Letteratura. Pablo d'Ors: «La soluzione alla crisi della parola è educarsi al
silenzio»
Alessandro Zaccuri domenica
7 ottobre 2018
Lo scrittore e sacerdote spagnolo parla del suo ultimo
libro “Entusiasmo”, edito da Vita e Pensiero: «l titolo si riferisce anzitutto
alla condizione di chi è abitato dallo Spirito»
Il sacerdote e
scrittore Pablo d’Ors è nato a Madrid nel 1963
«No, non è soltanto crisi della
lettura: la crisi vera, la più allarmante, riguarda la parola». Pablo d’Ors lo
dice con convinzione, oltre che con competenza. Nato nel 1963 a Madrid in una
famiglia di intellettuali (suo nonno era lo storico e critico d’arte Eugenio
d’Ors), è diventato sacerdote nel 1991, seguendo una vocazione le cui tappe,
tutt’altro che prevedibili, sono ora ripercorse in Entusiasmo, il
suo romanzo autobiografico in uscita da Vita e Pensiero (traduzione di Simone
Cattaneo, pagine 416, euro 19,00).
Del libro, e più in generale del
rapporto con la lettura e la letteratura, D’Ors parlerà nei prossimi giorni a
Milano, dove si trova per partecipare alle celebrazioni per il centenario della
casa editrice dell’Università Cattolica. «Tutti i miei libri sono in qualche
modo ispirati dall’opera di un altro scrittore – spiega D’Ors, che ricopre tra
l’altro l’incarico di consultore per il Pontificio Consiglio della Cultura
–. Lezioni d’illusione (ancora inedito in Italia, ndr)
aveva come modello La montagna incantata di Thomas Mann, Avventure
dello stampatore Zollinger si rifaceva a Siddharta di
Hermann Hesse, i miei primi racconti erano fortemente influenzati dal Libro
dell’inquietudine di Fernando Pessoa. Per Entusiamo il
mio riferimento è stato La montagna dalle sette balze di
Thomas Merton. Si tratta, in entrambi i casi, della storia di una vocazione.
Per me la scrittura è esattamente questo: mettersi in ascolto di una voce
interiore che però non si esaurisce nella mente e si traduce subito in
un’attività che definirei “manuale”. Quando comincio un nuovo libro, non parto
mai dall’idea, ma la trovo strada facendo, attraverso la scrittura».
Da dove viene il titolo? Davvero
l’entusiasmo è l’elemento dominante della sua vita?
«Questo non è esattamente un
racconto autobiografico, ma autofittizio, come del resto tutti i miei libri.
Posso dire di rispecchiarmi in ciascuno dei miei protagonisti, anche se è
evidente che il Pedro Pablo di Entusiasmo mi somiglia più di
ogni altro. Quella parola è stata, fin dall’inizio, il titolo del romanzo. La
intendo in senso letterale, ossia all’essere posseduti dagli dèi. Ho provato a
raccontare la storia di una persona che sente di essere abitata dallo Spirito e
che, di conseguenza, vive e legge tutta la sua esperienza come risposta alla
voce interiore da cui è chiamato. A differenza di altre realtà umane, l’entusiasmo
non è una virtù e neppure un tratto del carattere: è il frutto del lavoro che
ciascuno può compiere su sé stesso, scoprendo una forza che prima non si
sospettava neppure di avere».
E questa forza ha un nome?
«Certo: è lo Spirito Santo».
La cui azione passa anche attraverso
i libri?
«Per quanto mi riguarda sì,
senz’altro. Non soltanto perché la mia scrittura, come ho già provato a
spiegare, nasce sempre dalla lettura. I libri veramente grandi, secondo me,
sono quelli che fanno nascere altri libri, trasformando un atto potenzialmente
passivo in un’iniziativa attiva e liberante. In questo senso, nella mia
formazione sono stati fondamentali i Racconti di un pellegrino russo, il
testo del XIX secolo attraverso il quale è giunta in Occidente la tradizione,
squisitamente orientale, della cosiddetta “preghiera del cuore”, che è
invocazione continua del nome di Gesù, fino all’abbandono totale di sé. Sono le
due invenzioni fondamentali della spiritualità cristiana: da una parte, in
Occidente, c’è la Liturgia delle Ore, che si basa sulla ripartizione ordinata
del tempo; d’altro canto, in Oriente, la preghiera del cuore presuppone la
conquista della spazio, inteso anzitutto come spazio corporeo, all’interno del
quale si situa il cuore, che è quanto di più profondo costituisce la nostra
interiorità. Per dialogare con Dio bisogna prima imparare a dialogare con il
nostro cuore».
In «Entusiasmo» si insiste molto
sull’umanità del sacerdote, senza reticenze sulla fragilità, perfino sulle
tentazioni...
«Ancora oggi, quando si parla di
sacerdozio, l’archetipo continua a prevalere sulla realtà . Ci si concentra sul
ruolo che il prete dovrebbe ricoprire e non ci si interessa alla sua persona.
Essere veramente personali, e cioè consapevoli di sé, è il presupposto
indispensabile per maturare un atteggiamento di compassione universale. Quanto
alle debolezze, la mia convinzione è che parlare con schiettezza dell’umanità
dei sacerdoti e, in genere, dei cristiani sia il miglior servizio che possiamo
rendere al cristianesimo e alla Chiesa. Se davvero crediamo di essere figli
dell’Incarnazione, non possiamo negare che la divinità si trova proprio in
quanto esiste di più umano. Non sono i buoni a meritare la compagnia di Dio,
perché Dio sta nelle ombre: nel buio della sofferenza, nel crepuscolo della
contraddizione. Il cristianesimo, a sua volta, non è l’adesione a un modello
predeterminato, ma lo sforzo di riconoscere e attuare un’armonia fra i diversi
aspetti della vita. Non intendo affermare che il male ha diritto a esistere, ma
che il cristiano ha il dovere di redimere il male».
Qual è il rapporto fra sacerdozio e
poesia?
«Fra profezia e poesia, direi. Ed è
un rapporto che vale per ogni cristiano. Il poeta infatti è colui che vede la
realtà e la rappresenta. Allo stesso modo, il profeta rende testimonianza nella
prossimità, nel prendersi cura del povero e nell’ammettere, in primo luogo, la
sua stessa povertà, il suo stesso bisogno di salvezza. Ma senza poesia non può
darsi profezia. Non si può cambiare la realtà se prima non la si osserva e noi,
oggi, siamo poco propensi all’osservazione. Ci illudiamo di risolvere subito i
problemi e così facendo impediamo alla realtà di esprimersi. Ripensando alla
mia vita, questo è il rischio che io stesso ho corso durante la missione in
Honduras. Ero partito con l’ingenua convinzione di andare ad aiutare gli altri,
ma poi la realtà si è imposta con una tale intensità da commuovermi e
sorprendermi. A quel punto non ho potuto fare a meno di capire come, più che
dare e aiutare, occorra vivere e accogliere. La poesia, in fondo, non è altro
che riconoscimento e condivisione di una realtà che ci chiama».
A patto che si voglia ascoltarla.
«Esattamente. Quando parliamo di
crisi della lettura, stiamo indicando solo uno trai molti aspetti di una crisi
più ampia, che investe la parola e, di conseguenza, l’ascolto. In questo
momento più che mai le parole sono dappertutto, ma questa proliferazione sta
generando una sfiducia senza precedenti. Non ci fidiamo delle parole perché
pensiamo che siano costruzioni intellettualistiche, discorsi lontani dalla
nostra quotidianità. Il nucleo più autentico delle parole, invece, è di natura
spirituale: si rivolge all’anima, non alla mente. Il dramma è che non ce ne
rendiamo più conto».
Come mai?
«Perché manca il silenzio. Se davvero
vogliamo tornare a dare importanza alle parole, dobbiamo fondare una cultura
che educhi al silenzio. Chi non sa tacere non può scrivere, né tanto meno
leggere».
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