JEAN BASTAIRE,
Prefazione a Il portico del mistero della
seconda virtù di C. Peguy, ed. Gallimard (1986)
(traduzione
di B. Trevellin)
All’anemia dell’essere
Peguy oppone una terapeutica spirituale radicale che ha come strumento il poema
il cui compito più alto non è di abbellimento, ma di conversione, di
morte-resurrezione.
Con una stupefacente
intuizione Peguy fa della dannazione un esilio e un fallimento di Dio che, per
evitarlo, si riduce a sperare nel peccatore, prendendo Lui l’iniziativa,
contando sul peccatore, trepidando per lui nell’attesa che si ravveda.
Il mistero centrale del
cristianesimo è l’incarnazione e perciò ogni disprezzo per la carne, ogni disprezzo
del temporale è un abominio, perchè Dio ha tanto amato il mondo, non solamente
le anime, ma anche i corpi, la terra, la creazione, al punto che per essi ha
donato suo Figlio.
Una creatura, Maria, è
il prototipo della nuova umanità resuscitata in Cristo, superiore agli uomini e
agli angeli, perché lei sola totalmente terrestre e totalmente divinizzata.
Peguy inoltre
stabilisce un accostamento fondamentale tra infanzia e resurrezione.
L’innocenza dei bambini è esplosiva, loro non conoscono il dubbio, corrono per
correre e non per arrivare, sono puro slancio, irresistibili, hanno la
freschezza di una terra parusiaca.
Un
gran testo non è solamente bello. Crea della vita, ha un’influenza seminale.
Così per i Miserabili o le Illuminazioni. Tra le opere di Peguy
nessuna ha meglio giocato questo ruolo fecondante quanto Il portico del mistero della seconda virtù. Innumerevoli lettori ne
sono stati beneficiati. Certamente ne hanno attinto la forza di una
resurrezione intima.
Si
tratta di ben altra cosa che di una fortuna temporanea, legata al clima di una
generazione. Il punto d’impatto del Portico
è la ferita dalla quale sgorga, in ogni uomo, il sangue dell’anima. All’anemia dell’essere, quando non ha
che voglia di dormire e di morire, Peguy
oppone una cura radicale. Egli non ne fa un motivo di ragionamento, ancor
meno con ammonimenti o consigli. Egli ha orrore della morale e si fa beffe
della psicologia. La sua terapeutica è
spirituale. Ha come strumento il poema.
Non
c’è poeta veritiero che non sia un avventuriero dello spirito. Peguy illustra
questa definizione che esclude gli edonisti della penna e i pettegoli pieni di
miasmi. Non si entra sotto il suo portico, dall’aspetto piccolo, senza mettere
tutto a rischio. O piuttosto ci si sente spinti dal rischio supremo di perdere il
coraggio e di cadere nel vuoto.
Peguy
si è assunto questo impegno, in un campo di rovine. A parte i propri figli, non
c’era niente altro di sicuro in grado di dare senso alla sua vita. La
tradizione dreyfusiana e l’avvilimento del socialismo avevano minato la sua
fede rivoluzionaria, avvelenato la sua gestione dei Cahiers, distrutto la sua famiglia. A colmare la disgrazia, lo
consumò un amore impossibile.
L’inno alla speranza
che il Portico è, ha origine dalla
disperazione più profonda. Non è un caso se un tale seguito
di pagine candide si chiude sulla notte del Venerdì Santo e la sepoltura di
Gesù: non con l’angoscia, ma con la pacificazione di un riposo misterioso, che
non sappiamo ancora se terminerà con la Pasqua, anche se lo fa pensare. Come se
lo sfinimento dell’autore, dopo questa lotta invisibile con l’angelo, alla fine
devolasse, doloroso segno in fondo al quadro.
L’opera
deve senza dubbio a queste circostanze una tensione esistenziale che le
permette di evitare bene le insidie. Essa è stata troppo spesso asservita a una
lettura semplicistica, a pezzi scelti, che svuota quello che la sua tenerezza
ha di sofferenza purificatrice, di amarezza trasfigurante. In realtà il Portico incarna alla lettera quello che
il testo stesso dice dell’acqua cattiva divenuta sorgente viva. Sostenuta dalla speranza, la poesia svolge
il suo compito più alto che non è di abbellimento, ma di conversione, di
morte-resurrezione, tirando fuori dal male la luce.
*
Di
colpo, essa ritrova una funzione
teologica e mistica che il cristianesimo occidentale ha trascurato in lei
da lunghi secoli, abbandonando a veggenti incerti, più o meno eretici, ciò che
si lascia sfuggire l’ortodossia delle speculazioni dialettiche: la carne
dell’esperienza religiosa, il soffio del contatto ontologico.
La
poesia teologica torna alla grande tradizione simbolica, così vivida fino al
XII secolo e che il cristianesimo orientale ha mantenuto fino ai nostri giorni.
Non diciamo che pensi per miti, queste vaste immagini materne nelle quali si
concentra un’esperienza decisiva. Pensa
per segni. Ma anziché essere prese dall’universo astratto del concetto,
questi segni provengono dalla realtà
concreta, fenomenica, storica. Il mito stesso, senza dubbio privilegiato,
non è altro che un segno.
Il poeta teologo, come
il teologo simbolico, procede a una lettura della Creazione. Il mondo per lui è
una santa Scrittura in cui si trova narrato un evento
sublime: lo stesso che racconta nell’altro Libro e che è fissato nelle parole
dei patriarchi, dei profeti e degli evangelisti. Ci sono così due vie per la
Rivelazione. Anziché fare due esempi, esse si fanno eco, come se fin dall’inizio
la Parola divina, nello stesso tempo che prende forma nei testi sacri, avesse
voluto incarnarsi in una carne cosmica.
Quando
Peguy evoca l’anima-cavallo e il corpo-aratro, contempla la pioggia dei giorni
peggiori per la buona terra delle anime, trasmette la speranza come su una
sepoltura si passa l’acqua benedetta, non si comporta come un creatore di
immagini venute bene, tanto più efficaci quanto limpide. È molto più di tutto
ciò: un lettore fedele che, attraverso la realtà umana, decifra la realtà
divina.
Col
suo tono furbo e coi suoi zoccoli grossi, egli comprende il linguaggio di Dio.
Così non è sorprendente che faccia parlare Dio.
Lungi
dall’essere un procedimento letterario, questo audace obbedisce a una logica
intima. Nessuno meglio di Dio potrà
offrire la parola essenziale che prima di incarnarsi in Gesù ha inscritto in
ogni creatura. Se maneggia con una scioltezza sovrana il linguaggio delle
creature e delle cose, è perché ne è l’autore. E se Peguy ne è lo scriba miracoloso, è perché svanisce davanti al Padre
del Verbo. “Dice Dio”, nota egli
semplicemente. “Parola di Yaweh”,
affermano i profeti. Nell’uno e nell’altro caso, Dio annuncia se stesso nell’annunciare il mondo.
Così
si spiega uno degli aspetti più sconcertanti del Portico: il lato terra terra, banale di questa visione. Il segno
scelto pare insignificante e si accende improvvisamente di un significato
segreto. Non è distrutto ma magnificato per lo spiegamento dei sensi. Il muto
parla tutto d’un tratto. Il silenzio dei giorni quotidianamente si scioglie.
Una lode insolita s’innalza da un universo qualsiasi, dal quale non ci si
attende che dell’ordinario.
Così
il poema sposa un fiume di immagini famigliari e domestiche: i figli, il padre,
la madre, lo zio, a una folla di citazioni evangeliche e liturgiche: Matteo,
Luca, Giovanni, l’Ave Maria, il Salve Regina, senza dimenticare Villon, La
Fontaine e Hugo. “Tutto fa ventre”, direbbe la saggezza popolare alla quale
Peguy egualmente ricorre. Tutto serve a
investigare l’amore e al chiarimento mistico.
*
L’ammirevole
nel portico è che con parole terrene, con immagini carnali che non hanno nulla
di filosofico, con movimenti del cuore che sono quelli di ogni creatura, Peguy rivoluziona il cristianesimo nel
senso che, come dice altrove, “una rivoluzione è un appello di una tradizione
meno perfetta a una tradizione più perfetta”. La sua teologia della speranza distrugge definitivamente il giansenismo e
sgombra la strada regale del vangelo, troppo lungamente ingombrata da paure
che si fanno beffe della croce di Cristo.
Non
solo l’autore del Portico ritorna all’interiore suo dramma personale
dell’esilio e della sconfitta, convertendo la disperazione in tenerezza e
la derelizione in abbandono creativo. Ma inverte parallelamente un dramma
ontologico più generale che lo perseguita fin dalla sua giovinezza e che è al
cuore della sua meditazione di Giovanna d’Arco: l’esilio e la sconfitta dei dannati. Con una stupefacente intuizione,
egli fa della dannazione un esilio e un fallimento di Dio.
Per
evitarlo, Dio si riduce a sperare nel peccatore come il peccatore spera in Dio.
Dio prende l’iniziativa. Là come in
amore e come in tutte le cose, egli prende l’iniziativa, egli dà l’esempio. Ciò non spiega del resto il più perfetto amore, dove colui che ama si
sottomette all’amato, conta sull’amato? Dio
conta sul peccatore, trepida per lui nell’attesa che si ravveda e, come il
figliol prodigo, venga a cadere tra le sue braccia.
Non
meno feconda è un’antropologia che scarta ogni tentazione manichea e fa
dell’uomo un insieme nel quale il corpo
e l’anima “simbolizzano” (si uniscono) e non “demonizzano” (si dividono).
Con un’immagine sorprendente, alla quale in Eva
altre di così belle fanno eco, Peguy
paragona il corpo e l’anima a due mani giunte nella preghiera o a due polsi
legati dal peccato. Corrono la stessa avventura. E il poeta ha l’audacia di
rovesciare una proposizione ahimè troppo usuale, benché non cristiana, secondo
la quale gli angeli sono fortunati a
non avere un corpo. Per Peguy, è una mancanza, poiché non possono imitare Gesù, dal momento che non hanno “lo stesso corpo di
Gesù”.
Il
mistero centrale del cristianesimo è l’incarnazione. Dio si è veramente fatto
uomo perché l’uomo si faccia veramente Dio, secondo l’adagio tradizionale dei
Padri della Chiesa. Ogni disprezzo per
la carne, ogni disprezzo del temporale è un abominio, perchè è un disprezzare e
detestare la condizione reale che il Verbo ha assunto per salvarla. Dio ha
tanto amato il mondo: non solamente le anime, ma anche i corpi, la terra, la
creazione, al punto che per essi ha donato suo Figlio.
Una
creatura è il prototipo della nuova
umanità resuscitata in Cristo: Maria madre di Gesù. Lei è superiore agli
uomini e agli angeli, senza ombra di peccato. Lei sola è una perfetta imitazione di Gesù, perché lei
sola è totalmente terrestre e totalmente divinizzata. Lungi dall’essere un
pietismo devoto, il culto di Peguy per
Maria è un’esaltazione del temporale per l’eterno, una glorificazione della
carne per lo spirito.
Parimenti
il ruolo attribuito all’infanzia dall’autore
del Portico è agli antipodi di ogni
puerilità. Sono solo gli adulti a essere
infantili. I bambini sono nuovi, baldanzosi. Con la freschezza di una terra
parusiaca, la loro innocenza è esplosiva. Loro
non conoscono il dubbio. Secondo la loro gratuità, corrono per correre e non per arrivare. Sono puro slancio. Ecco
perché sono irresistibili.
Tra
le sue due sorelle maggiori la fede e la carità, la speranza è una figlia
piccola che tutto trascina. L’immagine trovata da Peguy è talmente giusta che
ha fatto il giro del mondo. Essa riassume il Portico, perché così come esprime
il “puer eternus” dell’inconscio collettivo, esiste un accostamento fondamentale tra l’infanzia e la resurrezione, e
la speranza apporta la grazia anticipata della Pasqua.