Natura crudele, di Dino Buzzati
Vajont, 9 ottobre 1963: "Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed asciutta che la fantasia della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alla spalle. Si direbbe quasi che in tutte le grandi conquiste tecniche stia nascosta una lama segreta e invisibile che a un momento dato scatterà"
Così titolò il
giornale milanese un articolo di Dino Buzzatti. Il grande scrittore era di
origine bellunese e scriveva della tragedia del Vajont proponendo l'immagine di
una rivincita della terra sulla scienza e sulla tecnica.
L'articolo di Dino Buzzatti pubblicato
dal Corriere della Sera l'11 ottobre 1963
"Stavolta per il giornalista che commenta non c'è compito da risolvere, se si può, con il mestiere, con la fantasia e con il cuore. Stavolta per me, è una faccenda personale. Perché quella è la mia terra, quelli i miei paesi, quelle le mie montagne, quella la mia gente. E scriverne è difficile. Un po’ come se a uno muore un fratello e gli dicono che a farne il necrologio deve essere proprio lui.
"Stavolta per il giornalista che commenta non c'è compito da risolvere, se si può, con il mestiere, con la fantasia e con il cuore. Stavolta per me, è una faccenda personale. Perché quella è la mia terra, quelli i miei paesi, quelle le mie montagne, quella la mia gente. E scriverne è difficile. Un po’ come se a uno muore un fratello e gli dicono che a farne il necrologio deve essere proprio lui.
"Conosco quei posti così bene, ci
sono passato tante centinaia e migliaia di volte che da lontano posso immaginare
tutto quanto come se fossi stato presente.
"Per gli uomini che non sanno, per i
paesi antichi e nuovi sulla riva del Piave, là dove il Cadore dopo tante
convulsioni di valloni e di picchi apre finalmente la bocca sulla pianura e le
montagne per l'ultima volta si rinserrano le une alle altre, è soltanto una
bellissima sera d'ottobre. In questa stagione l'aria è lassù limpida e pura e i
tramonti hanno delle luci meravigliose. Ecco, il sole è scomparso dietro le
scoscese propaggini dello Schiara, rapidamente calano le ombre, giù dalle
invisibili Dolomiti comincia a soffiare un vento freddo, qua e là si accendono
e si spengono i lumi, i buoi si assopiscono nelle stalle, gruppetti operai
dalla fabbrica di faesite pedalano canterellando verso casa, un'eco di juke box
con la rabbiosa vocetta di Rita Pavone esce dal bar trattoria con annessa
colonnetta di benzina, rare macchine di turisti passano sulla strada di
Alemagna, la stagione delle vacanze è finita. Proprio di fronte a Longarone la
valle del Vajont è già buia, più che una valle è un profondo e sconnesso taglio
nelle rupi, un selvaggio burrone, mi ricordo la straordinaria impressione che
mi fece quando lo vidi per la prima volta da bambino. A un certo punto la
strada attraversava l'abisso, da una parte e dall'altra spaventose pareti a
picco. Qualcuno mi disse che era il più alto ponte d'Italia, con un vuoto,
sotto, di oltre cento metri. Ci fermammo e guardai in giù con il batticuore.
"Bene, proprio a ridosso del vecchio
e romantico ponticello era venuta su la diga e lo aveva umiliato. Quei cento
metri di abisso erano stati sbarrati da un muro di cemento, non solo; il
fantastico muraglione aveva continuato ad innalzarsi per altri centocinquanta
metri sopra il ponticello e adesso giganteggiava più vertiginoso delle rupi
intorno, con sinuose e potenti curve, immobile eppure carico di una vita
misteriosa.
"Notte. Due finestre accese nella
cabina comandi centralizzati, nell’acqua del lago artificiale si specchia una
gelida fascetta di luna, ronzii nei fili, giù nel tenebroso botro lo scrosciare
dello scarico di fondo, a Longarone, Faè, Rivalta, Villanova dormono, ma c'è
ancora qualcuno che contempla il video, qualcuno nell'osteria intento
all'ultimo scopone. In quanto alle montagne esse se ne stanno immobili, nere e
silenziose come il solito.
"No, a questo punto l'immaginazione
non è più capace di proseguire, la valle, i monti, i paesi, le case, gli
uomini, tutto riesco ad immaginare nella notte tranquilla poiché li
conosco così bene, ma adesso non bastano le consuetudini e i ricordi. Come
ricostruire con la mente ciò che è accaduto, la frana, lo schiantamento delle
rupi, il crollo, la cateratta di macigni e di terra nel lago? E l'onda
spaventosa, da cataclisma biblico, che è lievitata gonfiandosi come un immenso
dorso di balena, ha scavalcato il bordo della diga, è precipitata a picco giù
nel burrone, avventurandosi, terrificante bolide di schiuma, verso i paesi
addormentati. E il tonfo nel lago, il tremito della guerra, lo scroscio
dell'abisso, il ruggito folle dell'acqua impazzita, il frastuono della rovina
totale, coro di boati, stridori, rimbombi, cigolii, scrosci, urla, gemiti,
rantoli, invocazioni, pianti? E il silenzio alla fine, quel funesto silenzio di
quando l'irreparabile è compiuto, il silenzio stesso che c'è nelle tombe?
"Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua
e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era
alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto,
sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere,
quindi non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l'ha
costruito. Il bicchiere era fatto a regola d'arte, testimonianza della tenacia,
del talento, e dei coraggi umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro,
perfino dal lato estetico. Mi ricordo che mentre la facevano l’ingegnere Gildo
Sperti della Sade mi portò alla vicina centrale di Soverzene dove c'era un
grande modello in ottone dello sbarramento in costruzione. Ed era una scultura
stupenda, Arp e Brancusi ne sarebbero stati orgogliosi.
"Intatto, di fronte ai morti del
Bellunese, sta ancora il prestigio della scienza, dell'ingegneria, della
tecnica, del lavoro. Ma esso non è bastato. Tutto era stato calcolato alla
perfezione, e quindi realizzato da maestri, la montagna, sotto e ai lati, era
stata traforata come un colabrodo per una profondità di decine e decine di
metri e quindi imbottita di cemento perché non potesse poi in nessun caso fare
dei brutti scherzi, apparecchiature sensibilissime registravano le più lievi
regolarità o minimi sintomi di pericolo. Ma non è bastato. Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed
asciutta che la fantasia della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la
natura si è vendicata attaccando il vincitore alla spalle. Si direbbe quasi che
in tutte le grandi conquiste tecniche stia nascosta una lama segreta e
invisibile che a un momento dato scatterà.
"Intatto,
e giustamente, è il prestigio dell'ingegnere, del progettista, del costruttore,
del tecnico, dell'operaio, giù fino all'ultimo manovale che ha sgobbato per la
diga del Vajont. Ma la diga, non per colpa sua è costata diecimila morti. I
quali morti non sono della Cina o delle Molucche, ma erano gente della mia
terra che parlavano come me, avevano facce di famiglia e chissà quante volte ci
siamo incontrati e ci siamo dati la mano e abbiamo chiacchierato insieme. E il
monte che si è rotto e ha fatto lo sterminio è uno dei monti della mia vita il
cui profilo è impresso nel mio animo e mi rimarrà per sempre. Ragione per cui
chi scrive si trova ad avere la gola secca e le parole di circostanza non gli
vengono. Le parole incredulità, orrore, pietà, costernazione, rabbia, pianto,
lutto, gli restano dentro col loro peso crudele".
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