sabato 16 giugno 2018


Scrittori veneti del ‘900
Romanzi e racconti di Cibotto, Camon, Piovene, Parise, Rigoni Stern, Meneghello, Paolini, Scabia, Buzzati, Comisso, Galletto (con interviste, audiolibri, filmati, documentari)
Attività realizzata nella classe 3 A (ottobre-dicembre 2017, prof. Bruno Trevellin)






Gian Antonio Cibotto, Scano Boa
Scano Boa
Avvertenza: È inutile cercare sulla carta geografica le località no­minate in questo libro (o tentare gratuite identificazioni dei personaggi). L’esattezza geografica non è che una illusione. Il delta padano, per esempio, non esiste. Lo stesso dicasi, a maggior ragione, per Scano Boa. Io lo so, ci sono vissuto.
Entrarono nell’osteria prima il vecchio, poi la ra­gazza, infine il cane, un bastardo di nome Adolfo. Ave­va il pelo tutto arruffato e gli occhi chiari, segnati da una striscia rossa come quelli del padrone, che subito si diresse verso il banco, dove alcuni pescatori stavano discutendo sottovoce. Questi lo sbirciarono un istante, con indifferenza, poi ripresero il loro discorso, passandosi ogni tanto dei bicchieri di vino bianco, versato da un fiasco che, una volta scolato, lanciarono contro il muro sotto la finestra. Al tonfo, seguito dallo scroscio dei frantumi, alzarono lo sguardo anche i giocatori incollati ai vari tavoli, avvolti dal fumo. Dopo un primo, confuso brusìo, misto a qualche risata, su­bentrò un fondo silenzio, per cui si poteva udire niti­damente il crepitio della sabbia mulinata dal vento, che cercava di arrampicarsi sui vetri della finestra. S’intro­mise bruscamente però la voce rauca del padrone, che irrompendo a testa bassa borbottò una serie di parole confuse a bestemmie. Visto che si trattava soltanto di un fiasco, scoppiò a ridere in maniera convulsa, senza nemmeno badare ai nuovi venuti.
– A che ora passa la corriera per Pila? – gli chiese il vecchio allungando la testa sopra il banco, quasi a restringere il discorso fra loro due. Ma il padrone conti­nuava a sorridere perso nel vuoto e soltanto alla terza richiesta parve destarsi, cominciando a scrutarlo in volto.
Contro i suoi occhi segnati dalla stanchezza erano puntati due globi acquosi, privi di riflessi, sui quali le palpebre calavano faticosamente, aride, secche, invano ammorbidite da un solco di lacrime che si perdevano nella peluria delle guance. Nel rilevare come la parola corriera veniva spiccicata a fatica, impastandosi fra le sue labbra colanti saliva, il vecchio si disse che il pa­drone era ubriaco.
Fatto allora un cenno con la testa alla ragazza, che sedette prontamente all’unico tavolo rimasto libero, mentre il cane le scodinzolava ai piedi stretti intorno al sacco di farina e alla cassetta di legno, si rivolse infa­stidito ai pescatori che già stavano andandosene.
Lo accolse un’esclamazione di sorpresa, poi un coro disordinato di risposte, però il vecchio afferrò solo la frase del più vicino, che urlandogli nell’orecchio spiegò come in seguito alle piogge ed alla piena del fiume la strada sull’argine fosse franata, e quella interna in con­dizioni impraticabili.
– La corriera non fa più servizio da tre giorni – soggiunse un pescatore accompagnando le parole con un largo gesto delle mani, quasi a sottolineare la fatalità della situazione, – e sembra che non passerà nem­meno domani. Almeno così ha detto il geometra del genio civile – concluse brevemente, – quando ho telefonato per ordinare le gabbie di cemento.
Il vecchio rimase di stucco, come se l’avesse colpito un pugno in faccia, ma dopo qualche istante di smar­rimento riuscì ad articolare un esitante:
– Che altro mezzo porrei trovare?
Gli rispose un’alzata di spalle, poi un rapido sventolare di mantelli buttati sulle spalle, mentre tutto il gruppo si avviava verso la porta d’uscita che nel richiudersi violentemente fece cadere agli angoli la polvere bianca dell’intonaco.
Il vecchio li seguì qualche istante con sguardo atton­ito mordendosi lievemente il labbro, infine raggiunse la ragazza ed il cane. Aveva appena cacciato le gambe sotto il tavolo, che si rialzò diretto al banco per ordinare qualcosa da mangiare. Anche stavolta il padrone sembrò non afferrare le sue parole, ma poi, d’improvviso, si riscosse, e affacciato sulla porta della cucina barbugliò alcuni suoni gutturali.
Dopo un lento strascicare di passi comparve una donna grassa e corpulenta, che prima di esporgli la lista dei cibi si fermò a soppesarlo incuriosita, con aria vagamente servizievole. Il vecchio tagliò corto e, ordinando la minestra e il vino, ritornò sui suoi passi senza degnare di attenzione gli altri avventori dispersi nella sala.
Mentre il padrone armeggiava intorno alla botte di legno, quasi spillarne mezzo litro costasse una fatica improba, l’occhio del vecchio si spostava inquieto ver­so la finestra, e soltanto all’arrivo dei piatti parve ren­dersi conto della presenza della ragazza, cui con ruvi­do tono affettuoso chiese se avesse freddo. Per tutta risposta lei cominciò a sbottonarsi il pastrano militare lungo fino alle caviglie, e di scatto dal mucchio infor­me di stracci balzò fuori una cosa viva, un corpo che nella sua acerbità rivelava già forme di donna. Se ne accorsero subito i giocatori del tavolo vicino, e i curiosi che facevano ressa commentando i vari scarti dello scopone, perché di scatto nel locale prese a serpeggiare una strana inquietudine, un moto impercettibile di ner­vosismo, come se un fatto nuovo fosse sopraggiunto a turbare l’attenzione fino allora costante dei giocatori.
In un accesso di puerile galanteria, alcuni pescatori si diressero strascicando gli stivaloni di gomma verso il banco, parlando ad alta voce per richiamare su di loro attenzione. Sennonché la ragazza continuò impassibile ad immergere il suo cucchiaio nel piatto, mettendo da parte dei bocconi che allungava al cane in attesa sotto il tavolo. Infatti muoveva gli occhi soltanto per assicurarsi che Adolfo mangiava; se talvolta li alzava, era per indugiare su qualche gruppo di giocatori, per un attimo, senza alcun interesse. Il vecchio, per contro, aveva trangugiato la sua porzione di fretta, ed ora continuava a passarsi la mano sulle guance, tormentandosi la lunga bar­ba spinosa sempre immerso in strane riflessioni, che si trasformavano in profondi sospiri. Si riscosse al fragore di una motocicletta in arrivo che venne a fermarsi giu­sto davanti all’osteria, sbarcando uno strano tipo di mezzadro che abitava in una casa poco lontana.
Spalancando la porta accolto da un buonasera generale, il contadino annunciò di aver fatto una puntata per acquistare un fernet necessario alla moglie che si sentiva male. Rimase invece fino a notte inoltrata, quando oramai nel locale si trascinavano pochi avvinazzati, e fra mugugni e imprecazioni continuò a farsi riempire il bicchierino di liquore, proclamando ogni volta:
– Dammene un altro, così fa bene a mia moglie.
Giunto al traguardo dei dieci, il padrone tentò di fargli capire che la sbornia di fernet picchia nella testa, ma di fronte alla sua vivace reazione mise subito mano a una seconda bottiglia. Anzi gliela allungò per il collo oltre il banco, affinché potesse servirsi con più comodo.
Purtroppo dopo averne ingollato un paio di sorsi, il contadino, stufo di dialogare con l’oste, si diresse barcollando verso un tavolo dove ancora stavano giocando a scopone, e con tono categorico intimò ad un biondo lentigginoso, segaligno, che proprio in quel momento stava gettando una carta, di berne un sorso.
– Così fa bene a mia moglie – biascicò stentata­mente, appoggiandosi al tavolo.
Visto che quello nemmeno gli badava, allungò la bottiglia d’impeto verso gli altri tre giocatori, che respinsero tutti la sua offerta sdegnosamente.
– Allora non vuoi che mia moglie guarisca? – si­bilò risentito verso il tipo lentigginoso che stava nuovamente levando con trepidazione una carta. – E io sai che ti dico? – proseguì sempre più inviperito – ­non ti lascio più giocare.
E nel dire questo si chinò sul tavolo, spazzando via con il braccio le carte.
Non fece però in tempo a buttar via l’asso di denari, conficcatosi sotto la lavagna dei punti, che uno schiaffo sonoro lo fece barcollare all’indietro. L’amara sorpresa durò un attimo, perché ritornò di nuovo con la mano a strappare la carta. Anzi nella foga passò sopra con la manica della giacca ai numeri segnati col gesso sulla lavagna, cancellandoli tutti.
Si prese nel muso un nuovo ceffone, al quale reagì con una spinta violenta, usando la bottiglia di fernet come una clava. Ma gliela strapparono subito di mano, e mentre sferrava un cazzotto al fegato di un estraneo che non aveva esitato a intromettersi, lo raggiunse sulla fronte una seggiolata che gli spaccò la testa.
Cadde a terra svenuto con il sangue che gli colava per la guancia dentro la camicia, e mentre l’oste dietro il banco si raccomandava che la smettessero, gli altri continuarono a picchiarlo.
Attanagliati da una specie di follia vendicativa, invece di limitarsi a percuoterlo con le mani, cominciarono a tempestarlo di calci contro il petto, i fianchi, le gambe, senza che desse più segno di vita.
– Buttiamolo fuori – propose il biondo dopo avergli sputato in faccia pieno di disprezzo, e mentre due lo sollevavano per le braccia e un terzo per i piedi, lo gettarono in mezzo alla strada.
Poi rientrarono spazzolandosi alla meglio i vestiti, ma invece di riprendere il gioco ordinarono all’oste una grappa ed il conto. Prima però di tirar fuori i sol­di indugiarono a chiacchierare sull’accaduto, concludendo che in fondo era tempo di dare una lezione a quell’ubriacone.
– Così potremo passare una sera finalmente in pace – mormorò il biondino accennando fra le labbra uno strozzato buona notte e pigliando il berretto dall’attaccapanni. Ma non uscì fuori dal cerchio di luce dell’insegna, che già tornava sui suoi passi.
– Dammi un secchio d’acqua – ordinò all’oste che si affrettò a staccare una pentola di rame dal buio della cucina, mettendola sotto il rubinetto.
Il biondino l’afferrò destramente con una mano, e mentre un amico teneva socchiusa la porta, rovesciò il secchio contro l’ombra che si intravedeva per terra nella polvere della strada.
– Vedrai che quel bastardo adesso si sveglia – ­gridò alla combriccola di amici che sorridevano, po­sando il secchio su un tavolo. Poi se ne andarono tutti insieme lungo la carreggiata, e ogni tanto, portata dal vento, si sentiva arrivare l’eco del loro fitto parlottio che si consumava in lontananza.
Appena usciti, l’oste con una agilità sorprendente, si affrettò a sprangare la porta. Erano rimasti dentro però il vecchio con la ragazza, e prima di spegnere la luce esitò perplesso, imprecan­do fra i denti, nel rendersi conto che se li sbatteva fuori, avrebbero dovuto trascorrere la notte all’aperto. Si limitò allora a raccogliere i bicchieri sparsi sui tavoli ed a prendere sottobraccio la pentola di rame, borbot­tando una buona notte incomprensibile. Poi girò l’interruttore della corrente elettrica e si avviò lentamente.
(da Gian Antonio Cibotto, Scano Boa)

Un’intervista a Cibotto (da Il Mattino di Padova, 8.10.2003)
GIAN ANTONIO CIBOTTO E I VECCHI PESCATORI DEL SUO DELTA PADANO

«Maravegia» del Delta padano o luogo dalla geografia immaginaria, Scano Boa è un incanto riservato ai pescatori, che prende vita, prima che sulle carte topografiche, nello sguardo di chi cerca un paradiso. Suona cosi l'avvertenza che Gian Antonio Cibotto ha premesso al suo romanzo del Po: «Inutile cercare sulla carta geografica le località nominate nel libro. L'esattezza geografica non è che un'illusione. Il Delta Padano, per esempio, non esiste. Lo stesso dicasi, a maggior ragione, per Scano Boa. Io lo so, ci sono vissuto».
Che cos'è oggi Scano Boa?
«E' un'isola sospesa in una realtà che appartiene alla fantasia. Quando c'era il Delta, Scano Boa era la sua perla, il luogo dei luoghi, dove la natura vinceva sugli uomini. Il suo fascino era legato al casone di canna, rifugio dei pescatori quando il mare diventava un nemico difficile. Un monumento sui generis, al quale più tardi ha iniziato a fare compagnia una statuina della Madonna, che una notte il fuoco dei vandali ha ridotto in cenere. Adesso che il Delta ha cambiato faccia, anche Scano Boa ha smesso di esistere. E il romanzo è divenuto una testimonianza rara, un documento che aiuta a capire in maniera abbastanza fedele com'era il Delta nei giorni in cui poteva succedere di nascere o di morire in barca».
Com'è cominciato il legame che ha unito la sua vita di scrittore al paesaggio del Delta e alla sua gente?
«Ho conosciuto le località disseminate nel delta del Po quando ero bambino. Ci andavo con mio padre, che ha dato vita alle prime cooperative di pescatori. La gente, allora, faceva una vita poverissima. Non esistevano case in muratura, solo capanne. Scano Boa era come staccata dal resto del mondo. Se qualcuno si ammalava, i familiari appendevano all'esterno delle capanne degli stracci bianchi. E quando il medico ogni tanto passava con la barca, quello era il segnale per lui. Questo romanzo si dice che sia stato ispirato alla storia vera di un uomo che, per riscattare il figlio dalla prigione, insegue il mito della pesca allo storione a Scano Boa. Ma, vinto dall'impossibilità di raggiungere la somma di denaro necessaria, si toglie la vita e sulla barca che ne trasporta il cadavere accade che venga caricata una donna con le doglie del parto. Si, le storie sono vere ma in realtà sono due. Una, quella del «foresto» morto inseguendo il miraggio di arricchire con la pesca dello storione, è stata il regalo di una chiacchierata con un paio di ex pescatori in una bettola di Scardovari. L'altra, quella della barca carica di un morto, due chierichetti e un prete, che a un certo punto del viaggio è costretta a dare un passaggio ad una partoriente che dopo mezzora dà alla luce una bambina, mi è stata offerta dalla cronaca. Quando ho deciso di raccontarle, dovevano essere Notizie dal Delta, due storie separate. Invece si sono fuse da sole, diventando una favola tragica che ha voluto richiamare l'attenzione su una terra dimenticata. Il vecchio, che si trasforma in pescatore di storioni per amore del figlio, è presentato come uno zimbello della fortuna, che prima gli arride e poi gli si accanisce contro».
E' questo, secondo lei, il destino dei sognatori?
«Il sognatore finisce sempre in bocca alla realtà. Se il vecchio non avesse creduto che avrebbe preso gli storioni, guadagnato molti soldi e riscattato cosi il figlio dalla prigione, non ci sarebbe andato a Scano Boa. Il successo iniziale gli attira l'invidia degli altri pescatori, che temono di vedersi portar via il pane della sopravvivenza e per questo lo isolano. Anche la ragazza e l'aiutante lo abbandonano. Lui resiste, si accanisce. Inutilmente. Non si può lottare da pari con la natura. E' lei che vince e il destino del vecchio è segnato. Lui lo accetta, gli va incontro, e affida al Po il suo ultimo viaggio».
Oggi si vive diversamente nel Delta e a Scano Boa è arrivato il benessere.
«Oggi il Delta per me non esiste più. La Romea si è portata dietro l'inferno. Anche Scano Boa si difende sempre con più difficoltà vista la minaccia della centrale. Per i pescatori, certamente, la vita è migliorata. Ci sono le case in muratura, dopo l'alluvione sono state costruite anche le strade e dei ponti. Le barche hanno il motore e i pescatori fanno meno fatica. Lo storione, però, non esiste più e con lui, che ha preso altre rotte, se n'è andato il sogno. Oggi i pescatori si arricchiscono con le vongole ma violentano i fondali con attrezzi che finiranno col provocare nuove carestie. La natura, alla fine, si rivolta sempre contro gli uomini che non la temono».
Come vede il futuro del Delta?
«Ho paura che accada quello che è già avvenuto nei lidi ferraresi. La sagra del consumismo, delle spiagge attrezzate, il caos che mette in fuga gli uccelli e i sognatori, come me, che amano sedersi sulle rive del fiume a guardare l'infinito. C'era una frazione minuscola, Santa Giulia. Io amavo stare in silenzio sulla sponda del fiume a contemplare quel mare di terra, d'acqua e di verde. Adesso li c'è un ristorante che attira compagnie numerosissime. Io non posso più andarci».
La storia del vecchio pescatore di storioni e la descrizione di luoghi di una luminosità sconvolgente hanno attirato su Scano Boa l'attenzione di poeti, artisti, personaggi del cinema.
«Ricordo le lunghe passeggiate per i meandri del Delta insieme a Pavese, Vittorini, Levi, Einaudi. Erano tutti affascinati da quella quiete carica di suggestioni. Girovagando tra i canali sepolti dalle canne si respirava l'ineluttabilità del destino. Incuriosito dai racconti contenuti nelle mie Cronache dell'alluvione, Montale espresse un giorno il desiderio che lo accompagnassi a visitare i luoghi dove erano ambientati. Quando ormeggiammo a Pila, dove intendevo condurlo al mercato del pesce, fu affascinato dalla visione del grande faro per i naviganti, dove il Po si tuffa in mare. Ci fu consentito di salire e Montale fu colpito da un'evidente emozione. Incominciò a cantare strofe di romanze che gli passavano per la mente, di un repertorio quasi infinito. Io e sua moglie, in silenzio, assistevamo incantati a quel concerto di una voce in cielo accompagnata dal vento del delta, che finiva nel mare».
Scano Boa nasce in un periodo neorealista, ma è passato alla storia come una grande favola.
«E' vero, Scano Boa è altro dalla realtà. E la critica lo ha capito subito. Anche il cinema lo ha percepito e il film di Renato Dall'Ara lo conferma, cosi come quello realizzato da Giancarlo Marinelli. Purtroppo il grande Roberto Rossellini non riusci a portare a termine il suo desiderio, un film intitolato Italia mia, che avrebbe dovuto aprirsi con un volo di gabbiano su Scano Boa. Mi disse che per lui l'Italia era quella, quella che lui amava».
Alessandra Lionello
Da: http://ricerca.gelocal.it/mattinopadova/archivio/mattinodipadova/2003/10/08/M10VM_M1002.html





Video intervista a Cibotto (da YouTube 2014)

Attività svolte
Laboratorio di ascolto: ascolto di parti di testo lette dal docente
Laboratorio di ascolto del primo capitolo da audiolibro






Ferdinando Camon, Un altare per la madre


Audio libro, parte prima (da YouTube)

LETTURE/ Camon, un grido dal silenzio del mondo che non c'è più
Con "Un altare per la madre" Ferdinando Camon vinse il Premio Strega nel 1978. Il ritratto di un mondo scomparso, un capolavoro della nostra letteratura.
CARLO BORTOLOZZO 18 ottobre 2017 (Il Sussidiario)
Ferdinando Camon (Foto da Youtube)
Il settimanale Famiglia cristiana ha recentemente riproposto ai suoi lettori il romanzo Un altare per la madre di Ferdinando Camon, con il quale lo scrittore padovano vinse il Premio Strega nel 1978. Il libro conclude la trilogia del "ciclo degli ultimi", inaugurata con Il quinto stato del 1970 e proseguita con La vita eterna del 1972. Un altare per la madre è oggi forse più conosciuto all'estero che nel nostro Paese: è stato tradotto in tutte le principali lingue del mondo; lo scrittore americano Carver lo definì "un'opera d'arte sublime". Meritoria, dunque, l'iniziativa del settimanale dei Paolini, se contribuisce a far conoscere ai nostri sprovveduti connazionali i classici del Novecento italiano (e il romanzo di Camon lo è a tutti gli effetti).
Non sorprende che il libro sia meno noto di quanto meriti, presentandosi come un omaggio, epico ed elegiaco, alla civiltà contadina, oggi negletta, attraverso la rievocazione della figura della madre. La fine della civiltà contadina, secondo Péguy "il più importante avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo", ha in Camon un testimone d'eccezione. Egli, nato nel 1935, visse nella sperduta campagna padovana fino alla fine degli anni 50, quando essa sparì, di colpo e per sempre, travolta dalla civiltà della tecnologia e del benessere. Ricorda Camon in un'intervista a Gabriella Imperatori in Profondo Nord: "Credo di aver traversato una delle fasi di penuria più intollerabili che l'umanità abbia mai conosciuto. Mancava sostanzialmente tutto (…): ho avuto la luce elettrica quando facevo il ginnasio, ho abitato per tutte le elementari in una casa che aveva per pavimento la nuda terra, sotto i nostri piedi sentivamo correre nelle loro gallerie i topi e animali sconosciuti". 
Quella civiltà, che ha segnato secoli di vita italiana e milioni di persone, è oggi dimenticata, rimossa dai vecchi che l'hanno vissuta, mentre i giovani la ignorano del tutto. Probabilmente, la storia mesopotamica è più conosciuta, se non altro perché è oggetto dei programmi scolastici. Provocatoriamente, nell'intervista citata di Profondo Nord, Camon afferma di avere "più parentele culturali e comportamentali con i Bororo che non coi contadini veneti di oggi". 
Come è noto, fu Pasolini a scoprire e a lanciare Camon, scrivendo la prefazione a Il quinto stato, che l'autore definì "bellissima e sbagliata". L'intellettuale "corsaro" aveva "infatti "un'idea arcadica della civiltà contadina perché non la conosceva", tanto che arrivò a dire che avrebbe dato la Montedison per il ritorno delle lucciole; ma, afferma lo scrittore veneto, "il vero contadino non vorrà mai tornare indietro perché allora si stava male, malissimo, da crepare". 
Del Veneto descritto nel "ciclo degli ultimi" non rimane più nulla, nemmeno la memoria. Era fatto di terra, acqua, buoi, stalle, dialetto: un mondo fuori della storia, che sembrava immutabile, dotato di un proprio ordine e di un'interna giustizia fino a che non ha fatto irruzione l'altro, con la sua violenza consumistica, che lo ha travolto. "E' come se da molte generazioni si vivesse tra uomini, animali, terra; mancavano le cose. Adesso è tutto il contrario: uomini e animali sono diventati cose, la terra è sepolta sotto", leggiamo nell'Altare. Secondo il Pasolini di Scritti corsari, non si è trattato di un cambiamento d'epoca, ma di una tragedia. In questo senso, sembra di risentire l'eco delle parole recenti di Papa Francesco: non viviamo in un'epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d'epoca. Questo genera disorientamento e inquietudine, specialmente in chi ha vissuto quegli anni: sono crollati dei valori che sembravano evidenti e indiscutibili fino a pochi decenni fa. 
Ma parlando solo di trasformazioni della società italiana si rischia di fare un torto al romanzo. Come accade ai capolavori, esso si nutre del terreno che lo ha fatto germogliare, ma poi vive di una vita propria, originale ed irripetibile. Si presenta come un rito di salvezza per la madre, contadina poverissima, umile, forte e coraggiosa. Figura ieratica e nello stesso tempo dolce, nella memoria del figlio vive nei suoi gesti e nelle sue azioni, non nelle parole, perché il suo mondo ne possiede pochissime. Durante la seconda guerra mondiale, le accadde di salvare uno straniero dallo rastrellamento dei nazisti. Un giorno lo straniero ritorna e racconta la vicenda al padre dello scrittore. Il vecchio decide di innalzare un monumento per la moglie, al cui interno verrà ospitato un altare, destinato a diventare l'altare della chiesa del paese; sarà così utile a tutti, come una memoria collettiva. Anche il libro è un altare, fatto di parole, scritte, afferma l'autore che si è lasciato alle spalle quegli avvenimenti, "secondo l'amore, la cultura e la pietà che sono propri del mondo, nel quale sono emigrato". 
Di questo libro straordinario, tratteniamo qualche scena, capace di evocare, nel modo riservato e discreto proprio della civiltà contadina, la figura della donna. Un giorno, mentre mangiava poveramente polenta e zucchero, arriva in casa un mendicante, al quale offre lo stesso cibo, sorridendo. Ma questi lo rifiuta, e getta in terra il cartoccio offerto; la donna si china per raccoglierlo e, prima che si sporchi, lo mangia. Per un contadino, lo spreco è intollerabile, per questo si china a raccogliere anche le briciole. "Aveva un animo sensibile, le piacevano le cose strane, le scoperte, le parole in italiano che riusciva a capire, le sorprese". Ancora un episodio si impone alla memoria. La madre, quando il padre era soldato, riempie il vuoto in famiglia, radunando i figli attorno al focolare. Era l'antica pratica del filò, in cui i contadini vegliavano nelle stalle per raccontare storie popolari e soprattutto di santi. "Aveva un modo rozzo, popolaresco, ma potente, di inventare e di raccontare. Si aiutava con la mano destra, con dei gesti ieratici come quelli del prete quando spiega il vangelo. Quello probabilmente era il suo modello. Cominciava andando alla ricerca dell'argomento, e si capiva benissimo che non sapeva nemmeno lei di che cosa avrebbe parlato. Diceva per esempio: 'Stassera', e alzava la mano destra con l'indice teso, poi l'abbassava", e iniziava a raccontare le vite dei santi. "C'era qualcosa di mistico e di tragico nel suo attaccamento al lavoro, protratto fino a un attimo prima di perdere le ultime forze e di cadere per terra". Poi, lentamente, le accadeva di recuperare le forze e allora sorrideva. "Mai nessuno sorriderà così", chiosa il figlio scrittore. 
Quel mondo, quelle campagne erano pervasi dal senso del sacro; il cristianesimo si fondeva con credenze arcaiche, di discendenza pagana. "Il sacro si toccava col dito, non era metafisico, e questa vicinanza era forse ciò che più caratterizzava la vita nelle campagne di allora. Adesso questo sentimento è svanito, e questo è una perdita, l'uomo che non sa cos'è il sacro manca di qualcosa di essenziale", afferma ancora Camon in Profondo Nord. In un'intervista del 2015, lo scrittore sarà ancora più esplicito. Riferendosi alla nascita di Cristo, afferma: "la cultura e la storia dell'Occidente hanno girato su questo concetto, pro e contro. Non è un principio filosofico o culturale, è un evento. Il cristianesimo è fondato su questo evento, e credere vuol dire credere in questo evento. Per restare in Italia, quell'evento e la fede che ne deriva, e la religione che ne è nata, ha riempito la letteratura che si studia a scuola, da Dante a Luzi. Un ragazzo che viene da qui non può capire niente di quella letteratura se non sa quell'evento". 
Il lavoro del padre, che costruisce un altare di rame per la moglie, e quello del figlio, che gliene consacra uno di parole, è garantito da questo senso del sacro, di immortalità, di continuità con le persone che ci precedono. Fino a quel momento il padre aveva fatto "cose destinate all'oblio. Adesso faceva un altare. Non c'era possibilità di confronto fra quello che faceva adesso e quello che aveva fatto finora. Non che avesse fatto cose ingiuste. Ma erano cose inconsistenti sul piano della verità". Si possono fare "cose belle, intelligenti, grandiose. Non vere, che è molto di più". Grazie all'altare, tutti l'avrebbero ricordata per sempre. Tutto acquista un senso, ogni vita, ogni frammento. "Cristo c'è, ed è ineguagliabile. Se non ci fosse Lui, vivere sarebbe un'insulsa pazzia".




L'INTERVISTA
Ferdinando Camon: «Scrivere, un’infelicità per reagire alla vita»
Compie 80 anni e si definisce un narratore della crisi. Dalla campagna padovana al mondo: "Vorrei parlare ai giovani" di Anna Sandri
14 novembre 2015 (Il Mattino di Padova)
PADOVA. «Gira questa voce che sto per compiere ottant’anni. Agli amici ho detto: “non tenetene conto”. Mia moglie si è vendicata: “se non ci tieni, pazienza. Mangeremo una pizza”. E andrà così, in fondo è di sabato. E come ogni sabato, cinema e poi pizza».
La voce corrispondeva al vero. Ferdinando Camon oggi compie ottant’anni. Il “narratore della crisi”, autore di memorabili pagine sulla civiltà contadina del Veneto e sugli anni che ne sono seguiti, tradotto, letto e amato in tutto il mondo, li attende un po’ impressionato («fino ai 70 me ne sentivo 28, poi sono diventati tanti all’improvviso») nella sua casa di Padova, immerso tra i libri - migliaia - che sono ovunque e catalogati uno a uno per stanza e ripiani, anche se molti potrebbe trovarli a occhi chiusi: alla sinistra della scrivania c’è tutto Freud, «l’ho consultato moltissimo», alle spalle i Garzanti, «i libri parlano, qui ci sono tutte le risposte».
Lo circondano, e circolano nel suo sangue di lettore, e soprattutto di scrittore: «La scrittura cambia nel corso della vita, a seconda di come dormi, di cosa sogni; cambia per una malattia che hai o anche solo che pensi di avere». Così è cambiata anche la sua, senza mai poter sapere se in tutte le lingue del mondo - fino al giapponese - i traduttori saranno riusciti a registrare queste sfumature che il tempo disegna sulle parole: «Io controllo solo il francese. I romanzi contadini sono molto difficili da tradurre, la lingua è bassa e terricola. In Francia, Gallimard aveva selezionato con un concorso un traduttore, Jean Paul Manganaro, che somatizzava il lavoro. Diceva che tradurre Calvino gli faceva venire il mal di denti, tradurre Camon gli dava ansia e insonnia».
Non è un bel dire, ma il professore capisce: «Io stesso, scrivendo, mi ammalo di ansia». Perché la scrittura, per lui, non è talento, non è mestiere: «È un modo di reagire alla vita. Alla vita, di solito, si reagisce agendo o parlando. Lo scrittore è un inetto, non sa agire, non sa parlare e allora prende tempo. La scrittura è frutto di un bisogno: dare una risposta non immediata e che duri tanto, per sempre». È quella che chiama «l’infelicità della scrittura».
Il racconto della civiltà contadina è il racconto della sua vita: «Mandai a Garzanti “Il quinto stato” e Garzanti lo mandò a Pasolini. Lui mi chiamò alle 5 di mattina per dirmi che il libro gli era piaciuto, che aveva scritto una prefazione e l’aveva già mandata all’editore. Mi chiamarono a Milano, in via della Spiga. Il libro c’è, la prefazione anche: lo pubblichiamo subito». E quasi subito, Jean-Paul Sartre volle che fosse tradotto in Francia.
Ricorda Pasolini come «una persona di immensa generosità, io ero nessuno, ero un esordiente», ma non condivide del tutto la prefazione: «Non c’era proprio nessuna tradizione da conservare. Io ero cresciuto in una casa che non aveva luce elettrica e nemmeno pavimento, estate e inverno scalzi sul pavimento di terra, le dita gonfie per i geloni e la pelle delle mani crepata dal freddo fino a sanguinare. Ero cresciuto tra riti e tridui, Dio e diavolo, morti e Dies Irae. No, in quella civiltà contadina non vedevo proprio nulla da conservare».
C’erano dentro tutta la forza e la violenza che servivano per scriverla, per estirparla da sé quasi. Anni dopo, Camon avrebbe scoperto che quei suoi libri erano i più amati in tutti i luoghi del mondo, dalla Russia al Sudamerica, dove la terra aveva fatto pagare all’uomo il prezzo altissimo della povertà. Le sue parole erano universali; in Argentina, invitato dall’Ambasciata a parlare agli studenti, i ragazzini - spesso figli di emigrati - lo accoglievano cantando l’inno di Mameli, la mano sul cuore.
La strada per diventare scrittore, vivere dell’immaterialità della parola, era tanto lontana da quella casa di campagna: «Ma io sapevo già alle medie che sarei stato uno scrittore. E c’era la cattolica certezza contadina: se vuoi una cosa devi meritartela». L’ha meritata, l’ha conquistata, l’ha pagata: l’ansia, l’insonnia, l’analisi. «Non avessi fatto lo scrittore sarei potuto diventare psicanalista».
La memoria lo ha portato a scrivere libri che sono finiti in atti di inchieste; “La vita eterna” e il racconto degli stermini dei nazisti nelle campagne padovane fanno aprire un processo contro il comandante di stanza a Este. Muore prima del processo, la Germania fa sparire ogni traccia della vicenda ma una docente da Potsdam lo chiama: «Voleva il libro per parlarne ai suoi allievi e conservare la memoria», quella che «il Veneto non ha di sé, e per questo disprezzo questa regione e questa umanità». Parole dure, ma non se ne è mai andato: «Non amo Roma e la Rai, non amo Milano e l’editoria industriale. Molti grandi scrittori sono stati miei amici, non ho mai usato queste conoscenze. Andarsene, dove? Bologna, forse. Ma mi sarebbe piaciuto veder nascere una grande casa editrice a Padova».
Dalla crisi della civiltà contadina al terrorismo, passando per la famiglia: dalla storia alla contemporaneità, che oggi a sua volta è già storia: «Mi chiedo, per me oggi come in passato mi chiedevo per Rigoni Stern, ma perché non ci chiamano nelle scuole a parlare agli studenti? Di memoria, di scrittura. Questo è un problema del Veneto, altre regioni lo fanno, valorizzano i loro scrittori anche in un percorso educativo».
Di Dio pensa che «è necessario che ci sia, non per spiegare l’inizio ma la fine, il giudizio». Però: «In un paese cattolico per credere in Dio devi credere nella Chiesa cattolica, e questo è difficile».
Ricorda quel giorno, la morte di sua madre, lui che va nella basilica di Sant’Antonio «perché nel luogo che le era più vicino, la chiesa, avrei potuto trovarla», si vuole confessare, ammette la lunga lontananza, spiega le ragioni: «Il frate mi ha cacciato, non ero degno. Non sono mai più tornato. Poi mi hanno spiegato che aveva dei problemi, ma ormai era andata così». Fuori da lì avrebbe eretto lui stesso un “Altare” per la madre.
Come padre (di due figli, Alessandro e Alberto) si sente tenuto da parte: «Sconto la colpa della mia generazione, essere nati sotto il fascismo ci ha fatti rifiutare dai figli rivoluzionari, ma ho una fortissima vocazione paterna». Come nonno di quattro nipoti (Elena, Teresa, Paolo e Lucia) sconta il fatto che «come i figli, anche i nipoti si confrontano in orizzontale, gli amici, la scuola, non i genitori, nemmeno i nonni». Ma nelle librerie dei figli, tanto a Bologna che a Los Angeles, ha scoperto che i suoi libri ci sono: «Con me non ne hanno mai parlato, poi se li sono comprati, evidentemente».
Ama la montagna, anche perché l’associa alla stagione di ufficiale Alpino, talvolta cucina (due risotti, quello ai funghi e quello al rosmarino, sono quasi una garanzia). Scrive quotidianamente, passa le giornate in studio, le serate in tranquillità con la moglie Gabriella Imperatori. Lei elegante e sottile, lui che dice di sé: «non so mettere insieme una giacca e una camicia».
Come accade alle più fortunate tra le coppie che hanno attraversato la vita insieme, quando sono nella stessa stanza non servono occhiate, l’intesa è qualcosa che si avverte nell’aria, è come un meccanismo che scatta a incastro. Lei si perde nella lettura, lui segue i tg, i dibattiti, «la Ferrari quando c’è, Valentino quando corre, l’Inter quando gioca». L’Inter che sta per dargli un dispiacere: «Sono iscritto al fan club, al compleanno tutti gli anni mandano gli auguri con una foto, si vede un giocatore con la maglia dell’Inter con il tuo nome sulla schiena, e i tuoi anni come numero. Ecco, vedere uno che corre in mezzo a un campo con scritto “Camon 80” non credo mi farà un bell’effetto».
Attività svolte
Lettura del primo capitolo da fotocopia
Ascolto del primo capitolo da audio libro
Lettura dell’ultimo capitolo da parte del docente
Sintesi scritta del primo capitolo






Luigi Meneghello, Libera nos a malo
Audio libro, parte prima (da YouTube, lettura di Zanardi)

Luigi Meneghello, Libera nos a malo
Anzoléti, con questo nome chiamavano quei nostri compaesanelli infanti, vissuti troppo poco per non diventare subito angioletti nell’atto stesso di rendere l’ultimo respiro sulla terra.
“Per chi suonano?”
“Non senti? è un anzoléto.”
Ogni altro giorno la campana suonava così. Ci morivano fitti, e nei mesi più crudeli, nelle grandi giornate estive, vivevamo in una nuvola di piccoli angioli avviati al cielo, che ci offuscava il sole.
Roberto, il primo Roberto di mia zia Lena, di cui questo di adesso rinnova il nome, morì a quattro anni di gastroenterite. Quando capii che stava morendo passai qualche ora di strazio assoluto; la bambinaia mi aveva accompagnato nella casa della nonna, e lì nella sala d’entrata, tra i vasi di piante verdi vicino alla finestra, l’idea che morisse Roberto mi assaliva a intermittenze. Sentivo lacerazione e abisso, ma non terrore o perdita. Ciò che stava accadendo mi pareva insopportabile; sentivo che c’ero io, e presto ci sarebbe la cosa, e non credevo che si potrebbe coesistere. Avevo sette anni, e questi spasimi esistenziali sono tra i peggiori di cui mi è restata memoria.
Ora la cosa c’è. Roberto è morto, un oggetto color della cera che pare Roberto è restato sul sofà nel tinello della zia. Adesso mi è già più facile sopportare, in quest’aria ovattata di lutto che soffoca i rumori: è come se la morte delle persone care producesse oltre al resto una vena di sollievo. Il portone del portico è chiuso; in casa nostra e in quella della zia, di qua e di là dal portico, c’è silenzio. Anche Bruno e Mamo nostro cugino, coetanei di Roberto, non fanno chiasso. Sono nel portico, spiano pel buco della serratura dentro al tinello della zia, poi si prendono per mano ed eseguiscono in punta di piedi una piccola danza di gioia. Sottovoce, inarcando le ciglia come increduli di tanta fortuna, scandiscono la formula esilarante: “Morto! Morto!”.
Il giorno che lo seppellirono fu portata in orto una poltrona dallo schienale alto, con le borchie di ottone, e le pie donne vi accompagnarono la zia Lena. L’orto nostro è aperto ai rintocchi del campanile, c’era un gran pino in fondo, era d’agosto. La zia Lena in nero s’era abbandonata nell’assurda poltrona tra le aiuole delle dalie e degli ortaggi; le pie donne biascicavano.
Era quel momento che le cerimonie della morte sono fatte per isolare con purezza, quel momento irrazionale dello strazio, in cui esso non dà più senso e pare un sogno d’estate commentato dalle galline e dai coleotteri, in un fiotto di spazio tra qui e le colline, traslucido, infestato dal gong della campana.
Durante le epidemie il cortile era occupato da una squadra di omicini furbacchioni col cappuccio e la mantellina rossa, che tiravano zàcchere di malta infetta; la malta provocava una rogna di cui si moriva in pochi istanti; questa era l’epidemia. Il cortile era tutto ingombro di piccole casse di legno dolce, in costruzione; quelle piene venivano ammonticchiate in fondo contro il muro della zia Lena. Per salvarsi bisognava raggiungere la pompa, che poi era un rubinetto, all’esterno dello spazzacucina della zia, e coll’acqua sbianzare immediatamente gli infetti. E perché allora ci allontanavamo dalla pompa? Perché correvamo in mezzo ai nanetti rischiando continuamente la vita tra i mucchi di casse? Pure facevamo sempre così, ogni due tre mesi quando veniva l’epidemia. Quando veniva me la sognavo anche la notte, anzi non la ricordo nemmeno direttamente, ma solo attraverso questi sogni ogni due tre mesi.
Un angioletto volò via da un cortile qua sopra casa nostra in Capovilla. Questo era un cortile di terra, non come il nostro coi ciottoli. C’era l’impastatrice della creta: un asinello stordito girava, girava attorno alla buia cavernetta affondata nel terreno, in cui lunghe lame d’acciaio sciabolavano la creta. Via dalla macchina dei coltelli, bambini! Però se la palla di gomma ci ruzzola dentro, si va a vedere, si allunga la mano. I pezzettini di angelo hanno ciascuno il suo paio di ali trasparenti come quelle delle libellule, e salgono per conto loro.
(…) Ci veniva impressa nella mente l’opportunità di cominciare la confessione dai peccati più grossi. È come il contadino che ha da far passare per una siepe spinosa un pulcino, e la chioccia, e il cane, e la capra, e il maiale, e la vacca; se comincia dai più piccoli, la fatica e le graffiature si rinnovano a ogni passaggio. Ma se manda avanti la vacca, che sfondi ben bene la siepe, gli altri passano poi comodamente.
(…) Si poteva confessarsi per conto proprio, come gli adulti, al di qua dell’altar maggiore, nei confessionali riservati ai vari preti, don Tarcisio, Baéti ossia don Antonio, l’Arciprete, Battilana; era preferibile anzi sentirsi protetti dalla grata, benché ci riconoscessero subito alla voce. Ma a noi bambini capitava spesso di doverci confessare in Coro, e a gruppi.
“Ehi, vi siete già confessati voialtri? Avanti allora.” Si andava a mettersi in ginocchio tutti in fila su un banco dietro l’altare. A pochi metri di distanza il prete seduto davanti a un inginocchiatoio ascoltava un penitentino alla volta. Era sotto Ampelio, in chiesa c’era silenzio. A un tratto si sentì rimbombare la voce di don Emanuele colto di sorpresa: “Eh, no! Mas’cio!” Le orecchie di Ampelio fìammeggiavano.
Le rare volte che si andava con la mamma alle funzioni della sera, dicevo che la più bella delle litanie era quella che seguiva la  Janua cèli,perché subito dopo la serie era finita e così si usciva di chiesa: ma non era la verità. Quella litania seguace della Janua mi piaceva invece per la bellezza alata delle sue sillabe che volavano alte nella voce incantevole della mamma. Mia madre cantava, e io aspettavo trepidando la Jànua: poi ecco l’immagine luminosa: Stella matutina! Poi s’andava fuori.
Si faceva del nostro meglio per acquistar merito. Io e Guido gareggiammo un anno in devozione. Si andava ai fioretti di maggio e c’era ogni sera una breve predica di don Bernardo che allora era ancora qui. Stabilimmo che la prova della devozione fosse la vicinanza al pulpito: chi è più vicino è il più devoto. Andavamo di buonora per prenderci una sedia in prima fila (veramente era la fila di fianco, dalla parte del pulpito: poi voltando le sedie al momento giusto ci si trovava davanti a tutti); quando cominciava la predica noi con rapidi spostamenti della sedia, uno io uno Guido uno io uno Guido, andavamo a finire a ridosso del pulpito. Così però si terminava sempre alla pari, e dovemmo perciò cercare un altro indice di devozione; infine pensammo di contare gli sputi di don Bernardo che ricevevamo sul viso. Ascoltavamo la predica attenti alle piccole faville che volteggiavano dal pulpito: don Bernardo parlava con calore e sputava molto, e noi ci annunciavamo sottovoce i bersagli. “Diciassette-diciotto, diciannove …” “diciotto, diciannove-venti …”. Era proibito asciugarsi, perché l’avversario potesse controllare. Non so se alla fine del mese fossi in testa io o Guido, ma dev’essere stata una vittoria di misura, eravamo entrambi molto devoti in quel periodo.
(da Luigi Meneghello, Libera nos a Malo)
https://cartesensibili.wordpress.com/
Attività
Letture dal testo da parte del docente (capitolo 12)
Letture di parti del testo assegnate a singoli alunni per relazionare in classe
Sintesi scritta di parti tratte dal testo

Guido Piovene, Viaggio in Italia

Piovene racconta l'Italia del "boom", che cambia da un chilometro all'altro

25 Mag 2016 (da https://www.loccidentale.it/articoli/73139/piovene-racconta-litalia-del-boom-che-cambia-da-un-chilometro-allaltro)
Ci sono autori la cui fama è legata indissolubilmente a un singolo libro. Un libro, talvolta, nato più per caso che per scelta. Il nome di Guido Piovene, ad esempio, sarà per sempre associato a quel Viaggio in Italia che – sul finire degli anni Cinquanta – diviene la più celebre guida letteraria al Bel Paese del dopoguerra. Poco importa, allora, che Piovene sia anche l’autore di un romanzo di grande successo (e qualità) come “Lettere di una novizia”, uscito con grande enfasi nell’Italia del 1941. Per gli italiani è e resta lo scrittore-reporter di un lungo e affascinante Viaggio in Italia.
L’importanza di questo atipico “reportage letterario” all’interno della più vasta produzione dell’autore è chiara sin dalla sua apparizione. Indro Montanelli, ad esempio, riconosce che Guido Piovene “è stato uno dei pochi grandi scrittori del Novecento italiano”, sottolineando però subito che “un saggio sull’Italia come il suo ‘Viaggio in Italia’ non lo scriverà mai più nessuno”. E non è forse un caso che la sua opera immortale sia più vicina al reportage che alla pura narrativa: l’esordio di Piovene, nel bel mezzo dell’Italia fascista, è segnato infatti dal giornalismo, in qualità di inviato e corrispondente per “L’Ambrosiano” e il “Corriere della Sera”.
È sotto il fascismo che, accanto alla vena letteraria, nasce in Piovene l’amore per il viaggio. “Viaggio in Italia”, del resto, non è un unicum nella carriera dell’autore: senza contare le corrispondenze dall’estero (Londra e Parigi), prima di dare alle stampe la sua opera più famosa pubblica – siamo nel 1953 – un libro intitolato De America, frutto di un viaggio di 32 mila chilometri attraverso 38 Stati. Come molti illustri colleghi – Borgese e Soldati su tutti – Guido Piovene va alla scoperta delle meraviglie d’oltreoceano: una grandezza che lo porta a scrivere, nell’opera dedicata agli States, che “viaggiare dovrebbe essere sempre un atto di umiltà”. Una piccola lezione per tutti i reporter.
Sono la curiosità del giornalista e la sensibilità del letterato che spingono Piovene ad accettare l’offerta che porterà, di lì a poco, al suo libro più celebre. Nel 1953, la Rai – con una spiccata vocazione al “servizio pubblico” – è impegnata in una serie di progetti per favorire la conoscenza dell’Italia presso gli italiani: da qui la scelta di chiamare Guido Piovene, affermato scrittore e giornalista, perché percorra il Bel Paese da nord a sud, dalle “Tre Venezie” alla Sicilia. Piovene accetta: per tre anni percorre lo Stivale e racconta agli ascoltatori le “cose viste”. I tempi della radio, però, sono stretti: manca, al letterato, lo spazio per dare voce a gran parte delle sue riflessioni.
Da qui l’idea di scrivere un libro: sull’onda delle trasmissioni radiofoniche, “Viaggio in Italia” – uscito per Mondadori nel 1957 – è subito un successo. “Mentre percorrevo l’Italia, e scrivevo dopo ogni tappa quello che avevo appena visto, la situazione mi cambiava in parte alle spalle”: una sensazione molto lucida, se è vero che l’Italia descritta – quella della seconda metà degli anni Cinquanta – è il Paese del boom economico, dell’industrializzazione e della crescita urbana. “Industrie si chiudevano, altre si aprivano; decadevano prefetti e sindaci; nascevano nuove province”: impossibile, dunque, tenere aggiornato il proprio diario. “Decisi perciò di lasciare quelle pagine come stavano”: un formidabile ritratto dell’Italia, nella sua fase di passaggio alla contemporaneità.
Raccontare il “Viaggio in Italia” è un’impresa titanica. Nella sua ultima “incarnazione”, Baldini Castoldi Dalai 2003, il libro conta più di 900 pagine: basti questo per farsi un’idea della ricchezza dell’opera di Piovene. Dentro il viaggio c’è davvero tutto: dai paesaggi ai musei, dalle chiese ai ristoranti, dagli uomini ai bambini, dai campi alle industrie. “L’Italia” scrive l’autore “cambia da un chilometro all’altro, non solo nei paesaggi, ma nella qualità degli animi; è un miscuglio di gusti, di usanze, di abitudini, tradizioni, lingue, eredità razziali”. Nel “Viaggio”, insomma, c’è tutta la sua patria: pochi, credo, hanno seguito Piovene pagina dopo pagina; molti, però, hanno visto nell’opera una formidabile guida da consultazione. Forse la miglior guida mai scritta sul Bel Paese.
Al di là delle singole tappe – di particolare bellezza le pagine dedicate a Vicenza e al vicentino, dove il viaggio dell’autore si confonde con i ricordi personali – Guido Piovene dà una lettura dei caratteri italici di grande modernità. “In nessun altro paese” scrive ad esempio Piovene “sarebbe permesso assalire come da noi, deturpare città e campagne, secondo gli interessi e i capricci di un giorno”. O ancora, riguardo alla “diatriba anacronistica tra i clericali ed i laicisti”: “Per essa tanta parte dell’intelligenza italiana è costretta a sprecarsi in vacuo su questioni che altrove sono già risolte da un pezzo”. Parole del 1957, che non stonerebbero però in bocca ad un sociologo contemporaneo: se si tratti di preveggenza dell’autore o di immobilità del Paese, lo lasciamo alle considerazioni del lettore.
Ricordando Piovene, tra la sua passione per il gioco e le sue doti intellettuali, Montanelli ha sostenuto che nessuno scriverà più un libro simile. È vero: ci vorrebbe troppo tempo, troppa perseveranza e – perché no – troppi soldi. “Viaggio in Italia”, forse, è destinato ad essere letto e riletto anche dalle generazioni che seguiranno. E per avere una prova tangibile del suo radicamento, del resto, basta fare un giro su internet: non si contano le pagine di enti turistici, regionali e comunali, che per promuovere il proprio territorio hanno scelto di aprire con un estratto dal “Viaggio in Italia”. Per i luoghi toccati dalla sua penna, le parole di Piovene sono già un marchio di qualità.


Da Viaggio in Italia, di Guido Piovene (1957)
“Mi chiedo poi cos’è il Veneto per i veneti. Rispondo che la loro terra per i veneti è una verità. Essa non ha nulla a che fare con il sentimento nazionale, né per associazione né per contrasto. È una verità in più, di natura diversa. Non è politica né attiva, ed infatti nel Veneto non v’è traccia di separatismo. Ma esiste nel cuore dei veneti una persuasione fantastica che la loro terra sia un mondo, un sentimento ammirativo, e quasi un sogno di se stessi, che non hanno l’eguale nelle altre regioni d’Italia, nemmeno quelle dove il separatismo ha attecchito. Il venetismo è una potente realtà della fantasia, che non dà noie al Parlamento.
(…) Il sentimento più profondo del Veneto è forse l’autocompiacenza (…). È un piacere di estetizzarsi che in nessuna regione si spinge tanto oltre come in Veneto. Questa regione porta dentro un amore di sé, un narcisismo per usare il gergo corrente, una voluttà perpetua di guardarsi allo specchio, una felicità nel suo pittoresco, una delizia nel fare teatro di sé (…).
(da Viaggio in Italia, 1957)

Attività
Letture dal testo da parte del docente
Letture di parti del testo assegnate a singoli alunni per relazionare in classe
Sintesi scritta di parti tratte dal testo







Giuliano Scabia, Nane Oca

Qual era la lingua del Magico mondo nel Pavano antico, cos’è il vero momon, perché un albero della vita in piazza dei Frutti in Pava?

Il dialetto, Nane Oca e la saga popolare di Giuliano Scabia

PADOVA. Dice Giuliano Scabia: «Sono nato nel 1935, anni neri di orbace e di stivaloni, vicino al Pedrocchi, in via Marsilio, la casa era un nido di vecchie pietre nel cuore della città. In casa parlavamo solo dialetto, e il dialetto delle piasse e delle botteghe, è già diverso dal «portelato» che odora un po' di laguna. Più tardi in campagna, sfollati dalle bombe, appresi anche il dialetto della Bassa più rustico ed ispido».
«L'italiano lo imparai più tardi, la guerra aveva rallentato l'insegnamento scolastico, ma me ne innamorai perdutamente. La lingua è un'idra, una medusa con serpenti al posto dei capelli, tentacoli e germogli vengono recisi dal tempo, usurati come le monete, ma subito ne nascono altri. Quello che resta è la sostanza di un substrato, che, quando affiora dal profondo, accende la passione della parola».
«La koinè, la lingua comune, si contamina e si arricchisce, diventa un fiume alimentato dai rigagnoli dei dialetti. La civiltà d'Europa ha passato il testimone a diversi linguaggi: il greco, il latino, il volgare della Commedia dantesca e poi l'inglese, come lingua internazionale, la lingua franca della globalizzazione, non tanto quello shakespeariano, quanto quello dell'informatica».
«Su questo tema ho presentato uno studio all'Accademia Padovana di Scienze Lettere e Arti. Si intitolava Nei campi della Stralingua».
Non le sembra che l'italiano d'oggi, diffuso da una televisione che, in questo senso, passando da Mike Bongiorno a Maurizio Costanzo, ha fatto l'unità d'Italia, sia inquinato, per esempio, da uno straripante romanesco e liofilizzato in sigle, abbreviazioni, singulti di parole nei messaggini dei cellulari che sono l'elemento forte della comunicazione tra giovani? E i giovani, oggi, le scrivono ancora le lettere d'amore? Ne sono capaci?
«La televisione per l'80 per cento è trash, ma ci sono anche momenti alti che il mezzo con le sue capacità di penetrazione, spettacolarizzazione e diffusione rende irripetibili. Vanno colti. Va rigettata l'abitudine all'inebetimento davanti al piccolo schermo, l'ipnosi che anche spettacoli mediocri riescono ad indurre. Per quanto riguarda il linguaggio, malgrado il massacro dei congiuntivi e il linciaggio dei condizionali, ha ancora identità e valore. Certo, c'è una lingua parlata e una lingua scritta, ma la nostra letteratura, la nostra poesia, continuano a fiorire. Eventuali degenerazioni sono compensate da capolavori. Per quanto riguarda i giovani, guardi, ho visto per la strada ragazze rapite dalla lettura del «Cacciatore d'aquiloni». La vita delle piazze, dei caffè, dei banchetti degli ambulanti scorreva loro addosso come acqua su vetro, non riusciva a distoglierle dal loro sogno. Lettere d'amore, mi creda se ne scrivono ancora, molti giovani sono romantici in maniera possente, esprimono espressioni stupende, intense, quasi foscoliane».
Insomma, l'amore è sempre quello per fortuna: dai tempi del colera di Garcia Marquez al neocapitalismo di Berlusconi. Ma, a proposito di Stralingua, che cosa ne pensa dei libri di Andrea Camilleri scritti in siciliano?
«Camilleri è straordinario: fantasia fiammeggiante, gusto per l'analisi storica e per la sceneggiatura. Il personaggio del commissario Montalbano, nelle serie televisive tratte dai romanzi, è di irresistibile simpatia e mi ha conquistato. Dei libri ho letto pochissimo, qualche pagina, poi mi sono fermato. Quel dialetto mi sembra artificiale, non credo che sia parlato da nessuna parte, neanche in Sicilia. Trovo molto più autentico, anche se il genere è diverso, il linguaggio di Luigi Meneghello».
Lei, Scabia, è stato uno degli artefici della svolta teatrale. Lei ha fatto una rivoluzione che ha dato nuovo ossigeno al teatro sperimentale e di ricerca. Con il teatro vagante, ha toccato ogni angolo della penisola, seguendo la carovana dei suoi sogni, come un cronista al giro d'Italia. E' entrato nelle fabbriche, è entrato, erano i tempi di Basaglia, all'Ospedale Psichiatrico di Trieste, ha portato alla ribalta operai e pazienti. Più recente è il suo interesse per la poesia e per il romanzo. «Nane Oca» è del 1992, il seguito, «Foreste Sorelle» è del secolo in corso. Ma non dovrebbe essere una trilogia?
«Certo, ho finito di scrivere la terza parte di questa mia saga popolare, il volume uscirà nel 2009. La data precisa non la so. Sono in attesa di notizie».
Nane Oca è un gioco di specchi che fa vorticare un mondo di personaggi inconsueti. Sembrano uscire da un libro di fiabe ma sono in realtà serissimi. Questa mitologia è tutta pavana e rievoca fantasmi, a volte allegri a volte spaventosi. A me viene in mente uno spauracchio che usciva dalle storie di mia zia: il nonno Cocòn che mangiava i bambini, l'orco tra Brenta e Musòn. Ma nel suo bestiario c'è anche il lupocane, il pesce baùco, la vaca mora. C'è anche una geografia fantastica: un anello di profondissime foreste circonda Pava e fuori le mura ci sono i grébani, il saltus dei romani. Nane Oca sarà nato a Padova, tra le piere del centro, immagino?
«E invece no. Padova è la mia città, mi è cara per tanti aspetti, è la città della mia skyline reale e immaginaria, concreta e trasfigurata, è la città dove ho giocato, ho fantasticato, ho vissuto, mi sono laureato. Ma mi sono mosso, un po' dappertutto. Ho abitato a Milano e a Roma. Ora risiedo a Firenze. No, non mi è mai passato per la testa di lavare i panni in Arno, non mi sento toscano e non sono versato per il candeggio. Ma nella casa di Firenze, per esempio, ho scritto tutto Nane Oca. L'alloggio è in alto, in piccionaia, c'è un balcone sulla città ma senza orizzonti, senza l'Arno d'argento o le cupole delle chiese, si vedono solo tetti contro un cielo azzurro o grigio, un mare di «copi». E io giro per questa Firenze, ho parecchie cose da fare. Giro a piedi, in bicicletta, macino chilometri. Ma quando mi siedo davanti alle mie onde di tegole, l'ispirazione mi salta addosso».
Padova, quindi resta la città materna, luogo di ricordi, di amicizie...?
«Si a Padova ho un mucchio di amici, in città e in provincia. Naturalmente conosco la gente del mio mondo: attori, registi, artisti ma anche la gente della strada, delle piazze, dei vecchi quartieri. Si, conosco Donato Sartori, scultore, mascheraro, creatore di eventi, amico; ho visitato il suo museo e anche il suo studio di Abano. Ricordo quando ci siamo incontrati parecchi anni fa, a Venezia. Era il carnevale del 1980. Io venivo dall'esperienza del «Teatro vagante», mi ero spostato un po' dappertutto con il mio carro di Tespi».
Lei con il suo teatro mobile era stato a Parigi, all'ombra della Tour Eiffel e nel Casentino, terra di reminiscenze dantesche, di olivi e di castagni, con i profili aguzzi delle Apuane, bianche ed arse e, lontano, il mare; la val di Magra con i castelli dei Malaspina dello Spino secco e dello Spino fiorito. Poi arriva a Venezia che sta impazzendo nel carnevale.
«Si, quando io e Donato ci incontrammo a Venezia ero vestito da diavolo e facemmo subito amicizia, una simpatia sulfurea».
Dottor Scabia, lei è del 1935, ha fatto l'Università e si è laureato con una tesi sul filosofo Feuerbach, quando la goliardia, con tutti i suoi riti era ancora viva. Lei ricorda la Rorida Begonia, dal nome potrebbe essere un personaggio di Nane Oca.
«La ricordo e lei saprà come me che cosa si nascondeva sotto il nome di Rorida Begonia. In realtà fu quella il Fort Alamo della vecchia goliardia, un po' spensierata e qualunquista, sotterrata dalla stagione delle ideologie, dello scontro politico. Io ero dalla parte della politica universitaria, iscritto all'Ugi (Unione Goliardica Italiana), la formazione di sinistra. Credo che dati da quei tempi la mia amicizia con Giulio Felisari. Lo conosce? Sta facendo un lavoro bellissimo, sta ripubblicando «Il Bo». Rileggerlo è un amarcord straordinario».
Attività svolte

Laboratorio di ascolto: lettura di pagine del testo da parte del docente
Ascolto della canzone dei Qeen ‘Who wants to live forever’
Analisi etimologica di parole del ‘Pavano antico’
(vocabolario utilizzato per la ricerca di parole del pavano antico)
Laboratorio di scrittura: scrivere un racconto ambientato a Limena secondo le modalità date dal docente, con l’utilizzo di parole o espressioni del ‘Pavano antico’ (es. Salbego, bauco, can da pajaro, scarbonasso, pesse bauco, bocia, etc…)
Produrre una mappa di Limena antica, secondo l’esempio di quelle contenute nel testo


Marco Paolini, Bestiario italiano


M. Paolini, Cani del gas e Laguna di Marghera, letture in classe da I cani del gas)


Can, di Ernesto Calzavara (in I cani del gas, di M. Paolini). Lettura da parte del prof e traduzione orale in classe da parte degli studenti
(il prof. legge Can, di E. Calzavara)

Can, no te si mio.
Te ga n’altro paron.
Te si magro e straco
ma un ocio bon me par.
Te vardo parché si, can, te me piasi.
Te va de qua de là, te nasi
e po’ te lassi star.
Te va col to trotéto
che la strada no pesa. Sito sito.
Dove? No se sa.

Can, se te digo tuto, me scóltitu?
Senti: son vegnù qua
ne la casa granda dei veci
che xe morti, solo.
Ti, te si entrà dal me restel za verto
in giardin par vardar.
Cossa vardar? Un omo griso
tra do ortighe che fiorisse e che more
ogni ano, can.

Can ti te conossi el to paron
e col te bate te pianzi e te ridi
a la to moda dopo.
Mi so gche go paron,
ma chi ch’el sia no so. No l’ho mai visto
e col me bate bestemo.

Eco qua. Son tornà ne la me càmara,
vècia a copar i mussati sui muri
co’ la savata, ogni sera.
Son tanto stufo, can.
No ghe ne posso più de strussiar.
Ti come mi. E pur te speri, te vivi
e la to ànema va drio le to gambe
da canton a canton
su la strada ogni dì.

Can pien de pulzi, de forza, de fame,
can tuto curame.

Can grando can serio can mai contento,
can pien de tormento.

Can desparà can superbo e curioso
can capriçioso.

Can co’ le cagne ogni tanto; can bon
can savaton.

Can moscador, pien de farfale in testa,
can da festa

e da lavoro. Can senza partìo,
can finìo.

Can de scuor, can cazzadór, can foresto
ma de sèsto.

Can che dorme, rustego; can maton
sempre de sbrindolon.

Can povero e sior, tuto el dì a çercar
quel che no te pol trovar.

Can drito e s-cièto de drento e de fora,
can de la malora.
Tuto can.
Vien qua, Dame la sata, can.
E po’ scampa, scampa, se no te bato
(mi, mi , me bato. . .). Frusta via, can.

Attività svolte
Ascolto di parti dello spettacolo da youtube (‘I tavernicoli’)
Lettura da parte del docente de ‘I cani del gas’
Lettura della poesia ‘Can’ (con traduzione in italiano da parte degli studenti)

Mario Rigoni Stern , Uomini boschi e api

Recensione del libro
Libro presentato da Giovanni Basile
Recensione pubblicata il 15 giugno 2016 (http://www.sololibri.net/Uomini-boschi-e-api-Rigoni-Stern.html)
Apri “Uomini, boschi e api” e subito ti ritrovi immerso nella dimensione suggestiva di una natura quasi leggendaria, intonsa dalla contaminazione della modernità. Boschi, uomini, animali selvatici, picchi nevosi, sentieri inerpicati che avvolgono montagne imponenti.
Mario Rigoni Stern offre una sequela di brevi racconti ambientati in uno scenario fra documentario, favola e poesia. Ti vien voglia di andare per foreste ad abbracciare il tronco a scaglie di un albero, di ascoltare voci e suoni che penetrano le selve.
Il «grande vecchio» de “Il sergente nella neve” evoca anche i momenti tragici del suo passato, durante la seconda Guerra Mondiale, in cui ha condiviso con altri sventurati compagni il rigore degli inverni sotto zero e la vita del lager.
Pagine attente, suggestive che ci portano a conoscere il gufo delle nevi, il picchio rosso, la bellezza regale dell’urogallo, la rinomata scaltrezza della volpe, il rapido guizzo della lepre inseguita dai predatori, il comportamento e le abitudini delle api.
Mario Rigoni Stern ripropone il fascino di antichi mestieri montani come quello dei pastori, dei cavatori di marmo rosso, dei carbonai e dei boscaioli.
Racconti semplici, quelli di “Uomini, boschi e api”, capaci di suscitare emozioni, ricreare sapori genuini di una natura che fluisce imperitura attraverso l’alternarsi delle stagioni.
E’ il piacere di gustare la vita in tutta la sua semplicità, e Mario Rigoni Stern ne è stato uno dei più importanti cantori della letteratura italiana del Novecento.
Attività
Lettura di racconti assegnate a singoli alunni per relazionare alla classe
Approfondimenti biografici sull’autore (ricerca da internet)

Dino Buzzati, Il segreto del bosco vecchio

Audio libro di Valter Zanardi, la lettura online del libro (in YouTube)

Dal film di Ermanno Olmi tratto dal libro Il concerto del vento Matteo (in YouTube)
Il segreto del bosco vecchio (film)
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il segreto del bosco vecchio
Paolo Villaggio in una scena del film
Titolo originale

Il segreto del bosco vecchio
Paese di produzione
Anno
Durata
134 min

Dino Buzzati (omonimo romanzo)
Tratto dall'omonimo racconto giovanile di Dino Buzzati, il film è stato girato nelle zone montane comprese tra Auronzo di Cadore, il valico alpino delle Tre Croci, ed il Comelico Superiore, in particolare nella località Valgrande.
Trama
Il colonnello in pensione Sebastiano Procolo è tormentato dalle proprie ambizioni e incattivito da una vecchiaia senza affetti. Incapace di amare e sognare, è abituato a riportare tutto alla logica della gerarchia, della ragione e del profitto.
Procolo vorrebbe diventare il proprietario delle terre che comprendono il Bosco Vecchio, da lui amministrate per conto del giovane nipote Benvenuto, ancora in collegio. Per coronare il suo sogno sarebbe disposto a commettere qualunque nefandezza, compresa l'eliminazione del nipote.
Egli progetta inizialmente di radere al suolo gran parte del bosco di piante secolari, liquidando come "favole" le voci secondo le quali in esso abitino creature benigne e favolose.
Pian piano però il luogo, con la sua magia, fa presa sul suo cuore inaridito, ed egli comincia a credere alla realtà di tali leggende, tanto che cerca di asservire una delle forze del bosco, il Vento Matteo, ai suoi scopi.
Una prima svolta si avrà durante la grave malattia di Benvenuto, quando il colonnello si mostrerà disposto a venire a patti con i geni del bosco perché lo facciano guarire, rinunciando in cambio al legname. Ma la svolta definitiva si avrà quando il vento, nel giorno di Capodanno, gli farà credere che il nipote è morto e lui è diventato il padrone del bosco: sconvolto, Procolo si reca nella notte a cercare di disseppellirlo dalla valanga in cui lo crede sepolto.
Informato dal Vento Matteo che il nipote in realtà è in salvo al collegio, il colonnello muore lasciandosi congelare, riconciliato con il proprio cuore, vedendosi simbolicamente passare un lieto battaglione di giovani soldati al suono di una allegra marcia.
Temi
Il film conserva i temi fondamentali dell'omonimo libro di Dino Buzzati:
  • la magia della natura e dell'invisibile : "...le montagne ma soprattutto gli alberi, seguiti attraverso il variare continuo delle stagioni, riescono a raggiungere una loro poetica autonomia di personaggi, proposti da immagini che non hanno bisogno della parola per farci ascoltare, capire, sentire".[1]
  • l'inesorabile scorrere del tempo: il ticchettio delle lancette su quadranti di orologi di ogni tipo, l'alternarsi delle stagioni, l'infanzia e la vecchiaia;
  • il conflitto eterno fra Bene e Male e i tormenti della psiche;
"... Procolo [...] se ne va a vivere nella foresta dai mille incanti. Imparerà con molte asperità a convivere con i folletti e l’anima del Bosco vecchio, sarà geloso di quel bambino, erede come lui, che ha con la natura una comunione naturale, quasi panteistica."[2]
  • il tema del doppio (la scena dell'ombra);
  • la possibilità di una metamorfosi, la colpa e la redenzione (il finale).
Luoghi delle riprese
  • le riprese per il Bosco Vecchio furono girate nella Foresta di Somadida (Riserva naturale Somadida) [3][4]
  • la casa del cavalier Morro, e poi di Sebastiano Procolo fu fatta costruire apposta dallo sceneggiatore Enrico Oldoini, in mezzo al bosco sopra il Passo delle Tre Croci, e poi fu smantellata.[5]
  • altre riprese sono state effettuate nella zona di Comelico Superiore, in particolare in località Valgrande. Molte delle comparse sono proprio di questi paesi.
Attività assegnate
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Lavoro scritto su confronto libro-film


Goffredo Parise, Il rimedio è la povertà
Articolo profetico e inattuale dello scrittore veneto apparso il 30 giugno 1974 sul Corriere della Sera
Povertà non è miseria, povertà è godere di beni minimi e necessari. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà. Il nostro paese compra e basta. Il nostro paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità
«Questa volta non risponderò ad personam, parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie frasi: «I poveri hanno sempre ragione», scritta alcuni mesi fa, e quest’altra: «il rimedio è la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare indietro», scritta nel mio ultimo articolo.
Per la prima volta hanno scritto che sono “un comunista”, per la seconda alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono che anche le classi meno abbienti hanno il diritto di “consumare”.
Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza consumi non c’è produzione, senza produzione disoccupazione e disastro economico. Da una parte e dall’altra, per ragioni demagogiche o pseudo-economiche, tutti sono d’accordo nel dire che il consumo è benessere, e io rispondo loro con il titolo di questo articolo.
Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà.
Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di destra.
Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”.
Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.
Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.
Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostro paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.
Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.
I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.
La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.
Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più “corretta”, come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese».
Goffredo Parise

Goffredo Parise, Il Veneto è la mia patria
 
Articolo da Il Corriere della Sera, 7 febbraio 1982
“Il Veneto è la mia Patria. Do alla parola Patria lo stesso significato che si dava durante la prima guerra mondiale all’Italia: ma l’Italia non è la mia Patria e sono profondamente convinto che la parola e il sentimento di Patria è rappresentato fisicamente dalla terra, dalla regione dove uno è nato. Sebbene esista una Repubblica Italiana questa espressione astratta non è la mia Patria e non lo è per nessuno degli italiani che sono invece veneti, toscani, liguri e via dicendo. L’Unità d’Italia non c’è mai stata nonostante la “Patria” del Risorgimento, della prima guerra mondiale, della seconda e della costituzione repubblicana in cui viviamo.
Sono nato a Vicenza, una città di pietra grigiastra dalle colonne spropositate, che in molti punti sembra finta, fatta di magnifiche “quinte” teatrali che si riassumono infatti meravigliosamente nel teatro Olimpico di Andrea Palladio, che però è di legno ed è un teatro. Anche Vicenza lo è, e non è mai stata per me una città ma appunto un teatro senza nome, in tutte le sue vie, grandi e piccole, grigie, umide e leggermente muschiose. In questo teatro ho ambientato cinque miei romanzi, senza mai far riconoscere direttamente la città perché appunto la vedevo e la ricordo come un teatro in cui si può cambiare commedia ma non scenografia. È fatta di scorci, di angoli, di improvvise colonne bianco-grigie, lievemente funerarie e grosse come alberi tropicali, non è gentile, graziosa o fantastica come Venezia ma sempre fitta e alle volte solenne appunto come le foreste tropicali. Il resto, la parte per così dire umile, è invece campagnola.
Sono nato, cresciuto e vissuto a Vicenza fino ai diciotto anni e poi a Venezia e poi a Milano, e poi a Roma e poi nel mondo. Mi è bastato poco per eleggere nel mio animo Venezia a capitale del Veneto, ed è di quella città che mi sento figlio, ma non interamente. A Venezia l’acqua si accosta alla terra in lagune e se dovessi dire quale è veramente il centro della mia terra direi che è quella parte di terraferma che non è né terra, né acqua ed è tutte e due insieme e sente sempre comunque il sapore della Laguna e vede il colore del cielo che non è né soltanto di terra (come intorno a Ferrara) né soltanto di mare come a Capri. Sono i colori del cielo di Francesco Guardi e di Tiepolo.
Lo notammo insieme a Giovanni Comisso, un giorno, sui ghiaioni del Piave ed egli mi disse: «Queste sono le nuvole del nostro cielo».
tuttavia ho girato il mondo fino a quando mi ha sorretto la gioventù e lo spirito di curiosità e di ansia esistenziale che, oltre a Comisso, doveva avere certamente per primo Marco Polo. Con lo stesso candore ed incoscienza noi veneti abbiamo girato il mondo: ma la nostra Patria, quella per cui se ci fosse da combattere combatteremmo è soltanto il Veneto. Con il ricordo dei suoi odori di polenta che uscivano un tempo dai fumaioli delle case durante l’inverno uggioso, nebbioso e nordico, gli odori di paglia, di letame, di grano e di fieno durante l’estate. Quando vedo scritto all’imbocco dei ponti sul Piave: «Fiume Sacro della Patria» mi commuovo ma non perché penso all’Italia bensì perché penso al Veneto. Fuori del Veneto per me è terra straniera e forse ostile. Non ho mai combattuto come altri possono aver fatto questo sentimento perché è veramente il più forte, né amo in maniera particolare i veneti per il solo fatto di essere veneti.
Ci sono i buoni e i cattivi, per lo più sono piuttosto ignoranti, non mi sono particolarmente simpatici, trovo più simpatici altri di altre regioni, ho pochissimi amici veneti. Ma il Veneto resta la mia Patria perché vi sono nato: semplicemente. Il mio sentimento è lo stesso di un contadino che è sempre rimasto lì e ha la sua terra e la sua falce preferita che gode ad arrotare cavandone suono brillante. So distinguere le campane del Veneto da ogni altro suono di campane, specialmente quelle della Basilica di Monte Berico a Vicenza, non le ho mai dimenticate e se ne risento il suono nell’immaginazione mi prende la stessa allegria del mattino di domenica quando, da ragazzo, mi svegliavo al loro suono.
Non mi sono mai interessato di politica, né nazionale né internazionale perché è politica che riguarda solo marginalmente la mia Patria. E tuttavia, detto tutto questo, non sono più veneto da molti anni e se la mia regione ha ormai spazi internazionali il mio sentimento è piccolissimo e fortissimo ed è tutto racchiuso nel Veneto, specie sulle immense ghiaie infocate del Piave durante l’estate e l’azzurro torrente che vi scorre in mille rivoli e pozze gelide.
Del Veneto amo Venezia, Treviso, e Cortina d’Ampezzo, i luoghi da me più frequentati. Ritengo che le Tofane e le grandi e scintillanti distese di neve su tutta la Conca Ampezzana ma anche al di là verso la provincia di Bolzano, quella cresta punta che si chiama monte Lagazuoi, in vetta al passo del Falzarego, siano la mia Patria. Che quella qualità di neve, invernale o primaverile su cui gli sci scricchiolano appena durante l’inverno e scivolano durante la primavera, siano più di ogni altro elemento quello distintivo della mia Patria. La neve della mia Patria è sempre stato l’elemento primo della mia vita non soltanto sportiva, anzi lo sport non c’entra niente. L’ho baciata, mangiata, leccata, carezzata molte volte. Mi sono immerso in quella neve un giorno o due dopo le grandi nevicate come in un bagno di fresca vita con gli occhi rivolti al cielo immensamente azzurro e al sole, puntino bianco dai raggi accecanti. Ho sorpreso camosci nella loro intimità primaverile, sfiorato caprioli, agguantato a tuffo una pernice bianca e solo per poco mi è mancato un gallo forcello, rotolando con loro lungo i bianchi pendii. Ho guardato da lontano, stando sempre sugli sci, i piccoli paesi che si vedono dalle alte vette nevose, con i loro campanili già austriaci e piano piano scendendo nel silenzio li ho raggiunti. Quasi sempre solo o in compagnia di amici che provavano il mio stesso sentimento. Ho infine guardato la neve scendere quando le saltava il ticchio di scendere, lenta, sottile e fatata, dalle finestre di una casetta ben riscaldata, per ore e ore senza accorgermene, tanta smania avevo di lei, sempre e sempre.
Venezia, il sogno di tutti i sogni, l’ho conosciuta da solo senza guide, d’inverno girando per le calli e perdendomi in conti­nuazione e scoprendo la sua bellezza stranamente lagunare e non marina (il mare sta nel sud dell’Italia oppure a nord, in Liguria) che odora di alghe e anche un poco di merda. Qua e là qualche fritto di pesce. Ho infinitamente amato (quasi come l’odore della neve nel vento) l’odore dei pontili d’estate, che sta tradii forte salso, lo iodio e quello della pelle al sole appena uscita dall’acqua. Le lunghe passeggiate sulla spiaggia mai deserta del Lido dove si è tutti fratelli, sorelle, cugini, zii, nonni, dominata da due grandi alberghi che si ergono come una lus­suosa clinica il primo e come immensa moschea aguzza di minareti in un miraggio da deserto il secondo. Ho amato con brividi di piacere le fresche stradine sepolte di verde del Lido, con cespugli popolati di lucciole, canaletti e poi improvviso il mare Adriatico con la sua luna calma e rossa. Della Laguna e delle sue isole ho già accennato che piano piano, a lembi, a strappi, si avvicinano alla terraferma e da dove si vedono sempre incombere le montagne azzurre o coperte di neve. Ed ecco arrivare tra un lembo e l’altro di barena Punta Sabbioni e Jesolo, cosi pazzamente colorata d’estate e cosi deserta come il Sahara d’in verno, percorsa da venti gelidi là dove migliaia di tende e roulotte stavano pochi mesi prima, per il rincorrersi sempre troppo rapido delle stagioni così diverse una dall’altra.
Ecco dunque la terra che si innesta quasi immediatamente nella Marca Trevigiana attraverso le campagne di bonifica, altro mare di granoturco solcato dal fiume Piave che si fa largo e piatto alla foce, fiancheggiato da vigneti. Ed ecco, andando verso Treviso, il Piave rifarsi quello che è, torrente, con le sue isole tra le ghiaie, le grandi bilance da pesca che lo coprono da una riva all’altra e poi farsi ruscello, ragnatela di ruscelli dal rumore leggero di sorgente contro i sassi delle infinite prode.
Treviso è una città contadina, esistono ancora sellai e un mercato pieno di oggetti fatti a mano per il lavoro della terra o della casa di campagna; coltelli, falci, trappole per i topi, canestri seggiole di paglia, graticole, spiedi e coltellini con il manico di legno, dritti e ricurvi e tutto è ricoperto da quell’odore di grasso e di consorzio agrario, di semi e bulbi, che ognuno (spero) conosce, salvo gli abitanti delle grandi città. Anche tutti questi oggetti e odori sono la mia Patria. Non parlerò del dia­letto che come scrittore non amo perché soltanto in questo penso che la mia patria linguistica è l’italiano, che può anche essere una traduzione psichica del dialetto stesso ma non amo i dialetti come lingua letteraria: i dialetti (tutti) sono fatti per essere par­lati e nel luogo esatto dove sono nati e sviluppati, in quei picco­li luoghi perché il dialetto cambia da un chilometro all’altro.
Eppure non l’ho scordato e sempre quando posso parlo con infinito piacere il dialetto perché è la lingua della mia Patria. Piano piano sparirà e la sua conservazione, la più poetica per quanto riguarda la mia Patria, si troverà un giorno nei micro­film delle poesie di Andrea Zanzotto che nel Galateo in bosco, l’ ultimo suo libro, ha raggiunto altissimi gradi di musica per­pendicolare, come una sonda conficcata a Pieve di Soligo dai sottoboschi marcescenti di castagni, con i suoi ragni e bisce e vermiciattoli e suoni a mezzo tra vegetali e animali, talpacei, dentro la nostra terra fino al centro del globo a raggiungere fuochi o rose danteschi.
Ma il centro vero e solo e unico della mia Patria lo dirò ora: è una casetta, una specie di casa delle fate, minuscola e vecchia, con tutto vecchio dentro ma efficiente e caldo a cominciare dal focolare, che sta proprio sui bordi del Piave e spesso ne viene sommersa. A mezzo metro da una finestrella che ho fatto aprire verso nord per guardare le montagne e la neve, in maggio arriva 1’upupa a trafficare per il suo nido, rizzando la sua crestina va­nitosa e giustamente “ilare” come dice il poeta. A pochi metri, su un altro salice picchia il picchio, con quel movimento del becco come la piccozza del minatore o dello scalatore di vette. Le rane cantano dentro piccoli stagni e ruscelli che si gettano nel Piave, le lepri, all’alba, giocano all’amore in coppie, in piedi, una rivolta verso l’altra come danzando, un alveare naturale si e formato tra i due vetri di una finestrella e da un giorno al­l’altro, un grosso gufo è sceso dal camino in una frana di fulig­gine odorosa, le lucciole girano e il sapore del mare quando è scirocco giunge ad avvertire che la partenza, se voglio, può es­sere imminente oppure no, a seconda dell’estro. La mia Patria è Ponte di Piave, un paesetto vicino un chilometro, con una fon­tana di acqua ferruginosa, ma sto qui, abito a Roma, all’estero. Perché? Perché così è la vita. Goffredo Parise”
Attività
Discussione in classe sugli articoli letti

Pietro Galletto, Mio padre
Galletto nell’eremo scrive volumi e dipinge paesaggi
PONTEVIGODARZERE. Da quando è in pensione (dopo aver lavorato come medico dentista all’Inam per 40 anni), si è ritirato, quasi come un eremita, nella sua linda casetta di via Moschini 20. E non fa...
05 ottobre 2012 (da Il Mattino di Padova)
PONTEVIGODARZERE. Da quando è in pensione (dopo aver lavorato come medico dentista all’Inam per 40 anni), si è ritirato, quasi come un eremita, nella sua linda casetta di via Moschini 20. E non fa altro che scrivere, saggi e romanzi, dalla mattina alla sera. Negli ultimi tempi si dedica anche alla pittura. In genere dipinge i paesaggi della campagna veneta e quelli delle Dolomiti e del Garda.
Il dottor Pietro Galletto, classe 1929, ha scritto oltre 15 libri, pubblicati da Gregoriana, Borga, Draghi e Battagin. Attualmente è anche coordinatore della trasmissione«I Grandi Veneti dell’Ottocento» che va in onda su Televeneto. Tra i suoi libri più letti anche «Mio Padre» in cui ricorda Giuseppe, docente di lettere a Sandrigo. Una bibliografia nutrita: «Dono di Brunella» dedicato alla moglie deceduta nel 1963; «La Storia della Resistenza nel Veneto» e « Fine e Rinascita della Repubblica della Serenissima»; «La Ruota» ispirato alla ruota degli esposti di via Ognissanti al Portello; «La Vita di Giuseppe Mazzini» in tre volumi. Ha scritto anche «Dai Comuni Medievali alla Repubblica Italiana» per cui ha ricevuto un ringraziamento scritto dal presidente Oscar Luigi Scalfaro.
Galletto sta a casa e scrive. Una delle ultime volte che ha varcato il cancello è stato due anni fa: accompagnato dall’amico Giovanni Marini, è andato a consegnare, nella parrocchia di San Giovanni Battista i sui volumi al questore Luigi Savina. Si alza di buon’ora. Beve il caffè e dalle 9 è già curvo sulla vecchia scrivania del suo studio a scrivere o a dipingere. A mezzogiorno
mangia con Maria Celeghin e torna al lavoro. Scrive con la bellissima penna ad inchiostro. «Vivo in un mondo tutto mio. Esco rare volte. Intorno respiro un clima effimero e fragile. Preferisco restare nel mio eremo. Tra i libri ed i miei paesaggi».
Felice Paduano
Attività
Lettura di parti del libro assegnate a singoli alunni per relazionare alla classe
Approfondimenti biografici sull’autore (ricerca da internet)



Giovanni Comisso, Una città di pescatori e Ortolani di Sottomarina (da Gente di mare)

UNA CITTA’ DI PESCATORI
Si arriva per prati d’acqua, dopo avere rasentato paesi costruiti come scene di teatro di altri tempi e panorami di alberi con terreni erbosi di un verde prepotente sul precipizio azzurro del mare.
Il vaporino attracca al molo arioso e subito ci accolgono i più vivaci sorrisi accresciuti dalla luce. La città è un aspro guscio d’ostrica dove tra riflessi di madre perla la vita fermenta. Sui gradini del primo ponte, vecchi pescatori curvi e frettolosi raggiustano le reti bruciate dal salso, tenendole tese con le dita dei piedi. Più avanti ci s’accorge del temperamento isolano della gente, insistente a guardarci e a commentare sulla stoffa del nostro pastrano. Altri vecchi, puntigliosi e pettegoli, seduti su piccole sedie rattoppano una vela e tra le grosse pieghe spuntano i loro piedi con lucide ciabatte da donna. La calle rasenta il canale fitto di barche. Forti ragazzi camminano abbracciati e sorridono. Botteghe di verdura e di frutta sembrano vuotarsi sul selciato sconnesso. Tutti parlano a voce alta con la stessa intonazione come fossero a bordo dei loro velieri tra il vento che disperda i comandi. Spesso l’aria viene lacerata da grida astiose che risentono della lotta con il mare. Le donne sembrano create dopo un fortunale di scirocco che abbia allenato all’amore le braccia dei marinai: tanto ànno di ventoso nel capo e di patito nel corpo. Ma le giovinette incantano per meraviglia. Rinchiuse nelle piccole case, la noia le accende negli occhi verdastri, il collo su dalla centina delle spalle à tutto il desiderio di un mozzo che voglia scoprire la terra per primo e l’agilità a ogni mossa di vertebra non si nega, pure camminando sui duri zoccoli, sbattuti per il dispetto di essere prigioniere nella città isolata. Sgusciano e sfuggono. Nell’ombra dei portici altre chinano i loro pensieri su di un lavoro di bianchi merletti come sopra alla muta apparizione del corpo amato. Sono state raccontate iniziative fantastiche di perdimento concesse in favore del ricco forestiero e siamo tentati a credere dallo sguardo penetrante e di agguato di certe vecchie nascoste dietro all’imposte socchiuse.
Seduti per terra, luridi di sole e di polvere, i bambini sono innumerevoli, quasi si pestano, sono come cuccioli che non riescano a spostarsi con le zampe non ancora congiunte da muscoli, ma dai ponti scendono e dalle barche attraccate spiccano salti i ragazzi già compatti nel corpo da arcieri. Ànno una turgidezza africana nel petto, il capo rotondo si volge libero sul collo brunito e nel camminare con i larghi piedi scalzi imitano tutta l’eleganza delle onde. I vecchi dagli occhi lustri strisciano rasente ai muri, foschi di fermento e di rabbia come per essere dovunque respinti.
***
Il mare freme nella prima mattina al maestrale che lo inazzurra. La terra si delinea bassa nel biancore del sole appena sorto, qualche trama di nubi dà a tutta l’aria una penombra d’argento. Sulla città poco lontana, la luce si alterna alle ombre, le case fitte di finestre, le cupole e i campanili splendono in parte. Non è il vento degli approdi che spira, è il vento delle partenze. I bragozzi dalle prue scudate ànno issato le vele e scattano verso il mare. Il capitano al timone, sereno nello sguardo e sorridente, gli altri tutti a prua, ritti in piedi, preparano le reti. Partono per la pesca del pesce turchino. A sera ritornano. Allora risalgono il canale e si fremano alla pescheria accanto al portico di pietra e di quercia. Le ceste si vuotano nelle casse, le mani si adoperano con avidità sui molluschi bianchi e rosa.
La curiosità sospinge tra la baraonda degli scaricatori, le casse pesanti scagliate scivolano sulle pietre inumidite fino ai carri dove altri le afferrano. Con funi traggono altre casse dalle barche, pare siano tesori ripescati dal fondo del mare. Grossi tonni lucidi e torniti come proiettili di acciaio e rosse carpene irte come draghi e le triglie con i riflessi dell’aurora e le sardine di stagno e gli scampi come rose passano dal sole all’ombra, scompaiono. Le mani dei ragazzi palpano l’impasto delle seppie immergendo le braccia fino al gomito. Le donne spiano timide la violenza di questi uomini e non osano che mendicare qualcosa per cena.
Gli scaricatori fremono nelle spalle come aquile sulla preda, gli occhi luccicano con sospetto e le dita come artigli strappano la gioia di ammirare.
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Questi sono i pescatori che battono il vicino litorale, ma altri vanno più lontano, lungo le coste dell’Istria, della Morlacchia e della Dalmazia. Vanno a compagnie. Prima di partire tutti i padroni di bragozzo si radunano a bere ed eleggono il capo. Questi parte in testa e dovunque egli vada è seguito dagli altri.
Ritornano per Natale alcuni, altri per Pasqua o per la festa dei santi Felice e Fortunato, patroni della città. Il mare fruttisce sempre, sempre sotto al sole che arde o al gelo che taglia vi è chi tiene le reti in mare. Al ritorno, appena una di queste compagnie spunta all’orizzonte, dalla cella campanaria del campanile più in alto, un vecchio marinaio a cui di buono è rimasto solo la vista, riconosciuti i padroni dai segni delle vele, va alle case delle loro famiglie, batte la porta e grida: ‘I xe qua!’.
Allora le donne corrono al molo con i figlioletti, nati anche durante l’assenza e aspettano vibranti di ansia come fronde aggrovigliate dal vento. Il veliero arriva e subito prima ancora di essere fermo, si salutano alla voce e si scambiano le novità poi, imboccato il canale e ammainate le vele, le antenne fittiscono lucide di unto come alberi della cuccagna.


Attività
Lettura di parti del libro assegnate a singoli alunni per relazionare alla classe
Approfondimenti biografici sull’autore (ricerca da internet)

Sintesi delle attività assegnate
- leggere in classe e a casa
- ascoltare testi letti in classe
- produrre audioletture
- scrivere recensioni, sintesi di testi, relazioni sull’attività
- discutere sui temi dei libri
- confrontare autori e testi
- confrontare libri e film tratti dai libri
- raccogliere informazioni su autori e testi
- scrivere racconti ambientati nel proprio territorio


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