa è ricca: se si smette di depredarla, fiorirà. Verremo ancora in Italia, ma come turisti, a visitare Venezia e Firenze».
Patti chiari, dice Konare, e diventeremo amici. Ma di mezzo c’è una rivoluzione, da fare. «Un’alleanza tra popoli, africani ed europei, contro le élite che li sfruttano entrambi». Le armi? Una: l’informazione. «Tutti dovranno sapere. A quel punto, il dominio crollerà. Perché, se l’Africa ridiventerà sovrana, smetterà di esportare migranti». L’Italia? «Bene ha fatto a chiudere i porti: i nostri giovani che partono vengono ingannati dai trafficanti. L’emigrazione va scoraggiata in ogni modo, e l’Italia dovrebbe proprio chiudere le sue frontiere», sottolinea Konare, che si appella al governo gialloverde per ottenere una sponda nella grande battaglia, storica, per la resurrezione del continente nero. Italia cruciale: «Proprio a Roma, a settembre, faremo una grande manifestazione», annuncia Konare, al termine della lunga intervista sul video-blog di Claudio Messora. Una testimonianza, la sua, che vale più di una lezione universitaria: racconta di come l’ignoranza nasconda il peggior abominio, consumato sotto i nostri occhi. Un incubo, e una speranza: riconquistare un futuro. «Non avete idea di quanto siete buoni e di quanto siamo cattivi noi, in Occidente», dice Muhammad Alì ai bambini di Kinshasa, al termine dello storico match di boxe con Foreman, nel 1974. La cinepresa di Leon Gast immortalò un evento politico di portata storica: l’ultima voce africana capace di raggiungere, ed entusiasmare, il pubblico occidentale. Riuscirà nella stessa impresa l’altrettanto coraggioso e commovente Mohamed Konare?
Ma la Francia non era il paese dei Lumi, patria della libertà già nel Settecento? Sì, ma solo in Europa: certo non in Africa, dove 14 paesi vivono tuttora sotto il giogo di una dominazione coloniale feroce e parassitaria, che sta facendo esplodere la crisi dei migranti. Lo afferma, in una drammatica video-testimonianza su “ByoBlu”, il leader panafricano Mohamed Konare, originario della Costa d’Avorio. “Libertè, egalitè, fraternitè”: valori che magari hanno ancora un peso in Francia, mentre nel continente nero – schiavizzato dal governo di Parigi – si sopravvive senza libertà e senza nessuna uguaglianza, mentre l’unica fraternità (criminale) è quella che lega alla potenza sfruttatrice i tanti dittatori africani, insediati dalla Francia a suon di sanguinosi colpi di Stato. A milioni, oggi, gli schiavi dell’Africa “francese” si riversano sulle coste italiane? Ovvio: a casa loro non hanno speranze, per colpa della piovra rappresentata dal sistema coloniale, che ancora oggi depreda i paesi sub-sahariani. Non hanno scampo, gli africani: sono vittime del più subdolo dei ricatti, cioè l’imposizione del Franco Cfa, moneta coloniale imposta all’Africa e tuttora di proprietà francese. Un controllo ferreo, per uno smisurato trasferimento di ricchezza: non meno di 500 miliardi di dollari all’anno, secondo stime ufficiali. Ora basta, però: bisogna che i giovani smettano di emigrare, dice Konare. Devono restare a casa, a lottare, perché l’Africa abbia finalmente un futuro.
«Dobbiamo “assediare” pacificamente tutte le ambasciate francesi in Africa, per smuovere l’opinione pubblica internazionale. Ci stiamo preparando: lo faremo». Mohamed Konare è consapevole di quanto sia pericolosa la sua posizione: nel solo dopoguerra, l’Africa ha subito 45 golpe orchestrati da Parigi. La potenza coloniale non ha esitato a far uccidere chiunque abbia osato ribellarsi: le vittime sono decine, dal leader congolese Patrice Lumumba al rivoluzionario sovranista Thomas Sankara, che dal Burkina Faso osò chiedere l’annullamento del debito africano e la fine degli “aiuti” (usurai) della finanza internazionale: miliardi offerti dal Fmi e dalla Banca Mondiale, per vincolare l’economia africana alla schiavitù del debito e imporre la rapina neoliberista delle risorse, affidate alle multinazionali con la complicità dei governanti africani corrotti. Uno schema che è all’origine dell’attuale disastro che investe l’Africa, come spiega l’economista Ilaria Bifarini: il Pil africano sta crescendo ma resta in mano a pochissimi, la popolazione del continente nero sta letteralmente esplodendo ma vive in condizioni economiche molto peggiori, rispetto a trent’anni fa. Nel frattempo è cambiato tutto, nel mondo globalizzato, tranne un aspetto che non è esagerato definire mostruoso: l’arcaico sfruttamento coloniale da parte della Francia, di cui Konare fornisce un quadro semplicemente sconcertante.
Il 50% della produzione delle ex colonie francesi finisce subito a Parigi: un furto sistematico, legalizzato dagli accordi della decolonizzazione, le “false indipendenze” concesse da Charles de Gaulle per continuare la razzia dietro il paravento dell’autonomia solo formale dell’Africa Francese. L’altro 50% del Pil viene comunque sottratto alla popolazione, grazie alla complicità dei regimi africani. Un sistema criminale, la cui regia – accusa Konare – è interamente francese: resta di proprietà della Francia il Franco Cfa, su cui Parigi esercita uno smisurato signoraggio. I paesi africani, obbligati a usare la moneta coloniale francese, non possono sviluppare liberamente la loro economia, né vendere a chi vogliono i loro prodotti. Il gas algerino finisce a Parigi insieme al petrolio. Stessa sorte per le merci di paesi importanti come il Senegal e il Camerun, la Costa d’Avorio, il Mali, il Togo, il Niger. Caffè e cacao, diamanti, oro, rame, uranio, coltan: il continente più ricco del pianeta sopravvive in miseria, sfruttato a sangue dai signori di Parigi, che oggi esibiscono l’ipocrita cinismo di Macron (ospite d’onore di Papa Francesco) ma ieri, almeno, erano capaci di franchezza: «Senza l’Africa – ammise François Mitterrand nel 1975 – la Francia non avrà storia nel 21mo secolo». Profezia confermata dal suo successore, Jacques Chirac, nel 2008: «Senza l’Africa, la Francia scivolerebbe a livello di una potenza del terzo mondo». E l’orrore continua: i paesi dell’Africa ex francese devono far approvare a Parigi i loro bilanci.
Tutto questo deve finire, annuncia Konare: bisogna porre fine all’esodo dei giovani, e iniziare la lotta di liberazione dell’Africa. Come? Svelando, all’opinione pubblica, lo spaventoso vampirismo della Francia: beninteso, i cittadini francesi non ne sono nemmeno consapevoli. Piuttosto, sono potenziali alleati: lo diventeranno, dice Konare, quando prenderanno coscienza di questo orrore, perpetrato dalle stesse élite che, in Europa, organizzano le crisi e l’austerity per gli europei. Carte truccate: come farebbe, la Francia, a mantenere il bilancio in ordine secondo i vincoli Ue, se non avesse dalla sua – ogni anno – quei 500 miliardi “rubati” all’Africa occidentale? E con che coraggio l’ometto dell’Eliseo (sostenuto dal Vaticano) dà lezioni all’Italia sui migranti, visto è proprio Parigi la maggiore responsabile dell’esodo biblico che stiamo vivendo? L’Africa deve svegliarsi, ora o mai più: l’appello di Konare è intensamente drammatico. Missione: salvare gli africani, restituendo loro la sovranità economica. «L’Africa è ricca: se si smette di depredarla, fiorirà. Verremo ancora in Italia, ma come turisti, a visitare Venezia e Firenze».
Patti chiari, dice Konare, e diventeremo amici. Ma di mezzo c’è una rivoluzione, da fare. «Un’alleanza tra popoli, africani ed europei, contro le élite che li sfruttano entrambi». Le armi? Una: l’informazione. «Tutti dovranno sapere. A quel punto, il dominio crollerà. Perché, se l’Africa ridiventerà sovrana, smetterà di esportare migranti». L’Italia? «Bene ha fatto a chiudere i porti: i nostri giovani che partono vengono ingannati dai trafficanti. L’emigrazione va scoraggiata in ogni modo, e l’Italia dovrebbe proprio chiudere le sue frontiere», sottolinea Konare, che si appella al governo gialloverde per ottenere una sponda nella grande battaglia, storica, per la resurrezione del continente nero. Italia cruciale: «Proprio a Roma, a settembre, faremo una grande manifestazione», annuncia Konare, al termine della lunga intervista sul video-blog di Claudio Messora. Una testimonianza, la sua, che vale più di una lezione universitaria: racconta di come l’ignoranza nasconda il peggior abominio, consumato sotto i nostri occhi. Un incubo, e una speranza: riconquistare un futuro. «Non avete idea di quanto siete buoni e di quanto siamo cattivi noi, in Occidente», dice Muhammad Alì ai bambini di Kinshasa, al termine dello storico match di boxe con Foreman, nel 1974. La cinepresa di Leon Gast immortalò un evento politico di portata storica: l’ultima voce africana capace di raggiungere, ed entusiasmare, il pubblico occidentale. Riuscirà nella stessa impresa l’altrettanto coraggioso e commovente Mohamed Konare?


sabato 25 agosto 2018

Limena, il Ponte Vecchio e il Ponte Sigmac sul Brentella


Limena, il Ponte Vecchio e il Ponte Sigmac sul Brentella
di Bruno Trevellin

Il canale Brentella a Limena si supera percorrendo un doppio ponte, in pietra quello antico e in cemento quello recente.
(Il doppio ponte sul Brentella. Foto scattata da piazza Diaz)

Un ponte sul Brentella è documentato nelle mappe del ‘500 e del ‘600, ma possiamo immaginare che esistesse già al tempo dell’escavazione del canale per volontà dei Padovani (1314). In ogni caso è pensabile che quello a volte in pietra che ancora oggi vediamo sia stato costruito dalla Repubblica di Venezia nel 1775, quando vennero ricostruiti i sostegni (gli attuali colmelloni), costituiti ‘da due fabbricati posti a ponte sopra il canale’[1].
Alla fine degli ’70 del secolo scorso, viste le esigenze del traffico veicolare che gravava su Limena (all’epoca non c’era la tangenziale), al vecchio ponte ne venne affiancato uno di nuovo con la posa di una campata in cemento armato, manufatto della ditta Sigmac di Mestre[2]. I lavori vennero finanziati ed eseguiti direttamente dall’Anas, che in tre stralci allargò anche il tratto di statale 47 fino all’area Peep, arrivando alla rotonda di via Ceresara. Da ricordare l’interessamento dell’allora sottosegretario ai Lavori Pubblici, il veronese Gianni Fontana, che aveva proprio la delega all’Anas.
 .
(Campata in cemento armato della Sigmac)

(il ponte visto dal Brentella)



[2] SIGMAc è una delle principali industrie italiane nel settore della prefabbricazione delle travi da ponte in c.a.p.
I suoi prodotti vengono utilizzati con ottimi risultati nella viabilità stradale e ferroviaria.
Dal 1955 ad oggi ha prodotto oltre 7 milioni di metri lineari di manufatto precompresso e vanta un'esperienza specialistica che le permette di affrontare e risolvere tutte le problematiche proprie del settore (in: http://www.sigmac.it/it-IT/sigmac)

lunedì 20 agosto 2018

Limena, il Ponte della Libertà sul fiume Brenta, opera dell’ing. Bela Schvarcz (1956)


Limena, il Ponte della Libertà sul fiume Brenta, opera dell’ing. Bela Schvarcz (1956)
di Bruno Trevellin
(Il Ponte della Libertà in fase di costruzione, foto archivio Schvarcz)

(Il Ponte della Libertà oggi, con l’aggiunta della passerella ciclo-pedonale)

Il Ponte della Libertà, che collega Limena con Saletto di Vigodarzere, venne inaugurato domenica 6 maggio del 1956. “Il manufatto, costato 53 milioni (di lire) e lungo 102 metri, rappresentò una novità anche dal punto di vista costruttivo. La soluzione adottata dal progettista ing. Bela Schvarcz poteva definirsi avvenieristica per le innovazioni tecnologiche ed il basso costo e varie riviste di ingegneria, anche estere, ripresero il progetto”[1].
(Il Ponte della Libertà, foto da Martinello, Limena 1866-1970, p. 182)

(Particolare del ponte verso Limena)

Alcune note sull’ing. Bela Schvarcz
“Lo Studio Schvarcz nasce nel 1950 con sede in Corso Milano a Padova. Il fondatore dello Studio è l’Ing. Béla Schvarcz di nazionalità Ungherese, uno dei più noti professionisti nel campo del calcolo strutturale negli anni ‘60 e ‘70, che si stabilì a Padova durante la Seconda guerra mondiale. Successivamente i lavori di maggior interesse furono affidati  a Giampaolo Schvarcz, ingegnere libero professionista e collaboratore all’Istituto di Architettura e Urbanistica dell’Università di Padova e riconosciuto come uno dei caposaldi delle progettazioni di ingegneria e calcolo strutturale in Italia e all’Estero”[2].  
L’ing. Bela Schvarcz tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso era stato uno dei più quotati calcolatori di Padova. “Di origine ungherese, non aveva mai perso l’inflessione della sua lingua madre, ma era capace di eseguire calcoli a mente in modo velocissimo. Di solito io (chi parla è un suo ex allievo) facevo i calcoli con la calcolatrice, ma lui arrivava sistematicamente prima al risultato. Per la verità,  essendo ormai oltre gli 80 anni, ad usare la calcolatrice ci provava, ma si lamentava che quella non funzionava, salvo poi emettere oscuri improperi ungheresi quando si accorgeva che non aveva premuto il tasto ON.

L’ingegnere era sempre molto sicuro di sé ed anche orgoglioso della sua auto, una Lancia, di cui un giorno mi aveva detto che era stata la prima a Padova con l’iniezione atomica. “Ma, Ingegnere”, avevo risposto, “forse intendeva ad iniezione elettronica”, e lui, dopo averci pensato un attimo, ha risposto “No , no essere proprio prima con iniezione atomica!”[3].


[1] Renato Martinello, Storie di uomini, uomini nella storia, Limena 1866-1970, Padova 1992, p. 142

domenica 19 agosto 2018

Piazzola sul Brenta 1916. Concerto pro-lana


Piazzola sul Brenta 1916
Biglietto d’ingresso al concerto pro lana
Come in tantissimi altri comuni italiani che durante la prima guerra mondiale organizzarono manifestazioni di vario tipo[1] per raccogliere fondi da destinare all’acquisto di indumenti di lana da inviare ai soldati al fronte per affrontare l’inverno, a Piazzola sul Brenta si tenne un concerto strumentale e vocale. Il biglietto d’ingresso della foto (cartoncino delle dimensioni di cm. 10x8) informa che il concerto si terrà il 10 settembre 1916, una domenica, e che i primi posti a sedere costano una lira. Il concerto è organizzato dal Comitato pro-lana del comune.


[1] A Bologna si organizzò una passeggiata benefica (https://www.bibliotecasalaborsa.it/cronologia/bologna/1915/3934);
il Comune di Dolo delibera la concessione di un contributo di 50 lire al Comitato locale (https://books.google.it/books?id=NnUyDwAAQBAJ&pg=PA405&lpg=PA405&dq=comitato+pro+lana&source);
a Bracciano il Comitato pro lana organizza una rappresentazione teatrale. Interessanti i retorici toni dell’invito, in cui si informa che la lana verrà inviata ‘ai prodi soldati del nostro paese, che eroicamente combattono sulle vette dolomitiche contro un doppio nemico: il freddo e il cannone’(https://books.google.it/books?id=qTVzinMBqFwC&pg=PA211&lpg=PA211&dq=comitato+pro+lana&source).


Minoranze linguistiche, un patrimonio che rischia di finire nel silenzio


L'allarme. Minoranze linguistiche, un patrimonio che rischia di finire nel silenzio

Chiara Zappa venerdì 17 agosto 2018
In Italia ce ne sono varie e molte vanno sparendo: walser, tabarchino, arbëreshë, ladino, grico, occitano. Ma in alcuni casi il recupero oltre che identitario diventa motore di sviluppo economico
Donne arbëreshë danzano in Calabria (CreativeCommons)
Da Pecetto, la più alta tra le nove frazioni di Macugnaga, dove finisce la strada che rimonta l’aspra valle Anzasca, Anne può ammirare ogni volta che ne ha voglia le maestose quattro cime della parete est del Monte Rosa. Da bambina, ricorda, «io e i miei fratelli andavamo a prendere i carichi di legna per l’inverno, perché non avevamo il riscaldamento, e mentre lavoravamo ci richiamavamo da un alpeggio all’altro con lo jutzu, il nostro jodel. Cantavamo sempre, qui si sentivano sempre voci nell’aria».
Quelli che hanno accompagnato l’infanzia di Anne, minuta signora di 91 anni, sono i canti walser, tramandati per generazioni dai discendenti dei coloni svizzeri che, nel XIII secolo, attraverso il passo del Monte Moro raggiunsero queste zone ostili all’uomo dell’attuale Piemonte, chiamati dai monasteri o dai feudatari che chiesero loro di bonificarle.
La lingua walser, nei suo diversi dialetti locali, si è conservata intatta, “ibernata” come in uno dei ghiacciai che dominano il panorama, tanto che gli svizzeri o i tedeschi che passano di qui sono felici di sentire parole che da loro non esistono più da secoli. Il walser è un idioma della memoria, un po’ come, nel cuore della Basilicata, l’arbëreshë, l’albanese portato nel '500 dagli esuli in fuga dalla dominazione ottomana.
O come il tabarchino, che ufficialmente è solo una variante del dialetto genovese, ma ha un’identità assolutamente specifica e stupefacente: a parlarlo, in due isole sarde dell’arcipelago del Sulcis, sono gli eredi dei coloni genovesi giunti da Tabarka, in Tunisia, poco meno di trecento anni fa. Questi migranti avevano vissuto per due secoli nel regno dei Bey tunisini, impiegati dalla "madrepatria" ligure alla pesca del corallo, e lì avevano mantenuto la loro parlata assorbendo però alcune espressioni e molti aspetti della cultura locale, a cominciare dalla gastronomia: il cuscus ( cascà in tabarchino) è oggi un piatto tipico a Calasetta e Carloforte.
Le storie di queste isole linguistiche che resistono, ormai a fatica, in mezzo al mare dell’italiano, così come l’occitano e il grico del Salento, sono raccontate nel libro Stiamo scomparendo. Viaggio nell’Italia in minoranza (Ctrl Books; autori vari, pagine 124, euro 18,00), accompagnate dal suggestivo reportage fotografico di Emanuela Colombo. «La lingua crea un’identità individuale e di gruppo», si legge nella prefazione. «La lingua, al contempo, può essere un elemento di differenza. E di conservazione delle differenze. Un antidoto a quel tipo di potere che, consciamente o inconsciamente, uniforma e appiattisce. Forse chi lavorò intorno alla Carta che avrebbe regolato la vita civile dell’Italia liberata dal fascismo aveva in mente qualcosa di simile: la Costituzione della Repubblica Italiana tutela, con l’articolo 6, le minoranze linguistiche.Nel momento di una nuova unificazione, i padri costituenti decisero di proteggere le differenze».
A 70 anni dall’entrata in vigore dello Costituzione, gli autori del libro compiono così un viaggio narrativo e per immagini, dalla Basilicata alle Alpi, in questa Italia sull’orlo del silenzio. Per scoprire quanto le parole siano inscindibili dalla cultura di una comunità.
A Carloforte i capi delle tonnare, che hanno fatto la fortuna dei tabarchini, si chiamano rais e sono figure quasi mitiche. Ad Alagna Valsesia le case sono costruite con la tecnica del blockbau, a incastro, tipica dei popoli germanici. La cultura ma anche la fede. Nella chiesa di San Costantino il Grande, a San Costantino Albanese, la messa si celebra in rito bizantino e in lingua arbëreshë. A Pomaretto (Lou Poumaré in occitano) all’imbocco della Val Germanasca, la maggioranza degli abitanti segue il culto valdese: questa valle sperimentò la pace, dopo secoli di terrore e persecuzioni, solo nel 1848, quando Carlo Alberto di Savoia riconobbe ai valdesi pieni diritti civili e politici.
Si tratta di identità ancestrali tanto preziose quanto, frequentemente, inconsapevoli. Chi parla una lingua in via di estinzione spesso non si rende nemmeno conto del patrimonio che mastica quotidianamente. Franco Bronzat, linguista nato a Torino da genitori della Val Chisone, se ne accorse casualmente al liceo. Nell’ora di letteratura, la professoressa aveva letto una poesia del grande trovatore provenzale Arnaut Daniel, spiegando che era scritta in occitano, «una lingua morta». Franco alzò la mano: «Sarà morta per lei. Ma a me sembra la stessa roba che parliamo noi a casa».
Una naturalezza che aumenta il rischio di lasciare scivolare via, piano piano, le parole e quello che significano: uno stile di vita, un’identità di singolo e di gruppo. Tutte le comunità minoritarie d’Italia, anche se in modi e a livelli diversi, stanno affrontando la sfida del declino. Gli anziani se ne vanno e si portano via i proverbi, le canzoni, i pezzi di un mondo.A meno che non ci sia qualcuno che, realizzato il valore di ciò che si sta perdendo, incoraggi la collettività alla riscoperta delle proprie radici.
In molti casi sta succedendo. Nello storico centro polifunzionale di Alagna, Davide Filié tiene un corso di titzschu, la versione locale del walser, per i ragazzini del paese. «Una lingua è ancora viva se due bambini, almeno due, la usano per giocare», afferma convinto. E i bimbi sono tornati anche a Ostana, minuscolo borgo occitano della Valle Po dove il regista Giorgio Diritti ha ambientato il film Il vento fa il suo giro. All’inizio del Duemila, quassù vivevano sei persone, oggi i dati della municipalità parlano di 85 abitanti. Si valorizzano le risorse tradizionali unendole ai nuovi modelli di sviluppo sostenibile, si organizzano corsi e seminari e un festival internazionale dedicato alle "scritture in lingua madre".
Similmente, tra gli ulivi della Grecia salentina si comincia a pensare che il recupero della memoria sia anche sinonimo di economia, e i comuni si sono uniti per difendere le loro peculiarità, a cominciare da quella linguistica. «In questi paesi ora non si costruiscono palazzine. La gente è fiera dei propri canti, del proprio cibo. La modernità non è stata rinnegata, ma internet convive con la pizzica».
Certo, qui, come in tutte le altre isole minoritarie d’Italia, il timore è che la cultura locale si trasformi in semplice folklore a uso dei turisti. Un rischio, tuttavia, che vale la pena di correre, se non si vuole scomparire.


sabato 18 agosto 2018

Limena, la conversione di Guido Trieste in un santino del 1945


Guido Trieste e la sua conversione al cristianesimo in un santino del 1945
di Bruno Trevellin

Le due foto riproducono il santino (recuperato al mercatino di Piazzola sul Brenta) con il quale Guido Trieste, noto rampollo dell’illustre famiglia ebraica padovana, ha voluto ricordare la sua conversione al cristianesimo, con il battesimo celebrato presso l’Istituto San Gaetano di Vicenza (la villa si trova a Vaccarino, che è sì in provincia di Padova ma nel territorio della diocesi di Vicenza).
Il testo sopra l’immagine della croce con al centro il cuore trafitto di Cristo è la citazione dal Salmo 41,3:

Sitivit anima mea ad Deum fortem, vivum
(L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente)

Sul retro del santino è invece la citazione dal vangelo di Marco (XVI, 16):
Qui crediderit et baptizatus fuerit, salvus erit
(Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo)

Segue nel corpo centrale la memoria con cui Guido Trieste “ricorda a tutti gli amici il giorno solenne in cui entrò a far parte della famiglia cristiana”
La data riportata è il 5 luglio 1945, un giovedì.
A Guido Trieste è intitolata la via alberata di Limena in Tavello che conduce alla villa di Vaccarino

Brevi note sulla famiglia Trieste
La famiglia Trieste nel ‘700 risiedeva nel ghetto a Padova e Mosè, figlio di Jacob, “era un importante industriale della seta e dava lavoro a più di mille cristiani. Ma nel 1779 Mosè Trieste dovette chiudere la sua attività perché un’ordinanza del Senato veneziano vietò agli ebrei il commercio della seta”[1].
Con la caduta di Venezia prima sotto l’Austria (con il trattato di Campoformido del 1797) e poi nel 1805 in mani francesi, numerose famiglie del patriziato veneto, perseguitate dai debiti, si videro costrette a vendere le proprietà fondiarie. Con Napoleone anche le famiglie di ebrei possono partecipare all’acquisto di queste proprietà. Nel 1808 i Trieste rilevano la proprietà (villa e terreni) già appartenuti ai Savonarola di Padova fin dal ‘400[2].



[1] http://www.padovanet.it/sites/default/files/attachment/C_1_Allegati_6702_Allegato.pdf
[2] http://www.studioghirlanda.com/studio/sites/default/files/archivio_post/ROTARY%20CLUB%20PADOVA%20-%20Villa%20e%20Parco%20Trieste%20a%20Vaccarino%20di%20Piazzola%20sul%20Brenta.pdf

venerdì 17 agosto 2018

Astronomia. L'espansione dell'Universo scoperta da un sacerdote


Astronomia. L'espansione dell'Universo scoperta da un sacerdote

Piero Benvenuti venerdì 17 agosto 2018
Proposto riconoscimento postumo a George Lamaître. Gli astronomi: cambiare nome alla legge di Hubble
George Lemaitre (1894-1966)
Dal 20 al 31 agosto, più di 3.500 astronomi provenienti da un’ottantina di Paesi si incontreranno a Vienna per partecipare alla XXX Assemblea Generale dell’Unione Astronomica Internazionale (IAU). L’Assemblea si celebra regolarmente ogni tre anni e ha come obiettivo principale quello di stimolare la collaborazione internazionale sui temi più attuali della ricerca astronomica.
Durante le Assemblee Generali vengono anche approvate delle 'Risoluzioni', ovvero delle decisioni condivise dagli astronomi professionisti su questioni astronomiche. Famosa rimane la Risoluzione votata a Praga nel 2006 che ridefinisce le caratteristiche che un corpo celeste deve possedere per essere chiamato 'pianeta'. Tale definizione escluse Plutone dalla famiglia dei Pianeti del nostro Sistema Solare e lo riclassificò come pianetino o pianeta nano, una decisione ancor oggi fortemente contestata dal grande pubblico, soprattutto statunitense, su basi più sentimentali che scientifiche.
Anche quest’anno verrà presentata una Risoluzione che, se approvata, richiamerà l’attenzione generale: si propone infatti di modificare il nome della famosa 'Legge di Hubble', utilizzata per indicare la recessione delle galassie e l’espansione dell’universo, chiamandola 'Legge di Hubble-Lemaître'. Per comprendere le motivazioni della proposta, è necessario ripercorrere la storia della scoperta che ha dato inizio alla nuova cosmologia, una storia colorata di giallo.
Nel 1927, il sacerdote e astronomo belga George Lemaître (1894-1966), applicando alla totalità dell’universo le equazioni della Relatività Generale, enunciate da Albert Einstein pochi anni prima, scopriva che la soluzione matematica prevedeva che l’universo fosse in espansione: un risultato assolutamente inaspettato. Lemaître, raccogliendo dalla letteratura i pochi dati allora disponibili sulla velocità di spostamento delle galassie, verificava che essi confermavano in maniera convincente la sua previsione teorica. Il sacerdote, certamente cosciente della portata rivoluzionaria della sua scoperta, pubblicava subito il risultato su una rivista belga di astronomia, in lingua francese, ma la scarsa diffusione della stessa lasciò la notizia quasi disattesa.
L'anno successivo però si tenne a Leiden, in Olanda, la terza Assemblea Generale dell’Unione Astronomica Internazionale cui Lemaître partecipò, unitamente ai più importanti astronomi dell’epoca. La sua scoperta destò grande interesse, ma anche notevole scetticismo: Einstein ne definì ineccepibile la matematica, ma 'abominevole' l’interpretazione fisica. L’americano Edwin Hubble invece, da valente astronomo sperimentale, ritornò in America eccitato dalla discussione avuta con Lemaître e iniziò subito una campagna osservativa con il nuovo telescopio da 100 pollici di Mount Wilson per verificare l’ipotesi del sacerdote belga. Un anno dopo, nel 1929, pubblicava il famoso articolo che confermava, con l’evidenza dei nuovi dati, la legge di espansione dell’universo che, da allora, prese il nome di 'Legge di Hubble'.
La storia, come in un intrigo poliziesco, non finisce qui perché, sollecitato dell’astronomo reale Sir Arthur Eddington, George Lemaître tradusse in inglese il suo lavoro originale per la nota rivista inglese Monthly Notices. La versione inglese però, mentre riporta fedelmente il modello teorico, tralascia di pubblicare i dati osservativi che ne rappresentavano la verifica sperimentale. Per qualche tempo gli storici sospettarono un complotto editoriale, ordito per non oscurare la fama già conquistata dall’astronomo americano, finché da una lettera ritrovata negli archivi di Lemaître si capì che lui stesso aveva deciso di omettere i dati perché, dopo la pubblicazione di quelli di Hubble, riteneva quest’ultimi più numerosi e convincenti dei suoi. Da qui la motivazione della Risoluzione che vuole riconoscere il valore, la modestia e l’onestà intellettuale di George Lemaître, correggendo una non piccola distorsione storica.
Lemaître, nella sua duplice veste di cosmologo e sacerdote, va anche ricordato per aver suggerito a Papa Pio XII di evitare di identificare il Big bang dell’emergente modello cosmologico con il Fiat Lux biblico, come il Pontefice si era espresso in un discorso pubblico: non solo perché la comprensione e la verifica della nuova cosmologia era ancora agli inizi, ma anche perché, come Tommaso d’Aquino già aveva perfettamente intuito, la Creazione non è assimilabile a un evento che avviene nello spazio e nel tempo. Di fatto il Pontefice ascoltò il saggio consiglio e nella sua allocuzione rivolta agli astronomi riuniti nella VIII Assemblea Generale dell’IAU, che si tenne a Roma nel 1952, non v’é traccia di alcun ingenuo concordismo.
Questa storica ed interessante interazione tra la cosmologia nascente e il Magistero ci porta ad una considerazione di grande attualità. Dalle iniziali scoperte di Lemaître e Hubble, dopo quasi un secolo di entusiasmanti nuove ricerche, il modello cosmologico si è saldamente affermato e, se da un lato, come tutti i modelli scientifici, continuerà ad evolvere, ha definitivamente eliminato ipotesi non più sostenibili. Si tratta di una svolta epocale, che potremmo definire il completamento della rivoluzione copernicana.
Infatti, quando Galilei, nelle notti fatali dell’inverno del 1609-1610, apriva con il suo cannocchiale una nuova era dell’astronomia, contemporaneamente infrangeva per sempre le sfere cristalline della cosmologia aristotelica e soprattutto eliminava la divisione sostanziale tra mondo terreno e l’empireo celeste. Non era in grado però di rimpiazzare il modello aristotelico con una cosmologia altrettanto completa e comprensibile: solo oggi la scienza moderna è riuscita ad offrire una visione unitaria e razionale dell’universo e della sua storia evolutiva, sorprendentemente diversa da quanto i nostri antenati avevano immaginato. Durante tutto questo tempo, in assenza di una cosmologia credibile, la filosofia e la teologia, e quindi la Tradizione cristiana e il suo Magistero, hanno continuato a svilupparsi sulla base dell’unica concezione del mondo allora disponibile e la drammatica separazione tra pensiero scientifico e pensiero umanistico, iniziata proprio con la rivoluzione copernicana, non ha aiutato a comprendere la portata universale del cambiamento in atto. Per questo motivo, molte formulazioni dei dogmi di fede sono diventate oggi incomprensibili e rischiano di trasformarsi in un insostenibile fardello per gli uomini di scienza (e non solo loro) che vogliono diffondere il messaggio evangelico senza dover abiurare la loro conoscenza scientifica del reale.
Il caso forse più eclatante e più vicino a noi è rappresentato dalla formulazione del dogma dell’Assunzione, proclamato solennemente ex cathedra da papa Pio XII nel 1950. Il testo della proclamazione spiega chiaramente che il Magistero intendeva elevare a dogma di fede una tradizione popolare nata nei primi secoli dell’epoca cristiana e consolidatasi nel Medioevo, quindi nell’ambito di una visione del mondo essenzialmente aristotelica, nella quale il «cielo» verso il quale la Vergine è stata assunta «anima e corpo», aveva una sua collocazione precisa nel modello cosmologico allora vigente. Evidentemente, la formulazione letterale del dogma è divenuta oggi incomprensibile e, purtroppo, non offre molti appigli per darne una interpretazione simbolica che salvi il nucleo di fede che essa vuole esprimere e che la Tradizione secolare voleva significare. Un analogo ragionamento si potrebbe estendere a molte altre formulazioni, incluso il Simbolo Niceno, che risentono in modo più o meno evidente di una filosofia della natura non più sostenibile.
Il rischio, elevatissimo ed impellente, è che le nuove generazioni o le culture non occidentali che vogliano avvicinarsi al messaggio evangelico, si trovino di fronte a una barriera, perché si trova un linguaggio del passato non più comprensibile. I teologi dovrebbero quindi – e molti già lo fanno – considerare come prioritaria la revisione del prezioso bagaglio della Tradizione e recuperarne il valore salvifico interpretandone il senso e riformulandolo. A mio parere, è questo il senso dell’accorato appello della costituzione apostolica Veritatis Gaudium, o almeno della prima parte, scritta di pugno da papa Francesco: sta ora alle facoltà teologiche orientare i curricula dei loro corsi di studio, reintroducendo le materie scientifiche, da tempo abbandonate, e soprattutto la 'pietra di paragone', la cosmologia, com’era ai tempi gloriosi di Tommaso d’Aquino.