Limena:
un giardino dell’eternità nell’oratorio della B. V. del Rosario (sec. XVII),
attribuibile al Tremignon
Il
simbolismo dei fiori e delle farfalle nella predella dell’altare
di Bruno Trevellin
(Limena,
facciata dell’Oratorio della B. V. del Rosario, sec. XVII)
(Altare dell'oratorio)
(Predella ai piedi
dell’altare dell’oratorio)
L’oratorio della Beata
Vergine del Rosario di Limena[1]
(sec. XVII), annesso alla villa Fini[2],
di cui rimangono oggi solo le due barchesse laterali (una adibita a sede
municipale), è un’opera realizzata su progetto di Alessandro Tremignon[3],
allievo del Longhena, che può ben essere considerata il gioiello architettonico
del territorio. Allo stesso Tremignon
vengono attribuiti la facciata del San Moisè a Venezia e l’altare maggiore del
duomo di Chioggia (1670)[4]. Quest’ultimo
è di notevole interesse perché la decorazione è molto simile a quella che
ritroviamo nell’altare dell’oratorio limenese, sia per quanto riguarda il
giardino pavimentale sia per quanto riguarda i putti ornamentali, al punto che
anche l’altare di Limena si può attribuire al Tremignon.
Il
giardino dell’eternità nell’oratorio di Limena
Il pavimento ai piedi
dell’altare (predella) della ‘Chiesetta’, così chiamano i limenesi il loro
oratorio, è una realizzazione a motivi floreali fatta, come in quello chioggiotto, con intarsi di pietre dure, tipicamente
secentesca. Un ‘paradiso’ con i suoi fiori che per sant’Agostino e san Pier
Damiani dovevano essere rose, gigli, crochi. Un precedente illustre, di poco
antecedente a quelli del Tremignon, è senz’altro quello dell’altare maggiore di
Santa Giustina a Padova realizzato dal fiorentino Pietro Paolo Corbelli (1642)[5]. ‘Il
simbolismo floreale era di uso frequente nella letteratura mistica fin dal
medioevo e il significato di questi fiori doveva essere abbastanza evidente per
i fedeli dell’epoca’[6]. La
decorazione floreale degli altari inoltre è legata alla presenza ‘viva’ dei
fiori sui sepolcri dei martiri in uso tra i primi cristiani, autorizzata proprio
nel Seicento dal Cerimoniale episcoporum,
che permetteva la presenza sugli altari solo di ‘fiori naturali e recisi’, non
di piante con radici in vaso, come spesso accade oggi, perché solo quei fiori
simboleggiano ‘il sacrificio eucaristico, “morendo” letteralmente sull’altare’[7].
(Chioggia, cattedrale
S. Maria Assunta, particolare altare maggiore)
In quello limenese da
un vaso centrale a doppia cornucopia[8](?)
fuoriescono due steli simmetrici che si arricchiscono di foglie e di fiori di
vario tipo. Tra questi il TULIPANO[9],
tipico nella realizzazioni dell’epoca e che, se rosso, simboleggiava la Carità
e il sangue dei martiri (i suoi bulbi erano valutati più dell’oro!); il MUGHETTO,
simbolo dell’incarnazione di Cristo perché fiorisce in concomitanza con la
festa mariana dell’Annunciazione, che cade il 25 marzo; il FIORE A CINQUE
PETALI che sta a significare le cinque piaghe del Cristo crocifisso, ma anche
la rosa a cinque petali[10] e
il petalo a tre lobi l’unità e la trinità di Dio. Tra le foglie ci sembra di
scorgere quella del fico (SICONIO), albero edenico della conoscenza del bene e
del male[11].
Tra questi fiori non potevano poi mancare un paio di FARFALLE, simbolo della
vita risorta e di salvezza[12].
Un
restauro ‘mancato’
Se mettiamo a confronto
l’elemento centrale del giardino del nostro oratorio prima e dopo il restauro
del 2007, possiamo osservare come l’intervento sia stato realizzato in modo
troppo invasivo, al punto da farne perdere il significato simbolico che aveva
quando venne realizzato nel ‘600. Come nel quadrilobo dell’altare di Santa
Giustina, in cui la martire è raffigurata ‘in un giardino, con uno sfondo di
alabastro cotognino di colore giallo chiaro che simboleggia la luce divina’[13],
così il giardino limenese doveva traboccare da un giallo divino che il
restauratore ha però profondamente modificato, aggiungendovi colorazioni e
motivi che lo allontanano dall’originale. Lo stesso dicasi per il cambio di
colorazione di altri elementi, quali il tulipano e la farfalla sulla destra.
(Padova, Basilica di
Santa Giustina, quadrilobo con santa Giustina)
(particolare centrale
della predella prima del restauro del 2007, foto in Martinello, L’oratorio della Beata Vergine del Rosario)
[1] Per una
conoscenza più approfondita sull’oratorio si vedano: Renato Matinello, L’oratorio della Beata Vergine del Rosario a
Limena, Piazzola sul Brenta, 1993 e Giorgio Galeazzo-Renato Martinello, Il restauro dell’oratorio della Beata
Vergine del Rosario a Limena, Limena, 2007
[2]
I Fini, greci di Cipro, nel 1662 risultano proprietari a
Limena di oltre 1300 campi, di decine di case, di una fornace e di un mulino. È
del ‘700 il disegno che mostra la loro splendida villa in centro paese. Di
tutto questo complesso rimangono oggi le due barchesse e l’oratorio che, non a
caso, verrà dedicato dai Fini alla Beata Vergine del Rosario, un secolo dopo
Lepanto. Loro, profughi da Cipro, dedicano la ‘chiesetta’ (così la chiamano i
limenesi) proprio alla B. Vergine che, con la sua intercessione, aveva
consentito alla flotta della Lega Santa di sconfiggere il temibilissimo
avversario turco (in: http://esperienzediscuola.blogspot.com/2016/12/da-lepanto-limena-loratorio-dei-fini.html).
[4] http://www.artechioggia.it/it/arte/index.php?option=com_content&view=article&id=155&Itemid=657&lang=it
[5]
Francesca
Marcellan, Il giardino dell’eternità
nell’altare maggiore di Santa Giustina, in Padova e il suo territorio, Padova, 2018 (192), pag. 9-14
[6] Ivi, pag. 13
[7] Ivi, pag. 12
[8] CORNUCOPIA.
- È il "corno dell'abbondanza", simbolo della fertilità, emblema del
complesso di beni necessarî alla vita umana. La leggenda voleva che essendosi
spezzato uno dei corni della capra Amaltea che nutriva il piccolo Giove, il
corno fosse riempito di frutti, circondato di fronde, e donato da Giove alle
ninfe. Un'altra leggenda voleva che Ercole, vinto Acheloo, gli strappasse uno
dei corni e lo consacrasse ugualmente alle ninfe. È probabile che nel corno di
abbondanza si debba vedere solo una trasformazione del corno di animale, di cui
in antico ci si serviva come di vaso da bere. Spontanea doveva nascere l'idea
di accoppiare il corno da bere coi frutti, a significare quello che in
un'umanità primitiva doveva bastare per il benessere della vita. Ed è naturale
che l'emblema divenisse specialmente l'attributo degli dei che dispensano i
beni terreni. Il corno di abbondanza appare raramente quale attributo di Giove
e di Ercole; più spesso appare nelle figurazioni di Ade (Plutone) e di Dioniso;
anche Satiri e Menadi, Sileno e il dio Pane ne sono talora forniti. In età
posteriore la figurazione del corno d'abbondanza diviene via via più frequente.
Da Alessandria, dove la dinastia dei Lagidi lo ebbe in particolare onore,
l'emblema trovò larga diffusione in Grecia, in Italia e a Roma, specie sulle
monete. Per i Romani, di cui è noto lo spirito realistico, esso acquistò
un'importanza di primo piano, e rimase non solo l'attributo dei fiumi, ma si
accompagnò con la figurazione di ogni divinità allegorica cui si attribuisse un
senso o un augurio di prosperità, di fertilità e anche di felicità pubblica.
Quindi la Fortuna, la Vittoria, la Pietà, la Concordia, l'Annona, la Felicità,
l'Abbondanza, l'Onore, il Genio del Popolo romano lo ebbero come emblema,
particolarmente sulle monete imperiali. E assai note e frequenti sono le
figurazioni plastiche analoghe, specie del Genio di Augusto, del Genio del
Popolo romano, delle Provincie, e infine della Fortuna, divinità di ben
maggiore importanza a Roma che in Grecia. Per tali concetti è naturale che
anche divinità maggiori, come Cerere, Giunone, Cibele, Hestia (e i suoi
seguaci, gli dei Lari), siano figurate col cornucopia, che appare variamente
ornato e striato, e decorato di nastri. Alla bocca del corno sono per lo più
mele, melograni e una focaccia piramidale di farina e miele. Bibl.: Thesaurus
linguae latinae, IV (1906-09), pp. 968-69, s. v. Cornu, con tutte le fonti; E. Pottier, in
Daremberg e Saglio, Dict. des antiq. gr.
et rom., s. v.; H. W. Stoll, in Roscher, Lexikon d. griech. u. röm. Myth., I, Lipsia
1884-86, pp. 262-266, s. v. Amaltheia.
(da: http://www.treccani.it/enciclopedia/cornucopia_%28Enciclopedia-Italiana%29/)
[9] “Tra le prime piante ad essere direttamente importate in
Europa con successo vi furono quelle dal Vicino Oriente, in particolare
bulbacee dalla Turchia. Tra queste si deve ricordare l’immensa fortuna del
tulipano, la cui passione portò in meno
di cinquant'anni dalla sua prima comparsa in Europa, nel 1554, a una delle
febbri lucrative più devastanti di sempre, visto che soprattutto nelle Province
Unite del nord Europa (l'attuale Olanda) i preziosi bulbi erano valutati ben
più dell’oro e la classe mercantile ne fece un vero e proprio status
symbol. Il tulipano incarnava i concetti di monarchia e di vita cortese,
era espressione di pace e di rinnovamento e, allo stesso tempo, di ricerca
spirituale. Il tulipano, specie se rosso, somigliava alla fiamma mistica con la
quale il vero cercatore immola se stesso nel tentativo di raggiungere Dio. Era
quindi l’espressione perfetta per rappresentare il vero amore e l’amore
divino. Dal Seicento divenne uno dei fiori più amati e più rappresentati
nelle nature morte, ed è stato presto associato ai fiori di Maria e di Gesù”.
(da:
https://it.aleteia.org/2015/05/08/le-immagini-floreali-piu-legate-a-gesu-e-alla-madonna/)
[10] “papa Adriano VI fece scolpire sui confessionali una rosa
a cinque petali, simbolo del sacro vincolo della segretezza che ogni
sacerdote deve mantenere nei riguardi dei penitenti che si rivolgono a lui
nella confessione, e la locuzione latina “sub rosa” aveva
appunto il significato di una cosa rivelata in assoluta segretezza e
confidenza”. (da: http://www.lacompagniadellerose.com/?p=779)
[11] Nel primo libro della Bibbia viene menzionato il fico
quando Adamo ed Eva, subito dopo aver mangiato dall albero della conoscenza del
bene e del male, ne raccolgono le grandi foglie per coprirsi. Questo passo
della Genesi ha indotto molti artisti ad identificare l albero in questione con
il fico. Nel Tardo medioevo Lorenzo Maitani scolpì le lastre di marmo che oggi
rivestono la facciata del duomo di Orvieto: non vi è alcun dubbio che le foglie
e i frutti raffigurati appartengono all albero di fico. Altro caso eclatante è
rappresentato dalla scena della Tentazione di Michelangelo nella Cappella
Sistina dove l' artista, anziché raffigurare Adamo ed Eva ai piedi di un melo,
li dipinse all' ombra di un grosso fico con Eva che prende alcuni fichi dalle
mani del serpente antropomorfo, mentre Adamo allunga la mano per coglierne
altri. Un fico quindi, anziché una mela, fu per Michelangelo il frutto della
tentazione (in: docplayer.it/13192122-Le-piante-nella-bibbia-1-parte-gli-alberi-e-la-vite.html).
[12] “Nell’antichità
classica si credeva che, alla morte di un uomo, la sua anima uscisse dalla
bocca. Sui sarcofagi tale credenza è simboleggiata da una farfalla che
abbandona la crisalide. L’uomo è stato sempre affascinato dalla trasformazione
che subisce la farfalla. Nel passaggio da bruco a crisalide, egli ha voluto
scorgere l’immagine della trasformazione spirituale. Il termine greco psyché designa l’anima, ma significa
anche farfalla. Per questo motivo, la giovane Psiche narrata da Apuleio viene
sovente raffigurata con ali di farfalla. Nell’immaginario cristiano, questo
insetto è emblema di resurrezione e di salvezza proprio in virtù del suo
percorso. Infatti, nelle mani di Gesù Bambino e della Madonna allude proprio
all’anima risorta”. (da: https://restaurars.altervista.org/la-farfalla-nei-dipinti-simbolo-di-nuova-vita-2/)
[13] Marcellan, Il giardino…, pag. 10
[14] “Intervento di restauro della
predella con rimozione delle stuccature
cementizie non compatibili ed integrazione con nuovi intarsi marmorei di
tipologia e colore analoghi all’originale” (Galeazzo-Martinello, Il restauro dell’Oratorio della Beata Vergine
del Rosario a Limena, Padova, 2007, p. 39)
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