domenica 22 luglio 2018

L'ISTRIA DALLE ORIGINI A OGGI


L'ISTRIA DALLE ORIGINI A OGGI
di Paolo Radivo





(Castelliere di Nesazio)
Una penisola dai confini mobili

L’Istria è la principale penisola del mare Adriatico e al tempo stesso lo snodo, a Nord, fra la sua parte occidentale e quella orientale. Ha l’aspetto di un triangolo rovesciato, ma potrebbe anche essere raffigurata come un rombo irregolare o un cuore, a seconda di cosa si intenda con l’appellativo “Istria”. Infatti durante gli ultimi millenni i suoi confini geografici si sono di volta in volta estesi o contratti a fisarmonica. Un nucleo significativo però è stato sempre denominato “Istria” dopo l’insediamento degli Istri (1100 a.C.): quello che va dalla foce del fiume Dragogna alla foce del fiume Arsa e che ha come limite settentrionale l’altipiano della Ciceria. In alcune fasi storiche l’Istria ha compreso però anche l’attuale provincia di Trieste con gran parte del Carso fino al Timavo Superiore. In altri periodi ha inglobato l’intera fascia orientale della penisola fino all’attuale Fiume, con le isole di Cherso, Lussino e Veglia.

I limiti dell’Istria hanno dunque ripetutamente oscillato a Nord e a Nord-Est, ovvero dove la parte marittima interseca la terraferma, dove le aree pianeggianti e collinari lasciano spazio ai rilievi, ma anche dove la penisola vera e propria trascolora nel Quarnero, che a lungo è stato parte integrante della Dalmazia. L’unica barriera naturale oggettiva rispetto ai territori limitrofi sono i monti della Vena a Nord e i monti Caldiera a Nord-Est, entrambi però facilmente aggirabili o via mare o via terra passando lungo la fascia costiera. Ancor oggi non c’è accordo su dove inizi e dove finisca l’Istria. Tutto dipende dall’accezione che si vuol dare a tale termine: geologico-naturalistica, politico-amministrativa o etnico-culturale. Di tale variabile dovremo tener conto in sede di trattazione storica.

Anche sul piano ambientale l’Istria ha costituito fin dall’antichità un’area di transizione. Esiste a Sud e ad Ovest un’Istria “rossa”, dalla forma piatta di tavolato degradante verso il mare, carsico-calcareo e rivestito di terra calcarea rossastra difficile da coltivare perché frammista a pietre e assai bisognosa di irrigazione. Al centro e a Nord-Ovest c’è un’Istria “verde” (o “gialla”), collinare, fertile e ubertosa con terreni marnoso-arenacei ricchi di acque superficiali. A Nord e a Nord-Est si trova infine un’Istria “bianca”, montuosa, rocciosa e carsica, ricoperta da calcari bianchi. La costa occidentale è generalmente bassa e dotata di numerosi porti naturali, quella orientale perlopiù alta e scoscesa, con pochi approdi riparati. La parte della penisola più calda, coltivabile e tipicamente mediterranea è quella marittima e meridionale, la parte più fredda e meno adatta all’agricoltura è quella montuosa, dal clima e dalla vegetazione già in parte continentali.

Prima di Roma

L’Istria emerse dalle acque insieme ai territori circostanti fra i 180 e i 35 milioni di anni fa. Poi il mare si abbassò al punto che la penisola si trovò congiunta alla pianura padana e al Quarnero. Per lungo tempo il fiume Arsa proseguì il suo corso fino a immettersi nel Paleo-Po, che sfociava nel mare Adriatico poco a sud della linea Ancona-Spalato. Dopo il 10000 a.C. le acque progressivamente si innalzarono e verso l’8000 a.C. la piccola penisola assunse la sua forma odierna, ma ancora in epoca romana il mare aveva un livello inferiore di uno-due metri e le terre emerse erano un po’ più estese.

La prima traccia di presenza umana in Istria risale a circa un milione d’anni fa, mentre il primo resto umano fossile è databile intorno al 10000 a.C., nell’ultima fase del Paleolitico superiore. Fra il 2500 e il 1800 a.C. (età del rame) si insediarono in un’ampia area comprendente anche Trieste e il Carso popoli provenienti da Est, che poi si amalgamarono con quelli preesistenti, eressero villaggi sui colli, cominciarono a lavorare i metalli e intensificarono gli scambi con le aree vicine.

A partire approssimativamente dal 1800 a.C. nuove genti, di probabile origine balcanico-egea, portarono in Istria la civiltà del bronzo e costruirono sulle alture numerosi borghi cinti da mura a secco simili a quelli realizzati in altre regioni mediterranee come la Dalmazia e la Puglia: i castellieri. Le loro attività principali erano pastorizia, caccia, agricoltura e artigianato. I ritrovamenti archeologici attestano tra il 1800 e il 1200 a.C. legami crescenti con i territori limitrofi, la penisola italiana, la Dalmazia, l’area danubiana, l’Oriente mediterraneo, l’Europa centrale e il Baltico. Risalgono a quest’epoca le prime tombe di pietra e le prime necropoli.

 Nel XII secolo a.C. giunsero gli Istri, provenienti – secondo le ultime ricerche archeologiche – dalle attuali Baviera e Croazia nord-occidentale. Costoro sconfissero e assoggettarono le popolazioni locali provocando anche un notevole sconvolgimento socio-economico. Si suddividevano in tribù confederate. Della loro lingua non sono rimaste tracce scritte perché ignoravano sia la moneta che la scrittura ed erano dediti soprattutto alla pastorizia. Al posto dell’inumazione, praticata fino ad allora, introdussero il metodo della cremazione dei defunti con il sotterramento delle ceneri in urne. Molti castellieri furono abbandonati, mentre in altri la vita continuò dopo una fase critica, ma in modo diverso da prima. Altri ancora furono invece eretti. Nesazio, a poca distanza dalla costa sud-orientale, si affermò come loro capitale. Più o meno in contemporanea con gli istri, nell’Istria orientale, nel Quarnero e nella Dalmazia settentrionale si stanziarono i Liburni. Il confine tra i rispettivi territori fu il fiume Arsa e l’omonimo canale. Questi due popoli limitrofi, forse apparentati già all’inizio, divennero nel corso dei secoli sempre più affini e interconnessi.

Dal 900 a.C. l’intensificarsi dei contatti di istri e liburni con popoli più evoluti come Veneti, Piceni, Dauni, Iapigi, Apuli, Etruschi e Greci portarono a un progresso artistico, culturale e tecnologico, nonché a un incremento del tenore di vita. L’Istria svolse allora un importante ruolo di mediazione tra Europa continentale e mediterranea tramite i commerci marittimi e carovanieri. Istri e liburni disponevano di navi agili e veloci, erano marinai esperti e praticavano la pirateria o quanto meno pretendevano un “pedaggio” da chi voleva navigare nell’alto Adriatico, mare che consideravano di loro esclusiva pertinenza. Anche nel loro caso si può dunque parlare di “talassocrazia”. Tito Livio definì Istri, Liburni e Illiri «genti feroci e in gran parte famigerate per i latrocini marittimi». Specie nel V e IV secolo a.C. fu rilevante nella città-porto-mercato di Tergeste (l’attuale Trieste) l’influsso venetico.

All’inizio del IV secolo a.C. un qualche evento traumatico scompaginò gli equilibri precedenti determinando una generale svolta involutiva: forse si verificò una pestilenza o forse tribù celtiche, dopo aver invaso i territori a Nord, assoggettarono anche l’Istria. Il loro insediamento potrebbe comunque essersi limitato alle parti settentrionali e orientali della penisola. Due secoli più tardi fonti romane registrarono la presenza di Carni a Tergeste, Menoncaleni e Roditti a Est della città, Catali a Sud, Subocrini forse in Ciceria e nel Pinguentino, Secussi (o Fecussi) nell’Istria centro-orientale e Giapidi intorno al corso del Timavo superiore. Non è chiaro se tutti questi popoli fossero davvero celtici, parzialmente celtizzati o solo in contatto con i Celti. Comunque sia, gli Istri restarono prevalenti nell’Istria sud-occidentale, mentre i liburni nella fascia marittima orientale. Ben scarsi sono i ritrovamenti archeologici di matrice celtica a Sud del fiume Risano, il che tenderebbe ad escludere un effettivo insediamento di quelle popolazioni. Viceversa a Nord di tale corso d’acqua non si riscontrano manufatti appartenenti alla cultura istrica, malgrado l’inclusione di tale area nella sfera d’influenza degli Istri all’epoca del loro incontro-scontro con i romani.


L’età romana (II secolo a.C. - 476 d.C.)

Istri e Liburni, alleati fra loro e con altri popoli illirici, compirono atti di pirateria contro navi romane, ma nel 221-220 a.C. vennero sconfitti nella I Guerra Istrica e costretti ad arrendersi. Nel 190-189 a.C. si schierarono però dalla parte degli Etoli e di Antioco III di Siria contro i Romani, i quali pretendevano di esercitare la totale libertà di navigazione e commercio in tutto l’Adriatico.

Nel 183 a.C. i Romani, alleati dei Veneti, entrarono con un esercito nel territorio istrico ad Est del Timavo inferiore. Nel 181 fu raggiunta una pace. Vinti i Galli cisalpini e annesso pacificamente il Veneto, i Romani fondarono la colonia di Aquileia. Gli Istri effettuarono azioni di disturbo contro la nascente città, vista come una minaccia ai loro interessi. Questa viene considerata la II Guerra Istrica, meno cruenta della prima.

Nel 178 a.C. i Romani oltrepassarono nuovamente le foci del Timavo. Dopo un’iniziale battuta d’arresto sul Carso triestino, nel 177 invasero l’intera penisola, sottoponendola a indiscriminati saccheggi e distruzioni, e sconfissero un improvvisato esercito nemico. Mentre la maggioranza degli Istri sopravvissuti si arrese e consegnò ostaggi, il re Epulo e alcuni capi tribali con il loro seguito, le mogli e i figli si asserragliarono a Nesazio, che i Romani assediarono e infine conquistarono dopo che i difensori si erano suicidati per non finire schiavi. Anche le vicine Mutila e Faveria vennero assediate, saccheggiate e distrutte. Non a caso la resistenza istrica si concentrò nell’area meridionale, dove più forte era il senso identitario e da dove partivano le spedizioni piratesche.

La sconfitta nella III Guerra Istrica fu dovuta anche alla scarsa coesione interna di questo popolo e alla volontà di alcuni suoi gruppi tribali di non contrastare apertamente i Romani, i quali catturarono e vendettero come schiavi più di 5.000 Istri, mentre agli altri imposero un tributo e vietarono di portare armi. L’Istria divenne così un protettorato romano, ma non fu annessa alla Repubblica. Nel 176 un presidio militare di alleati latini fu insediato nell’Istria sottomessa. A Sud del porto del Timavo fu stabilito il confine tra l’agro romano di Aquileia e l’agro di Tergeste. Iniziò allora in modo lento, pacifico e spontaneo il processo di romanizzazione, con il fiorire dei commerci lungo la costa occidentale istriana.

Nel 171 a.C. parte del territorio di Istri, Carni e Giapidi fu depredato dalle truppe romane, di ritorno da una spedizione in Macedonia, senza l’autorizzazione del Senato, che in seguito risarcì quei popoli per i danni subiti. Nel 129 a.C., durante una vittoriosa campagna contro Giapidi, Taurisci, Liburni e forse Carni dell’alto Isontino, gli Istri furono “domati” dal console Caio Sempronio Tuditano, ma ciò potrebbe riferirsi solo ad alcune loro tribù nord-orientali o a nuovi accordi bilaterali intercorsi dopo qualche limitata ribellione. Da allora comunque nella penisola si affermò pienamente la pax romana e non si verificarono più rivolte o atti di pirateria. Ne beneficiarono la vita civile ed economica.

Nella prima metà del I secolo a.C. (la data esatta è controversa) il confine orientale della provincia romana della Gallia Cisalpina fu fissato al Formione, fiume identificato con il Risano ma che corrisponderebbe secondo alcuni al Rosandra o all’Ospo e che costituiva il limite meridionale dell’agro tergestino. Prima della deduzione coloniaria venne forse attribuito per un breve periodo lo status di municipi romani a Tergeste (che ancora fra al fine del II e gli inizi del I secolo a.C. lo storico greco Strabone aveva definito «villaggio carnico»), Agida (o Aegida, presso Capodistria), Parentium e Pola. In un periodo compreso fra il 58 e il 44 a.C. è possibile ma non ancora provato con certezza che Cesare avesse dedotto a Tergeste una colonia quale avamposto per le campagne militari verso l’Illirico.

Anche l’Istria fu coinvolta nelle guerre civili successive all’assassinio di Cesare nel 44 a.C.. Nel 42/41 a.C. il confine dell’Italia romana, territorio smilitarizzato, venne portato secondo alcuni dal Rubicone al Formione, secondo altri al Tizio (poi detto Cherca, presso Sebenico), che separava la Liburnia dalla Dalmazia. Nel 16 a.C. però l’Istria fu investita dalle scorrerie di norici e pannoni. Proprio allora il confine italico sarebbe stato avanzato dal Formione all’Arsa, mentre forse fra il 16 e il 12 a.C. fu retrocesso per ragioni militari dal Tizio all’Arsa, ai Monti Caldiera e al Monte Nevoso. La Liburnia, che già Cesare avrebbe incluso nell’Italia, sarebbe invece stata aggregata da Augusto con i municipi romani di Alvona (Albona), Flanona (Fianona), Apsorus (Ossero), Curicta (Veglia) e Tarsatica (Fiume) alla provincia dell’Illirico (poi detta di Dalmazia), acquisendo però il diritto italico, affine a quello delle città facenti parte dell’Italia romana.

Nella seconda metà del I secolo a.C. prima Tergeste, poi Julia Pola e infine Julia Parentium vennero erette a colonie, con ampia autonomia amministrativa e giudiziaria. Tergeste controllava l’intera Istria centro-settentrionale e buona parte del Carso, mentre Julia Pola andava dal canal di Leme all’Arsia. La colonia di Parentium, fra il Quieto, il Canale di Leme e la Draga, era la meno estesa delle tre. Augusto ricomprese l’Istria nella X Regione d’Italia, chiamata inizialmente Transpadana et Histria, che aveva mere funzioni di leva militare e riscossione delle imposte. Nel 6 a.C. i Pannoni penetrarono in Istria devastando la Polesana, ma vennero poi respinti. Il confine dell’Impero fu allora portato al Danubio e per l’Istria, non più terra di confine, si aprì un vasto retroterra commerciale. Ne seguì un lungo periodo di pace, benessere e progresso civile che si protrasse fin oltre la metà del II secolo d.C..

I nuovi immigrati, italici ma anche orientali, si insediarono sia nelle città sia nelle campagne, soprattutto della Polesana, dove furono loro assegnati appezzamenti uguali di forma quadrata secondo il sistema della centuriazione. Nelle colonie si concentrarono le attività commerciali, industriali e artigianali gestite da romani e si riversarono alcuni autoctoni dell’interno. Altro prestarono servizio nelle efficienti e moderne tenute agricole dei coloni incentrate sulle “ville rustiche”. Divennero possedimenti imperiali e conobbero in tal modo uno sviluppo agricolo, artigianale e proto-industriale vaste zone identificabili nelle attuali Verteneglio, Cittanova, Cervera, Loron, Torre, Abrega e Visinada. L’Istria espresse politici e militari, ospitò imperatori e fu ambita per la sua amenità dai ricchi romani, alcuni dei quali vi acquisirono ampi latifondi. I castellieri non convertiti a funzioni militari vennero abbandonati. Quello di Elleri, presso l’attuale Muggia, fu l’unico di cui sia attestata la continuità insediativa dal XVII secolo a.C. al V d.C.. Tutti questi imponenti fenomeni socio-economico-demografici favorirono la progressiva romanizzazione culturale e latinizzazione linguistica di tutto il territorio istriano, salvo le aree rurali interne non colonizzate, specie liburniche, dove continuò a prevalere l’allevamento e dove più scarsi erano i commerci.

Pola venne urbanisticamente rifondata in stile ellenistico da Ottaviano, che l’aveva saccheggiata e rasa al suolo per essersi schierata con Bruto e Cassio. Vi sorsero numerosi templi, un acquedotto, due teatri, un grande anfiteatro, un ninfeo, nonché lussuosi edifici privati e ville urbane con mosaici. Si fece cospicua la presenza di abitanti originari della Grecia, dell’Anatolia e della Siria, che contribuirono a rendere la città alquanto cosmopolita. Sia a Julia Pola sia a Julia Parentium il foro si affacciava sul mare secondo un modello asiatico ed era un luogo non solo di culto, ma anche di commercio e di vita socio-politico-culturale. Iulia Parentium era un classico esempio di città romana ortogonale, molto simile a Iadera (Zara). Aveva tre decumani e quattro cardini, i quali sboccavano tutti al mare tramite delle porte nelle mura. A Tergeste, come a Iadera, c’era presso il porto un ingresso monumentale all’emporio, da dove partiva un clivo d’accesso al colle capitolino. Sul Campidoglio aveva invece sede il foro. Lungo le rive, molto arretrate rispetto a quelle odierne, passava una strada litoranea.

Soprattutto nelle tre colonie l’architettura e l’arte fiorirono insieme alla cultura. Assieme alla romanizzazione si diffuse la scrittura: i primi documenti scritti in Istria sono infatti latini. Con il tempo si svilupparono anche alcune località minori, mentre Petina (Pedena), Piquentum (Pinguente), Aegida e Nesactium ottennero una forma di autonomia municipale.

Dai porti di Tergeste, Pola, Parentium e Silvo (Salvore) transitavano verso Aquileia, l’Italia settentrionale, la Rezia, il Norico e la Pannonia i principali prodotti locali di esportazione: olio, olive, vino, legname e lana. Riassestando tratti già esistenti, furono realizzate nel 78-79 d.C. la Via Flavia fra Tergeste, Parentium e Pola, e nell’80 la Via Flanatica fra Pola, Alvona, Flanona e Tarsatica. A queste erano collegate numerose strade secondarie. In tal modo le comunicazioni terrestri divennero più comode e sicure, agevolando i traffici. Erano in funzione cave di pietra e argilla, nonché fabbriche di laterizi, manifatture di porpora e ceramica. In Val d’Arsa e Val Rosandra furono eretti acquedotti.

Gli scavi archeologici hanno permesso di rinvenire nel territorio compreso tra il fiume Risano e la riviera di Abbazia 193 monumenti che raffigurano ben 59 divinità. Il 39% di queste sono romane, il 37% greco-romano-orientali e il 24% autoctone. Considerando il numero dei reperti arriviamo rispettivamente al 55%, 29% e 31%. Se ne ricava una notevole ricchezza cultuale, frutto sia dell’eterogeneità e del cosmopolitismo della popolazione sia della proverbiale tolleranza romana in campo religioso.

Gli dei romani venerati erano in tutto 23, di cui 12 femminili e 11 maschili: Giove, Silvano, Ercole, Minerva, i Genii e i Mani, poi Dioniso, Libero e Venere, Giunone, Flora e Priapo, quindi Eros, Luna, Fortuna, Mercurio, Terra Madre e Vittoria, infine Bona Dea, Nettuno, Roma e Augusto, Salute, Sole e Vesta. Fra iscrizioni, rilievi, sculture lapidee e bronzee si contano 104 testimonianze nei luoghi di maggiore colonizzazione romana, dunque soprattutto Pola e l’agro polese, ma anche in altri centri (in particolare nei possedimenti imperiali), con l’eccezione dell’area liburnica. I dedicanti erano di varia origine.

Tra le 22 divinità greco-romano-orientali rilevate, 12 sono maschili e 10 femminili. Vengono citate in 60 fra iscrizioni o are votive, rilievi, statue lapidee e sculture bronzee soprattutto a Pola e in qualche altra località della penisola, con l’esclusione però dell’Est liburnico. Gli dei attestati sono: Medusa, Attis, Nemesi, Iside e Mitra, a seguire le Gorgoni, la Magna Mater (Cibele) e la Sfinge, quindi Acheloo, Atlante e Hera, e infine Apollo, Asclepio, i Dioscuri, Hathor, le Menadi, le ninfe Nereidi, Pan, Poseidone, Sabazio, i Satiri e Tritone.

Fra le 14 divinità locali ben 13 sono femminili: in particolare Eia nell’agro polese e Sentona in area liburnica, mentre Histria Terra (detta anche Terra Histria, Histria o Istria) era venerata sia nell’agro polese sia a Iulia Parentium. Ricordiamo inoltre Aitica, Boria, Genius Barbulanus, Iria Venus, Melosocus Augustus (o Silvester), Nebres, Seixomnia Leucitica, Iutossica, Trita Augusta, Ianus Pater e Ica (o Ika). Se ne può dedurre che Istri e Liburni avevano una struttura matriarcale e che la loro identità resistette sul piano religioso fino agli inizi del IV secolo d.C.. I dedicanti però erano in prevalenza schiavi o liberti italici, greci od orientali, dunque immigrati di rango inferiore.

In epoca repubblicana sorse nei fori di Pola, Parenzo, Nesazio e forse Trieste un unico tempio centrale. Nel I e II secolo d.C. tale struttura si modificò a Pola, Parenzo, Nesazio e Brioni Maggiore in un tempio centrale e due laterali simili. È provata l’esistenza di templi in onore di Ercole, Fortuna, Magna Mater, Minerva, Roma e Augusto a Pola, Giove, Giunone e Venere sulle Brioni, Augusto, Eia e Istria a Nesazio, Fortuna e Histria presso Rovigno e Nettuno a Parenzo.

Nel 168 d.C. scoppiò una pestilenza, primo segno di una incipiente crisi. Intorno al 170 l’imperatore Marco Aurelio incluse l’Istria per necessità strategiche in una zona militare a difesa dai Barbari: la Praetentura Italiae et Alpium. Alvona era il capoluogo del distretto istriano. Nel 184-185 la Liburnia nord-occidentale fu separata dalla provincia di Dalmazia ed eretta a provincia procuratoria con capoluogo Tarsatica, ma dopo pochi anni venne nuovamente inclusa nella Dalmazia. A scopi difensivi si fortificarono le città e sorsero accampamenti militari tramutatisi poi in borghi, ma i commerci risentirono della crescente insicurezza. Un ruolo importante nei traffici marittimi fra l’Istria orientale, la Dalmazia e gli altri territori dell’Impero lo svolse allora Portus Flanaticus (Porto Fianona), dipendente dal municipio di Flanona. Nel 212 con l’editto di Caracalla anche gli abitanti liberi di Alvona, Flanona, Tarsatica, Apsorus e Curicta divennero cittadini romani a pieno titolo: così fra le due parti dell’Istria non vi furono più distinzioni di diritti.

Nel 248 Goti, Carpi, Taifali, Vandali e Peucini fecero una pesante scorreria. Fra il 286 e il 295 fu istituita la Provincia annonaria Venetia et Histria, assegnata nel 297 alla Diocesi italiciana della Prefettura del Pretorio dell’Italia e dell’Africa, alla quale sarebbe stata in seguito aggregata anche la Dalmazia. L’imperatore Costantino fece di Tarsatica un baluardo fondamentale del nuovo sistema difensivo da lui istituito: la Clausura delle Alpi.
Nelle campagne diminuì, come nel resto dell’Impero, il numero degli schiavi, ma la riforma fiscale dioclezianea della fine del III secolo pose le basi per la riduzione anche di tanti contadini liberi a servi della gleba e per il rafforzamento del ceto latifondista. Il cristianesimo, dal 313 non più perseguitato e anzi sempre più promosso dai poteri pubblici, cominciò a diffondersi in tutta l’Istria a partire dalle città principali. A partire da allora vennero edificate le prime chiese e forse già fra il 380 e il 390 Tergeste, Parentium e Pola divennero sedi vescovili suffraganee di Aquileia.

Nel 395 l’Istria, rimanendo parte dell’Italia, fu assegnata all’Impero Romano d’Occidente. Fra il 390 e il 400 venne ultimato il Vallo delle Alpi Giulie, che però non fermò i Visigoti, i quali devastarono l’Istria (compresa Tarsatica) fra il 401 e il 408. Gli sconvolgimenti del V secolo causarono l’abbandono delle ville rustiche dell’interno o la loro trasformazione in centri fortificati e il riversamento della popolazione nelle località più difendibili. Sorsero così o si ingrandirono molto Capris (Capodistria), Isola, Piranum (Pirano), Siparis (Sipar), Humagum (Umago), Noventium (Cittanova), Ursaria (forse San Giorgio presso Orsera), Castrum Vallis (Valle), Ruginium (Rovigno), Cissa e Val Madonna a Brioni Maggiore. Queste, essendo situate su isole, garantivano maggiore sicurezza e un approvvigionamento alimentare legato alla pesca e ai commerci marittimi con Aquileia e la nuova capitale Ravenna. Anche le città di Tergeste, Parentium, Pola e Tarsatica vennero ulteriormente fortificate a scopo difensivo. Nel 452 alcuni profughi di Aquileia, distrutta dagli Unni, trovarono riparo nelle città costiere e insulari, che accolsero anche profughi romani del Norico e della Pannonia invase dai barbari. Nell’Istria interna furono ripopolati e riadattati antichi castellieri abbandonati.


Il periodo romano-germanico (476-539)

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476, l’Istria restò nella Prefettura del Pretorio d’Italia prima con Odoacre e poi con Teodorico e i successivi re ostrogoti, che governarono le popolazioni latine per delega degli imperatori di Costantinopoli. In pratica la civiltà romano-cristiana continuò sotto un protettorato germanico. Leggi e istituzioni di prima rimasero in vigore, la classe dirigente locale mantenne il controllo politico a livello municipale, mentre i barbari, scarsi di numero, gestirono l’esercito e i gradi più alti della giustizia acquisendo un terzo delle terre pubbliche. In assenza di nuove invasioni si rinvigorirono i commerci marittimi, l’agricoltura e le altre attività economiche. L’Istria riforniva la vicina capitale Ravenna e l’esercito di olio, vino e grano, rimanendo autosufficiente sul piano alimentare anche grazie alla pesca e all’acquacoltura. La Chiesa cattolica fu libera di operare e si diffuse capillarmente nel territorio. La cristianizzazione si intensificò. Nel 524 Aemonia, Aegida e Cissa, e in seguito anche Petina, divennero sedi vescovili.
La situazione si incrinò appena nel 535 con l’usurpazione del trono ostrogoto in senso anti-bizantino.


Bizantini e longobardi (539-788)

Una prima volta nel 539 e in via definitiva nel 552 l’Istria venne presa dai bizantini quasi senza colpo ferire. Risentì pertanto solo indirettamente della Guerra gotica, che devastò il resto d’Italia: le attività economiche, depresse dalla rarefazione dei commerci, dovettero soddisfare scopi bellici, oltre che provvedere all’autosussistenza. Nel 554 l’Istria venne ufficialmente reintegrata nell’Impero Romano, di cui la parte orientale con capitale Costantinopoli era rimasta l’unica legittima titolare. In teoria fu una liberazione da un dominio straniero e una restaurazione dell’antico ordine giuridico e sociale. In pratica però a una dominazione straniera se ne sostituì un’altra, perché i bizantini, di lingua greca, subentrarono ai goti negli alti comandi sia militari che civili. Con il distacco amministrativo della Dalmazia l’Istria divenne l’estremo lembo nord-orientale della prefettura del pretorio d’Italia, fu riaccorpata alla Venetia et Histria, con a capo un governatore civile eletto da vescovi e maggiorenti della provincia ma confermato dall’imperatore, e inserita in un ducato militare di frontiera concepito a scopi difensivi. La classe politica istriana continuò a rivestire ruoli importanti nel governo dei municipi, che proseguivano senza rottura di continuità la tradizione tardo-romana.

All’inizio del dominio bizantino si sperimentò un fervore architettonico, artistico e culturale senza pari nel resto d’Italia. A quest’epoca risalgono la basilica Eufrasiana a Parenzo e Santa Maria Formosa a Pola. Ma il cesaropapismo di Costantinopoli in materia religiosa e gli eccessivi oneri fiscali incrinarono i rapporti tra la popolazione locale e la dirigenza grecofona. Come i metropoliti di Aquileia e Milano, anche i vescovi della Venetia et Histria aderirono ai cosiddetti Tre capitoli, condannati, su pressione dell’imperatore, nel 553 dal II Concilio ecumenico di Costantinopoli, l’anno dopo da papa Pelagio I e quindi dal suo successore Vigilio.

Nel 566 anche l’Istria fu colpita dalla peste, cui seguì una carestia. Nel 568 fu risparmiata dall’invasione dei longobardi, ma le sue cittadine insulari e in particolare Capris accolsero profughi da Aquileia, dal resto del Friuli e fors’anche da Tergeste, la quale tuttavia nel 571 era sicuramente in mani bizantine. Allora la penisola si ridusse a estremo, isolato e prezioso avamposto di frontiera settentrionale dell’impero, confinante a nord-ovest con i longobardi e a nord-est con gli àvari. Tale precaria condizione portò al predominio delle autorità militari di nomina centrale su quelle civili di nomina locale, acuendo il malcontento popolare. Nel 579 i vescovi di Trieste, Parenzo, Cissa, Pola e Pedena, rivendicando la loro autonomia tanto da Costantinopoli quanto da Roma, ribadirono il sostegno allo scisma dei Tre capitoli (detto perciò anche scisma istriano) in comunione con il metropolita di Grado, al quale riconobbero i diritti metropolitani su tutti i territori d’Italia ancora bizantini. Il problema da religioso divenne sempre più politico, visto che i longobardi appoggiavano strumentalmente lo scisma in funzione sia anti-bizantina sia anti-cattolica.

La fine del VI e l’inizio del VII secolo furono veramente terribili per Istria. Nel 587 l’esarca di Ravenna, comandante militare e governatore civile dell’Italia bizantina, arrestò il nuovo metropolita di Grado e i vescovi di Parenzo, di Cissa e di Trieste facendoli condurre a Ravenna, dove li tenne prigionieri e li costrinse a ripudiare i Tre capitoli. Nel 588 i longobardi invasero, devastarono e saccheggiarono l’Istria occidentale, che tuttavia dopo un anno di tregua tornò ai bizantini. Rientrato a Grado, il metropolita fu sconfessato dai fedeli e dai vescovi suffraganei, tanto che ritirò l’abiura. Il papa ordinò a lui e ai suoi sostenitori di venire a Roma per sottoporsi al giudizio di un sinodo, ma i tre vescovi istriani rifiutarono, chiedendo all’imperatore di farsi arbitrio. Questi accettò, imponendo al papa di non insistere e garantendo tolleranza verso gli scismatici. Nel 607 l’esarca tentò di imporre l’anti-scismatico Candidiano quale nuovo metropolita di Grado, ma i vescovi istriani (eccetto quello di Trieste) e friulani elessero Giovanni, riconosciuto dal re longobardo e dal duca del Friuli quale patriarca di Aquileia. I vescovi istriani vennero catturati dai bizantini nelle rispettive chiese, condotti a Grado e costretti a riconoscere Candidiano. Da allora il patriarcato di Grado rimase fedele ai bizantini, mentre quello di Aquileia ai longobardi. In Istria l’adesione popolare allo scisma si spense progressivamente e nel 698 la vertenza venne appianata con la rinuncia del patriarcato aquileiese alle sue posizioni dottrinali in cambio di un’intesa sui rispettivi territori di competenza.

La peste si ripresentò sia nel 590, accompagnata da siccità e cavallette, sia nel 591. Fra il 592 e il 599 i primi nuclei di slavi effettuarono scorrerie, venendo poi respinti dai bizantini. Ne fu investita soprattutto l’Istria orientale, che subì un notevole calo demografico. Nel 600, 601 e 602 imperversarono nuove pestilenze. Nel 601-602 longobardi, àvari e slavi penetrarono in Istria da nord-ovest (fino al Quieto) e da nord-est depredando, uccidendo e schiavizzando parecchi abitanti delle campagne. Ma le città resistettero e infine i bizantini ricacciarono gli invasori. Nel 604 un attacco slavo non riuscì a oltrepassare la Ciceria. Nel 611 àvari e slavi si spinsero fino ai fiumi Dragogna e Brazzana, ritirandosi dopo aver compiuto devastazioni e predazioni. Nel 615 slavi ci riprovarono da soli, ma vennero respinti in Ciceria. Dopo di allora desistettero da ulteriori assalti, sia per le sconfitte che subirono da àvari e longobardi sia per il potenziamento del sistema militare difensivo bizantino. Nel 619, con il beneplacito imperiale, avvenne il primo pacifico stanziamento di proto-sloveni in Ciceria tra Valmorasa (Movra
) e Castelnuovo (Podgrad). Nel 630 altri slavi si insediarono intorno al Monte Maggiore e poi si convertirono al cattolicesimo. Nel 700 però ci fu una nuova, tremenda invasione slava.

La militarizzazione dell’Istria raggiunse il suo apice alla fine del VI secolo, quando il comandante militare della Venetia et Histria nominato dall’imperatore assorbì anche le funzioni civili. Vista la scarsità di truppe bizantine, venne allora istituito il numerus Tergestinus, composto da istriani che si insediarono stabilmente in qualità di agricoltori-soldati a ridosso del confine settentrionale per difenderlo delle incursioni. In tal modo gli abitanti locali ripresero a esercitare nuovamente in forma diretta compiti militari. Dopo il 680 dalla Venetia et Histria sorsero il ducato di Venezia, con sede a Eraclea, e il ducato dell’Istria, con capoluogo Pola. Entrambi ebbero alla guida un dux o un comandante militare. Alla guida delle città stavano tribuni, vicarii o lociservatores (luogotenenti), alla guida dei castella (borghi murati) vicarii, lociservatores o iudices. Erano tutti militari con compiti amministrativi e giudiziari e, probabilmente dopo la rivolta anti-iconoclasta e anti-bizantina del 727, venivano eletti fra i massimi esponenti dell’aristocrazia locale invece che nominati dall’imperatore. La classe dirigente politico-militare istriana, il patriarca di Grado e i vescovi istriani ampliarono i propri possedimenti terrieri. La società istriana era suddivisa in tre ceti: nobiltà, clero e popolo.

Nel 751 i longobardi conquistarono parte dell’Istria, imposero i propri luogotenenti alla guida di città e castelli e fecero dipendere le diocesi dal patriarca di Aquileia. Ma nel 774 (o forse già prima) l’intera Istria tornò ai bizantini e al patriarca di Grado. Con la vittoria dei franchi di Carlo Magno, che subentrarono ai longobardi, si formarono in Istria due partiti: quello filo-bizantino, con ampio seguito tra il popolo e parte dell’aristocrazia, e quello filo-franco, forte soprattutto tra l’alto clero. Nel 787 o 788 i bizantini perdettero l’Istria, che passò ai franchi.


Il feudalesimo (secoli IX-XII)

Contingenti istriani parteciparono alle vittoriose spedizioni franche contro gli àvari (791 e 795), i croati (799) e gli àvaro-slavi (803), scongiurando così l’arrivo di nuovi invasori. Ma il duca Giovanni, che governava la provincia da una fortezza presso Cittanova, impose il suo dominio dispotico, estromise da ogni potere militare la classe dirigente istriana impedendone i contatti diretti con la corte imperiale, tolse a città e castelli la giurisdizione sui rispettivi territori che affidò ai suoi fedelissimi capi-distretto, usurpò i beni pubblici infeudandone parte a nobili germanici, favorì la nascita di feudi ecclesiastici, impose gravami arbitrari di tipo servile e fece insediare nelle aree interne slavi pagani destinando al loro mantenimento le decime dovute dai municipi alla Chiesa. Il regime feudale franco sconvolse gli assetti politici, economici e sociali consolidatisi negli ultimi secoli, causando un grave regresso generale. L’Istria venne declassata a contea della grande marca del Friuli.

Gli istriani fecero sentire le loro proteste tramite il patriarca triestino di Grado Fortunato all’imperatore Carlo e al figlio Pipino, re d’Italia. Questi ordinarono a tre ispettori (missi dominici) di recarsi in Istria per istruire un processo ed emettere una sentenza. Lungo il basso corso del Risano tennero un placito, ossia un’adunanza provinciale, alla quale parteciparono il duca Giovanni, i capi-distretto, il patriarca, i cinque vescovi istriani e i rappresentanti delle città di Pola, Parenzo, Trieste, Pedena e Cittanova e dei castelli di Albona, Montona, Pinguente e Rovigno. Alla presenza di un folto pubblico i rappresentanti municipali, con in testa il primate di Pola, accusarono sia il duca sia i vescovi di abusi e violenze. Il duca si giustificò dichiarandosi pronto a un compromesso. Al termine delle deposizioni, gli ispettori sentenziarono che Giovanni avrebbe dovuto risarcire gli istriani per quanto loro estorto e allontanare gli slavi. Si sarebbero inoltre dovute ripristinare istituzioni, leggi e consuetudini bizantine. In effetti ciò avvenne per le cariche politiche ed ecclesiastiche, ma non per quelle militari, che restarono in capo alla nobiltà franca. I coloni slavi si trasferirono in aree incolte della Ciceria. Ludovico il Pio, successore di Carlo Magno, confermò tali decisioni. In seguito, l’espansione del feudalesimo laico ed ecclesiastico ridusse senza però cancellare del tutto l’autonomia dei municipi istriani.

Con la pace di Aquisgrana dell’812 l’imperatore bizantino riconobbe il dominio franco sull’Istria in cambio della restituzione della laguna veneta e gradese e della Dalmazia costiera. Nell’827 l’Istria, perdendo l’ultimo legame indiretto con Bisanzio, ritornò sotto il patriarca di Aquileia, il cui potere feudale si accrebbe insieme a quello dei suoi vescovi suffraganei. Nell’828 la Marca del Friuli venne rimpicciolita quale marca d’Aquileia nel Regno Italico dell’Impero carolingio, ma la Contea d’Istria continuò a farne parte.

Intanto il ducato veneziano si rese politicamente sempre più autonomo da Bisanzio. Nell’840 l’imperatore carolingio concesse a Venezia piena libertà commerciale nei suoi domini. Da allora i commerci dei veneziani con le cittadine costiere dell’Istria occidentale crebbero, così come la loro influenza economica. Impero carolingio, Ducato veneziano e Impero bizantino collaborarono per affrontare i pirati in Adriatico. Nell’842 i saraceni espugnarono e incendiarono Ossero. Nell’872 gli slavi narentani attaccarono una nave veneziana nelle acque di Salvore massacrandone l’equipaggio e saccheggiando la costa prospicente. Nell’875 navi croate depredarono alcune cittadine dell’Istria occidentale e distrussero Vestre, che cessò di esistere. I veneziani misero in fuga gli assalitori davanti a Umago. Nell’876 i narentani assalirono Rovigno, Cittanova, Umago e Sipar, poi abbandonata dai suoi abitanti rifugiatisi a Umago. Nell’880 presero nuovamente di mira Rovigno, Cittanova, Umago e forse Borgo Lauro (la futura Muggia). Bisanzio scese a patti con croati e narentani, stabilendo che i municipi dalmati (compresi Ossero, Veglia e Arbe) avrebbero pagato loro un tributo annuo in cambio della rinuncia a nuovi atti di pirateria. Dopo l’887 lo versò anche Venezia. Il risultato fu un periodo di pace e libertà di navigazione in Adriatico. Ne beneficiarono anche le cittadine costiere istriane che, libere dal tributo in quanto appartenenti all’impero franco, intensificarono i rapporti con la laguna veneta e gradese. Intanto però nell’883 l’Istria era stata investita dalla peste.

L’influenza economica veneziana si fece così forte che il 14 gennaio 932 le autorità di Capodistria dichiararono di voler spontaneamente fornire al doge Pietro Candiano II, sbarcato in città, un donativo vitalizio annuo di cento anfore di buon vino quale ricompensa per aver «protetto benevolmente in ogni circostanza» il popolo giustinopolitano, aver avuto sempre cura della sua salvezza come un «ottimo pastore» e aver consentito ai giustinopolitani di camminare sempre con sicurezza e pace nei suoi territori senza «nessuna imposta né violenza». È possibile che anche altre cittadine dell’Istria occidentale abbiano reso analoghi atti di omaggio onorifico al doge.
Per reazione, il marchese d’Istria e Friuli, sentendosi intaccato nella sua autorità, impose sovrattasse ai mercanti veneziani, negò loro giustizia, impedì agli istriani di pagare i debiti contratti con questi, confiscò proprietà del Dogado, del Patriarcato di Grado e dei vescovi lagunari, requisì e depredò navi veneziane facendo uccidere pure alcuni veneziani. Questa “guerra commerciale” si ritorse però contro il marchese, che il 12 marzo 933, con i rappresentanti di Trieste, Muggia, Capodistria, Pirano, Cittanova, Parenzo e Pola, sottoscrisse la pace di Rialto, ammettendo le proprie colpe e impegnandosi a non danneggiare né occupare, ma semmai proteggere le proprietà del Patriarcato di Grado, delle altre chiese veneziane, del Dogado e dei cittadini veneziani in Istria, a rispettare la giurisdizione veneta sui coloni veneti in Istria, a far pagare i debiti degli istriani, a eliminare le sovraimposte, a non usare le proprie navi contro i veneziani, a rimanere in pace con loro e a informarli nel caso il re d’Italia ordinasse atti ostili. Dopo tale vittoria diplomatica Venezia accrebbe il proprio potere economico nella penisola, usandone i porti come basi d’appoggio per i propri traffici marittimi.

Nei primi decenni del X secolo i vescovi di Parenzo, Trieste, Pola e, in misura minore, Cittanova e Capodistria (Justinopolis) ottennero dagli imperatori carolingi feudi e possedimenti con diritti di riscossione e giurisdizione, diventando con ciò dei vescovi-conti sempre più potenti sul piano politico. Nel 931 la Chiesa aquileiese ricevette dal re d’Italia Ugo e dal figlio Lotario II il suo primo feudo istriano: il castello di Muggia Vecchia.

Pur continuando a far parte del Regno Italico, nel 952 la Contea d’Istria passò dalla Marca d’Aquileia al Ducato di Baviera e nel 976 al Ducato di Carinzia (o Carantania), tutte entità appartenenti a quello che dal 962 sarà chiamato Sacro Romano Impero (detto anche Impero d’Occidente e dal 1512 Sacro Romano Impero della Nazione Germanica).
Nel 949 il territori di Trieste e Capodistria furono marginalmente investiti dalle scorrerie ungare. Nel 950 invece coloni croati si stabilirono tra Volosca e Albona. Nel 954, nel 958 e nel 1006 la peste colpì soprattutto le cittadine portuali. Nel 960 si verificarono nuove devastanti incursioni croate nell’Istria interna e sia nel 960 che nel 964 i narentani attaccarono Rovigno e altre località della costa occidentale.

Dal 971 i patriarchi di Aquileia acquisirono nuovi feudi in Istria. Nel 976 i rapporti fra Venezia e il Sacro Romano Impero, migliorati nei decenni precedenti, si incrinarono. Capodistria annullò la promessa del 932 e la pace di Rialto partecipando al boicottaggio contro i veneti. Ma nel 977 il doge portò la sua flotta davanti alla città, costringendo il conte a stipulare un accordo molto più oneroso di quello precedente. Ristabilita la pace e l’armonia, Capodistria garantì ai veneziani la libertà di transitare per la città e commerciarvi in sicurezza senza dazi. Il donativo di 100 anfore annue di vino veniva confermato al doge e ai suoi successori in perpetuo. I veneziani dimoranti a Capodistria avrebbero potuto rivolgersi alla giustizia locale. E quand’anche le altre città dell’Istria fossero entrate in conflitto con Venezia o qualche capodistriano avesse partecipato all’insurrezione, Capodistria avrebbe perseverato nella pace, nell’amicizia e nell’alleanza.

Nel 983 furono riconfermati tutti i patti tra Venezia e il Sacro Romano Impero. Ciò consentì ai mercanti veneziani di operare in Istria a condizioni di favore. Nel 1000, partito da Venezia per quella che sarebbe stata una trionfale azione punitiva contro i narentani concordata con Bisanzio e ben vista dal Sacro Romano Impero, il doge Pietro Orsolo II sostò al largo di Parenzo e Pola. I locali vescovi, il clero e il popolo lo ossequiarono, esprimendogli gratitudine per l’impresa che andava a compiere nell’interesse anche degli istriani. Il doge ricevette poi i giuramenti di fedeltà di Cherso-Ossero, Veglia, Arbe e Zara, che si diedero in protezione a Venezia con il consenso di Costantinopoli. Nel 1006 si verificò una nuova pestilenza. Nel 1027 il Patriarcato di Aquileia, scorporato dal Ducato di Carinzia, venne assoggettato direttamente all’Impero e l’anno successivo acquisì nuovi feudi istriani.

Nel 1040 l’Istria fu eretta a Marca immediata dell’Impero. Gli imperatori la infeudarono ai Weimar-Orlamünde (1040-1070), agli Eppenstein (1070-1102, salvo la breve parentesi del patriarca d’Aquileia fra il 1077 e il 1078), ai Moosburg (1102-1112), agli Sponheim (1112-1173) e infine agli Andechs-Merania (1173-1209) quali marchesi o margravi. Quando questi erano assenti, il che avveniva spesso, faceva le loro veci un conte. Città e castelli esenti da domini signorili erano governati da gastaldi o vice-conti nominati dai marchesi. Numerosi borghi e terreni furono infeudati al patriarca d’Aquileia, ai vescovi, a vassalli germanici o a monasteri. Ne derivò un maggiore frazionamento.

Alla metà dell’XI secolo i vescovi di Parenzo possedevano la più estesa signoria immunitaria dell’Istria. Nel 1077 il Patriarcato di Aquileia divenne un ducato ecclesiastico e fra il 1081 e il 1094 ottenne i diritti di riscossione dell’imperatore anche sulle Diocesi di Parenzo, Trieste e Pola, con diritto di nomina dei vescovi, mentre sulle Diocesi di Cittanova e Pedena li aveva già dal 996. Intorno al 1100 la maggior parte della penisola era in mani patriarchine. L’area interna nord-orientale era del margravio d’Istria, mentre singole località erano possedute dai vescovi di Trieste, Cittanova e Pola, dall’arcivescovo di Ravenna e da vari monasteri. Nel 1102 la chiesa aquileiese ottenne in dono ulteriori castelli e ville del marchesato. A quest’epoca risale l’insediamento di nuovi coloni slavi nell’Istria centro-orientale.

Il feudalesimo, giunto al suo apice, entrò in crisi sia per la frammentazione interna sia per i conflitti tra i due massimi feudatari (il patriarca e il marchese) e fra quelli minori (vescovi e abati). Nel XII secolo si affermò la tendenza a subinfeudare terre e beni a signorotti germanici o a famiglie nobili istriane, che costruirono sulle alture castelli e borghi. Le guerre che dal 1120 videro contrapposti patriarchi e marchesi d’Istria indebolirono entrambi, rafforzando indirettamente questi loro vassalli, che controllavano il territorio e che cominciarono a compiere abusi e usurpazioni a danno dei loro signori.


Venezia si afferma (1145-1420)

La disgregazione del marchesato d’Istria e delle signorie ecclesiastiche favorì il risorgere delle forze municipali e l’affacciarsi di nuovi soggetti esterni. Nel 1139 i conti di Duino, di origine germanica, acquisirono dai patriarchi un feudo esteso tra Moschiena e Castua. Ma il nuovo principale protagonista della storia istriana fu Venezia, intenzionata ad affermare un’egemonia non solo economica, ma anche militare e politica, nonché il totale dominio del mare. Il primo ostacolo da superare furono le cittadine della costa occidentale, soggette al marchese. Le due principali, Capodistria (allora comprendente Isola) e Pola, sfidarono Venezia, ma nel 1145 vennero sconfitte e dovettero sottoscrivere due distinti patti di vassallaggio economico-militare. Tanto i capodistriani quanto i polesani si obbligarono a giurare fedeltà, a partecipare alle spedizioni mercantili e militari, a garantire ai veneziani sicurezza e libertà di movimento e a rispettare eventuali proibizioni di commercio. Pola avrebbe inoltre dovuto aiutare Venezia nella caccia ai corsari, esentare i veneziani da ogni dazio e offrire un palazzo al doge, che però si impegnava a difendere la città dai nemici e a garantire sicurezza ai suoi abitanti nei propri territori.

Il nuovo assetto politico venne scompaginato dalla guerra che negli anni seguenti vide contrapposte Muggia, Capodistria, Isola, Pirano e Umago al vescovo-conte di Trieste. Nel 1149 lo sbarco a Pola dell’imperatore portò alla pace fra vescovo e città ribelli, ma a Pola favorì il prevalere del partito feudale, che rinnegò i patti del 1145 e insorse contro Venezia insieme a Rovigno, Parenzo, Cittanova e Umago. In risposta, nel 1150 una flotta veneta espugnò e saccheggiò Pola, costringendola a giurare nuovamente fedeltà al doge quale suo signore, a garantire ai veneziani sicurezza ed esenzione daziaria, a donare 2.000 litri di olio annui, a partecipare alle spedizioni mercantili e militari e a combattere i pirati. Anche Rovigno, Parenzo, Cittanova e Umago sottoscrissero impegni simili. Nel 1153 Pola si ribellò nuovamente a Venezia, che la riconquistò obbligandola a firmare un nuovo patto di sottomissione e a fornire ostaggi in garanzia. Nel 1165 furono gli isolani a rivoltarsi, ma alla fine cedettero.

L’influsso veneziano accelerò nelle città costiere lo sviluppo delle istituzioni comunali. La prima a reggersi quale Comune completo fu Pola nel 1177, seguita da Capodistria nel 1186, Pirano nel 1192 e Parenzo nel 1194. Il primo Comune rurale fu verso il 1180 San Lorenzo. Ma l’autonomia democratico-oligarchica rivendicata dai nascenti Comuni trovava un limite insuperabile nella stessa Venezia, oltre che nel marchese, nel patriarca e nei vescovi. Così Pola, Rovigno, Parenzo, Cittanova, Umago e Capodistria fornirono nel 1171 appoggio navale alla flotta veneziana contro i bizantini e nel 1177 parteciparono alla vittoriosa battaglia svoltasi al largo di Salvore contro le galee pisane e genovesi guidate dal figlio dell’imperatore romano-germanico. In cambio Capodistria ottenne da Venezia il monopolio marittimo del commercio del sale nell’intera penisola. A partire dal 1188 le cittadine costiere egemonizzate da Venezia stipularono accordi con alcune città dalmate, il che denotava un’accresciuta libertà di manovra. Solo l’indomita Pola continuò a recalcitrare. Nel 1193 si ribellò ancora a Venezia, aprì le porte ai pisani assedianti, ma venne domata, saccheggiata e obbligata a demolire le mura verso il mare e ad avere un podestà veneziano. Riportata all’ordine, nel 1199 estese però la sua giurisdizione fino all’Arsa, iniziando l’espansione nell’entroterra che caratterizzerà il XIII secolo.

Ad approfittare della decadenza del potere marchionale, patriarcale e vescovile per farsi largo in Istria furono i conti di Gorizia, di ascendenza germanica. Nella seconda metà del XII secolo ottennero dai vescovi di Parenzo diversi feudi, il più importante dei quali, Pisino, divenne poi il centro dell’omonima contea. Ebbero il feudo di Sant’Apollinare nella Polesana dall’arcivescovo di Ravenna e usurparono numerosi possedimenti ai vescovi di Parenzo e di Trieste e ai patriarchi di Aquileia.

Sconfitti i pisani, Venezia decise di andare alla conquista di ciò che rimaneva dell’Impero Romano d’Oriente, servendosi delle truppe plurinazionali che doveva condurre su proprie navi alla IV crociata. Ma prima volle regolare i conti con le città adriatiche ribelli. Così nel 1202 portò l’immensa flotta crociata davanti alle patriarchine Muggia e Trieste costringendole a sottoscrivere patti di sottomissione. Poi la flotta proseguì per soggiogare Zara. Nel 1205 Parenzo, che aveva dato segni di insofferenza, fu rimessa in riga e confermò i patti del 1150.

Nel 1209 l’imperatore assegnò al patriarca di Aquileia e successori il titolo di principe dell’impero e marchese d’Istria, con diritto di nomina di tutte le autorità amministrative a lui sottoposte. Questa innovazione semplificò il complicato quadro istituzionale della marca e inizialmente potenziò i patriarchi, che tuttavia non potevano opporsi efficacemente a tutti i loro principali competitori: Venezia, i Comuni, i conti di Gorizia e Pisino, i conti di Duino e altri feudatari minori dell’interno. Nel 1210 il patriarca indusse Pirano e Capodistria a desistere dalla guerra in corso contro Rovigno e riaffermò almeno parzialmente la sua autorità sui due recalcitranti Comuni. Capodistria tuttavia fu nel 1216 in guerra con Venezia contro Treviso. Nel 1225 sloveni del Carso devastarono e depredarono l’alta Istria fino a Pisino.

Dagli anni ’20 troviamo podestà veneziani alla guida di Pola, Capodistria, Parenzo e Pirano. Questi Comuni costituirono nel 1230 una lega anti-patriarchina, dalla quale però si sganciarono nel 1231 Pirano e nel 1232 Parenzo riconciliandosi col patriarca. Nel 1233 Pola fu assediata da truppe patriarcali e imperiali; alla fine si arrese e concluse con il patriarca una pace punitiva poi mitigata. Capodistria, minacciata sia dal patriarca sia dal conte di Gorizia, arrivò a un accordo analogo, annacquato l’anno successivo da un arbitrato che consentiva ai capodistriani di eleggersi un podestà con la successiva conferma patriarcale e di controllare l’operato del gastaldo. Tale normativa si estese anche agli altri Comuni istriani, mentre la Marca venne retta da un gastaldo generale di nomina patriarchina.

Venezia tentò di alimentare tramite i commerci la propria egemonia sull’Istria costiera occidentale. Ma Pola, amministrata dalla fazione patriarchina con alla guida la famiglia de Pola, reagì. Nel 1242 il Comune, dopo aver protetto alcune navi corsare anti-veneziane, si rifiutò di fornire una galea per la spedizione nel Tirreno in appoggio a Genova. Allora la flotta dogale espugnò Pola demolendone parte delle mura. Ripartita la flotta, i polesani si ribellarono, ma al ritorno i veneti riconquistarono e incendiarono la città, distrussero le fortificazioni e molte case, si impadronirono della flotta e presero ostaggi. Nel 1243 i rappresentanti cittadini dovettero stipulare un nuovo patto di fedeltà che, oltre a ribadire i precedenti, imponeva un podestà veneziano. E il patriarca non lo poté impedire.
I conti di Gorizia e Pisino, ghibellini, approfittarono di tali conflitti per ampliare i propri territori nell’Istria centro-orientale. Nel 1248 crearono una lega con i feudatari patriarchini e con alcuni castelli dell’interno, occupando feudi del patriarca e del vescovo di Parenzo. Il patriarca, rappacificatosi con Venezia, passò dalla parte guelfa e combatté la lega ghibellina. La pace del 1251 impose al conte di Gorizia-Pisino la restituzione dei territori sottratti, ma gli lasciò quelli che aveva prima. Lo stesso anno l’imperatore concesse a Capodistria e Parenzo ampia autonomia comunale, cancellando i patti del 1232-33 e proclamando decaduto il marchesato patriarcale. I Comuni sfruttarono l’occasione per emanciparsi ulteriormente. Già dal 1250 troviamo nuovamente podestà veneziani e dal 1253 i patriarchi concessero l’elezione dei gastaldi comunali (con funzioni giudiziarie) fra gli abitanti del luogo e la libera elezione dei podestà (con funzioni politiche). Negli anni successivi anche Muggia e Buie si dotarono di strutture comunali autarchiche.

Nel 1263 i conti di Gorizia e Pisino e i nobili de Pola fecero una guerra contro il patriarca che terminò nel 1264 ma che produsse negli anni successivi instabilità a Parenzo, Valle, Rovigno e Montona.  Nel 1267 Capodistria si ribellò ad Aquileia mirando a costituire una propria signoria provinciale. I conti di Gorizia e Pisino si schierarono con Capodistria e catturarono il patriarca. Isola, Pirano, Muggia e i dinasti di Momiano si allinearono. Allora Parenzo, vistasi minacciata da questa incalzante lega, si diede in protezione e custodia a Venezia, che inviò nella cittadina un presidio militare e un podestà, fatti salvi i diritti formali del patriarca. Scegliendo il male minore, anche Umago (1269), Cittanova (1270), San Lorenzo (1271) le si affidarono. Di converso, nel 1268 Buie, stretta in una morsa tra Pirano e Momiano, si diede in protezione e custodia a Capodistria.

Dal 1270-71 però Pirano e Muggia si defilarono dall’alleanza anti-veneziana, mentre Pola, pur con dissidi interni, rimase neutrale volendo ampliare i suoi domini nella bassa Istria. Nel 1276 anche Montona si diede alla dominante e, dopo un provvisorio ritorno al patriarca, nel 1278 le si sottomise definitivamente divenendone la punta avanzata nell’Istria centrale. Nel 1279 i veneziani presero Isola (che nel 1280 si offrì loro in dedizione), espugnarono la ribelle Capodistria (costretta a un patto di sottomissione) e indussero il conte di Gorizia e Pisino a restituire San Lorenzo. Nel 1283 Pirano e Rovigno si diedero spontaneamente a Venezia, accettandone il podestà. Nel 1287 Muggia le si diede in protezione e custodia temporanee; nel 1288 si ribellò, ma qualche mese più tardi tornò in mani veneziane. Nel 1289 i veneziani conquistarono Castelvenere e altre località minori, occuparono Grisignana ed ebbero in dedizione Due Castelli e Buie.

Con la pace di Treviso del 1291 Venezia dovette restituire i territori avuti dopo il 1285, ma le località patriarchine mantennero i precedenti obblighi nei suoi confronti, mentre sulle controversie giurisdizionali istriane tra Venezia e Aquileia il papa avrebbe dovuto cercare un compromesso. Nel 1295 i conti di Gorizia e Pisino occuparono Albona, Fianona, Due Castelli, Valle e Pinguente, che l’anno dopo restituirono al patriarca salvo compiere nuovi usurpi. Nel 1300 il patriarca concesse a Venezia, dietro compenso, ogni suo diritto e giurisdizione sulle località istriane da questa occupate. Fu allora istituito il capitano del Pasenatico, massima autorità militare e giudiziaria di Venezia in Istria, che ebbe sede a Parenzo dal 1302 e a San Lorenzo (del Pasenatico) dal 1304. Nel 1304 la convenzione veneto-aquileiese fu rinnovata e nel 1307 il patriarca cedette in perpetuo a Venezia diritti, giurisdizioni e onorificenze sulle terre contese dietro un censo annuo. Nel 1309 i veneziani occuparono Albona e Pinguente con il consenso degli abitanti. Ne seguì una guerra tra veneziani da una parte, patriarchini, muggesani e goriziani dall’altra, terminata nel 1310 con una pace che ripristinava la situazione precedente. Nel 1313 veneziani e patriarchini si fecero di nuovo guerra. Dopo la pace del 1314 il conte di Gorizia e Pisino attaccò i possedimenti del patriarca, ma con la mediazione di Venezia si giunse a un accomodamento.

A partire dal 1232 i de Pola acquisirono progressivamente sempre più potere ottenendo dal loro Comune importanti cariche cittadine e dai patriarchi, dai vescovi di Parenzo, da quelli di Pola e dai conti di Gorizia e Pisino feudi nella Polesana. Dopo la pace di Treviso, che aveva isolato la città dagli altri domini aquileiesi, il patriarca, nominando i de Pola propri luogotenenti, donò loro il castello (castrum) quale feudo di abitanza; perciò da allora presero a chiamarsi de Castro Polae o Castropola. Nel 1310 Pietro fu investito dal patriarca anche della giurisdizione criminale maggiore sulla città e della giurisdizione sull’ampio Distretto della regalia. Lo stesso anno ottenne dal Comune la carica di capitano generale, che Nascinguerra IV e Sergio II si fecero riconfermare a vita nella forma di capitani generali e perpetui. Costoro però si inimicarono la Serenissima sopprimendo i privilegi dei veneziani, riedificando le mura sul mare già abbattute nel 1299-1300 e infine catturando e assassinando il capitano della Riviera d’Istria. Presentatasi la flotta veneziana davanti alla città, i Castropola fecero marcia indietro abbattendo nel 1318 le mura marine e giurando fedeltà. Nel 1319 il Comune abolì le misure anti-veneziane e stipulò con la Serenissima un nuovo trattato che confermava per i cittadini e sudditi veneziani i vecchi privilegi tributari, li esentava dalla giurisdizione delle autorità locali e imponeva un podestà veneziano.

I Castropola, con l’appoggio veneziano, tentarono di estendere il proprio dominio nell’Istria meridionale, scontrandosi però nel 1326-27 con i conti di Gorizia e Pisino e con quelli di Duino. Dal 1329 i Castropola furono nuovamente in guerra, stavolta per conto del patriarca, con i goriziani e con altri feudatari istriani. Ma si diffuse una pestilenza e persero buona parte del sostegno popolare. Essendo in corso anche una guerra tra Venezia e Aquileia, nel 1331 vennero infine rovesciati dalla fazione anti-patriarchina, che rafforzò gli ordinamenti comunali e consegnò definitivamente la città a Venezia. Valle e Dignano si diedero separatamente a Venezia emancipandosi da Pola. Gli aquileiesi tentarono di riconquistare i propri possedimenti, ma la pace del 1335 confermò, sia pure con la riserva di un arbitrato, la sovranità di Venezia sull’intera Polesana, che da allora in poi non venne mai più messa in discussione.

Nel 1342 la contea di Pisino si separò dagli altri possedimenti della famiglia e nel 1344 divenne succube di Venezia. Nel 1343 vi fu in Ciceria una scorreria di sloveni. Nel 1348, approfittando della razzia compiuta nel suo territorio da masnade tedesche e slovene, Capodistria tentò per l’ultima volta di ribellarsi, ma venne assediata e presto indotta a una definitiva e umiliante dedizione.

Nel 1353 i triestini, alleati dei goriziani, devastarono Muggia Vecchia, mentre nel 1354 i genovesi, in guerra con Venezia, saccheggiarono Parenzo e Pirano. Nel 1356 il re d’Ungheria, il patriarca, i Carraresi di Padova, i conti di Gorizia, quello di Pisino e altri feudatari minori attaccarono i possedimenti veneziani. Sconfitta, con la pace di Zara del 1358 Venezia dovette rinunciare a Cherso-Lussino e Veglia insieme al resto della Dalmazia, ma conservò l’Istria acquistando Grisignana. Nel 1360 si verificò una scorreria di sloveni nell’Istria interna nord-orientale. Nel 1366 i signori di Duino si sottomisero alla casa d’Austria, che divenne così titolare di Moschiena, Castua e alcune località della Ciceria. Nel 1367 la contea d’Istria si allargò nell’Albonese ai danni del patriarca. Nel 1369, dopo un assedio e un’effimera dedizione ai duchi d’Austria, Trieste si sottomise a Venezia. Nel 1370 (o 1372) una flotta genovese conquistò e saccheggiò Umago. Nel 1372 Venezia rifiutò la dedizione di Muggia e nel 1374 il patriarca si riprese a forza la cittadina e consolidò il suo potere sui castelli della Valdarsa.

Già all’inizio del XIV secolo Venezia favorì l’insediamento di slavi negli agri di Capodistria, Umago, Cittanova, Parenzo, Rovigno e Pola. Per converso esuli toscani trovarono accoglienza a Parenzo e in altre cittadine costiere. La peste mieté vittime nel 1338, 1348, 1361, 1371 e 1382; nelle aree rimaste desolate Venezia favorì l’insediamento di slavi, friulani e veneti con l’esenzione dai tributi per 5 anni.

Nel 1374 gli Asburgo d’Austria acquisirono per eredità la Contea di Pisino con Momiano, Visinada, Piemonte, Torre e Laurana; nel 1379 conferirono ai duinati la Contea, che nel 1399 i baroni svevi Walsee ereditarono insieme al Capitanato di Castua (comprendente Fiume).

Nel 1378 ungheresi, patriarchini, genovesi e padovani mossero guerra ai veneziani. Nel 1379 la flotta genovese sconfisse quella veneziana al largo di Pola, conquistò la città e il suo entroterra, saccheggiò Rovigno, prese Umago e, con l’appoggio aquileiese, Capodistria. Il patriarca si impadronì di Isola. Questa, liberata da capodistriani, piranesi e umaghesi ma minacciata dalla flotta genovese, nel 1380 tornò come Trieste suddita del patriarca, mentre Pola fu riconquistata e saccheggiata dai genovesi. Capodistria fu saccheggiata dai genovesi, ripresa dai veneziani e nel 1381 nuovamente espugnata dai genovesi. Sempre nel 1381 i veneziani tornarono nella Polesana. In quello stesso anno la pace di Torino confermò la situazione precedente, ma Trieste rimase al patriarca.

Scoppiata la guerra civile nel patriarcato, Trieste dopo alterne vicende si diede nel 1382 al duca d’Austria. Nel 1405 Muggia si sganciò dalla tutela patriarcale e Pinguente affermò la propria autonomia insieme a cinque sue ville. Nel 1411 Sigismondo, re d’Ungheria e imperatore del Sacro Romano Impero, occupò Muggia, Buie e Portole. Venezia prese Muggia in custodia provvisoria e nel 1412 acquisì in nome del patriarca Buie, Portole, Due Castelli, Colmo e Rozzo. Ma nel 1413 Sigismondo riprese Muggia e Portole e devastò Valle e Dignano. Nel 1418, allo scadere di una tregua quinquennale, Muggia strinse con Venezia un patto di neutralità e amicizia.


Fra Venezia e l’Austria (1420-1797)

Nel 1420 Venezia incorporò l’intero patriarcato ricevendo in dedizione Albona, Fianona, Muggia e Duecastelli e conquistando nel 1421 Portole, Pinguente e il castello di Pietra Pelosa. L’Istria si ritrovò allora divisa in due: Venezia possedeva tutta la costa occidentale dal Rosandra a Capo Promontore, la parte sud della costa orientale fino a Porto Longo, la Ciceria meridionale e l’enclave albonese fra l’Arsa e Fianona; la contea di Pisino comprendeva fra l’altro Sanvincenti, Pedena, Bogliuno, Barbana e le enclavi di Momiano, Piemonte-Castagna-Visinada, Torre e Laurana, con piccoli sbocchi al mare fra l’Arsa e Porto Longo nonché a Bersezio. Il resto della fascia costiera nord-orientale con Fiume era dei Walsee.

Ogni Comune dell’Istria veneta aveva quale podestà (a Pola quale conte) un nobile veneziano eletto dal Senato. Questi era la massima autorità politico-giudiziaria comunale e una specie di “prefetto” della Repubblica. Durava in carica di solito 16 mesi e non era immediatamente rieleggibile. In materia giudiziaria era affiancato da giudici, che assieme a lui costituivano il Reggimento, ossia la giunta comunale. I giudici, il sindico (un organo di controllo), il camerlengo (o cassiere), il cancelliere (con funzioni amministrative) venivano eletti fra i membri del Consiglio dei cittadini (o comunale, composto da tutti i nobili maggiorenni) e assieme a questo formavano il Comune. Altri nobili di nomina consiliare ricoprivano poi cariche minori (fontecaro, massaro alle armi, nodaro…). I popolani, anche se ricchi, erano invece esclusi dalle funzioni pubbliche. La classe dirigente istriana esprimeva anche il medio e alto clero, ma non poté mai partecipare al governo della Repubblica, riservato alla nobiltà veneziana.

Una spina nel fianco per Venezia fu Trieste, che pretendeva il monopolio dei traffici portuali da e per la Carniola in alternativa a Muggia, Capodistria, Isola o Pirano e pertanto nel 1427 acquistò Castelnuovo d’Istria, dove alcuni armati costringevano i mercanti a recarsi a Trieste. Nel 1435 la Contea di Pisino tornò agli Asburgo, che fra il 1445 e il 1449 occuparono l’agro di Montona. Nel 1448 il doge abolì i poteri giurisdizionali dei vescovi sui propri feudi, ma i vescovi di Parenzo conservarono le proprie prerogative sul feudo di Orsera. Nella contea di Pisino invece rimase intatto il regime feudale, basato sulla servitù della gleba, sulla negazione di ogni autonomia municipale e sulla compressione delle realtà urbane, mentre le campagne venivano sempre più slavizzate anche in funzione anti-veneziana.

Nel 1461 i triestini impedirono ai mercanti carniolini di accedere ai porti istriani. Venezia reagì con un blocco navale e nel 1463 con l’occupazione di San Servolo, Moccò, Prosecco, Moncolano e Castelnuovo e con l’assedio di Trieste. La pace assegnò a Venezia San Servolo, Moccò e Castelnuovo e impose la libertà di movimento transfrontaliera.
Tra il 1466 e il 1472 gli Asburgo ottennero anche la fascia costiera nord-orientale, Fiume e i possedimenti carsici dei Walsee.

Nel 1469 Venezia declinò per prudenza l’offerta di dedizione e la richiesta di sostegno fatte da Trieste, ribellatasi agli Asburgo e poco dopo riconquistata da questi. Nel 1473 gli austriaci occuparono San Servolo, ripresa poi dai veneziani. I triestini tentarono nuovamente di consegnare la città a Venezia, che tuttavia rinnovò il suo rifiuto; così fecero ancora nel 1476, sempre invano. Nel 1485 i triestini filo-asburgici impedirono l’accesso dalla Carniola all’Istria, ma Venezia ottenne soddisfazione.

Nel 1480 il conte Giovanni VII Frangipane, che governava Veglia per conto del re d’Ungheria e che nel 1452 l’aveva data in protettorato a Venezia, dovette abdicare consegnando l’isola al governo diretto della Repubblica.
Nel 1508 Austria, Spagna, Francia, Napoli, Ferrara, Mantova, Urbino e Stato pontificio formarono la Lega di Cambrai per combattere Venezia. In particolare Massimiliano I, imperatore del Sacro Romano Impero e granduca d’Austria, voleva assoggettare i territori istriani, friulani e veneti della Serenissima. I veneziani occuparono Gorizia, Trieste, la contea di Pisino, la Ciceria e Fiume. Ma l’anno successivo gli austriaci tornarono in possesso dei loro territori e percorsero l’Istria veneta con distruzioni, saccheggi e stragi anche di civili. Nel 1510-11 la guerra continuò a sorti alterne con tragiche conseguenze sulla popolazione e sul territorio. A peggiorare la situazione ci pensò nel 1511 un terremoto seguito da un maremoto. Nel 1512 le ostilità ripresero a intermittenza e terminarono appena nel 1516. Nel 1521 la pace di Worms e nel 1535 la sentenza arbitrale di Trento confermarono la situazione precedente con qualche modifica: Venezia ebbe Torre, Momiano, Piemonte, Castagna, Visinada, Sovignacco, Draguccio, Barbana, Castelnuovo d’Arsa e Sanvincenti, ma cedette all’Austria Moccò (caduta già nel 1510), San Servolo (che, conquistata dagli imperiali nel 1511, tornò veneziana fra il 1537 e il 1615) e Castelnuovo d’Istria (espugnata nel 1510). Da allora il confine istriano rimase invariato fino al 1797. I territori veneziani si estendevano per circa 2.400 km², quelli austriaci per quasi 1.000.

Oltre alle guerre, due ulteriori sciagure si abbatterono ripetutamente sulla penisola tra la fine del principato aquileiese e la metà del ’500, decimando la popolazione e causando gravi danni: la peste e i turchi. La peste colpì nel 1427 le cittadine costiere; nel 1437 l’intera Istria; nel 1449 varie località; nel 1456 Parenzo e Montona; tra il 1465 e il 1467 tutta la penisola; nel 1469 Castelnuovo d’Istria; nel 1473 Pirano e Parenzo; nel 1486 Cittanova; nel 1489 e nel 1493 Parenzo, nel 1510 diverse zone investite dalla guerra; nel 1527, 1542 e 1556 tutta l’Istria; nel 1553 Capodistria; nel 1558 Pirano. Tra il 1469 e il 1512 i turchi fecero una dozzina di sanguinose incursioni fra la Ciceria e l’Istria, razziando, incendiando, lasciando dietro di sé lutti e rovine e riducendo diverse persone in schiavitù. A ciò si aggiunsero anche alcune carestie.

Fallito il tentativo di ripopolare le aree incolte con contadini veneti e friulani, il governo veneto vi fece affluire slavi, morlacchi (cioè romeni balcanici semi-nomadi slavizzati in tutto o in parte), albanesi e greci in fuga dai turchi. Si trattava perlopiù di pastori o contadini poveri, spesso di indole aggressiva, di costumi poco civili e di scarsa cultura. A costoro offriva gratis la terra con l’esenzione dai tributi e da qualunque prestazione personale per vent’anni, forniva gli animali, gli strumenti di lavoro e le sementi in cambio della messa a coltura, dell’allevamento del bestiame, dello sfruttamento dei boschi e della costruzione o recupero di villaggi da abitare stabilmente. L’insediamento sistematico di profughi allogeni in Istria promosso e guidato dalle autorità venete è attestato con certezza dalla seconda metà del ’400 e con un crescente stillicidio di arrivi raggiunse il suo apice nella seconda metà del ’500 per diradarsi dopo il 1670 e concludersi nel 1726. Queste nuove comunità rurali si organizzarono gerarchicamente con capivillaggio, giudici e consigli dei capifamiglia, che interloquivano con le autorità comunali e provinciali. Lo stanziamento sempre più massiccio di tali nuclei etnici (a volte interi villaggi trasferiti) totalmente estranei alla popolazione autoctona, poco propensi a integrarsi e per giunta privilegiati creò attriti con la residua popolazione autoctona, in particolare gli agricoltori. A volte, venendo meno ai patti, i nuovi venuti non mettevano a coltura i terreni loro affidati, sebbene approfittassero delle invidiabili agevolazioni ottenute. In altri casi disobbedivano alle autorità e violavano le leggi, evitando di versare dopo vent’anni i tributi, compiendo furti, incendi, danni alle coltivazioni, esercizio abusivo della caccia o crimini ancora più gravi. I Comuni cercarono di difendersi dalle ribalderie dei nuovi abitanti con il richiamo alla legalità, l’annullamento delle concessioni, misure di espulsione (non sempre rispettate) o il ricorso all’autorità giudiziaria. In alcuni casi furono gli stessi coloni a ritornare in patria dopo un certo periodo. Tuttavia il banditismo nelle campagne si protrasse fino al ’700, negli ultimi tempi legato al contrabbando di tabacco. Particolarmente turbolente furono le zone di confine con i territori arciducali. Dal canto suo la gerarchia ecclesiastica si attivò per far rispettare dagli habitanti novi l’uso del latino in campo liturgico.

L’arrivo in pianta stabile di tutti questi immigrati alterò il volto etnico dell’Istria veneta. Alle realtà urbane di varie dimensioni, che specie sulla costa riuscirono a mantenere la loro identità italiana, si affiancò soprattutto all’interno una marea di piccoli villaggi (ville) o gruppi di casolari (stanzie o corti) abitati dai coloni forestieri: la cosiddetta Morlacchia, estesa dal Dragogna all’Arsa. Qui con il tempo prevalsero i dialetti ciacavi, originariamente parlati dai croati dalmati. Con la ripresa delle città e dei borghi, però, i villaggi di immigrati che vi si trovavano a più diretto contatto subirono una naturale assimilazione linguistica. Il dialetto istro-veneto, che già tendeva a sostituire l’istrioto fra la popolazione autoctona dell’Istria centro-settentrionale, si affermò lentamente anche fra i discendenti di quei coloni. Solo le comunità più isolate e arretrate dell’interno preservarono a lungo lingua, usi e costumi originari, assorbendo tuttavia molto dalla lingua dei vecchi abitanti, che comprendevano e parlavano più o meno bene. Analogamente, solo i montenegrini di Peroi conservarono la fede ortodossa, mentre i coloni ortodossi di altre località si convertirono al cattolicesimo nel giro di qualche generazione. Parole slave entrarono comunque nel lessico istro-veneto e istrioto.

Le autorità austriache non furono da meno nel favorire l’immigrazione in Istria di slavi e morlacchi, considerati utili non solo per lavorare nei campi in condizione servile, ma anche per sommergere numericamente la già ridimensionata popolazione romanza, che tentò invano di opporsi. Così nell’Istria asburgica gli autoctoni rimasero prevalenti solo nei piccoli borghi a economia più evoluta, adottando anch’essi l’istro-veneto, mentre le campagne vennero completamente slavizzate. Solo in alcuni villaggi della val d’Arsa i ciribiri conservarono fino al secolo scorso la propria lingua rumeno-morlacca, salvo poi cedere alla croatizzazione. La Ciceria soggetta alla Carniola venne ripopolata in buona parte da cici, ovvero morlacchi che si croatizzarono o slovenizzarono quasi del tutto. Nelle città e nei borghi di tutta l’Istria l’afflusso di friulani, che facilmente si integravano, corroborò l’elemento romanzo autoctono.

Le idee e i libri della Riforma si diffusero anche in Istria, che però rimase fedele alla Chiesa cattolica. Pier Paolo Vergerio il giovane, vescovo di Capodistria, per aver aderito al protestantesimo dovette cercare scampo in Germania, come il teologo albonese Mattia Flaccio. Il Tribunale dell’Inquisizione operò anche in Istria e l’istriano Girolamo Muzio fu uno dei principali apologeti della Controriforma, che appena dalla metà del ’600 cominciò a essere effettivamente attuata nel territorio provinciale. Al termine di tale operazione di “riconquista” delle anime, ciò che unì tutti gli istriani, divisi da fattori etno-linguistici, istituzionali, insediativi, storici e sociali, fu il comune culto cattolico (salvo il caso di Peroi). Altro comune punto di riferimento politico, economico e culturale era Venezia, l’indiscussa capitale in cui si riconoscevano sia gli abitanti vecchi, per evidenti ragioni di affinità, che gli abitanti nuovi, i quali le dovevano riconoscenza. Venezia era anche vicina e facilmente raggiungibile: in media 12-15 ore di navigazione. L’interscambio umano e commerciale ne era favorito. Un ulteriore elemento unificante accomunava l’élite che, per completare gli studi, doveva frequentare l’università di Padova. Capodistria venne chiamata l’Atene dell’Istria per il suo attivismo umanistico-rinascimentale dal ’400 agli inizi del ’500 e illuministico nel ’700. Città d’arte e cultura, dalla fine del ’600 ospitò un liceo-collegio.

Nel 1584 il podestà e capitano di Capodistria, comandante militare nel territorio comunale, divenne anche giudice d’appello civile e penale per l’intera provincia oltre che per le dalmate Cherso, Lussino, Veglia e Arbe, e dopo il 1632 supervisore amministrativo di gran parte dell’Istria veneta. Durante il ’500 il capitano di Raspo, oltre che massima autorità militare provinciale e podestà di Pinguente, fece da supervisore del podestà di Pirano e fu incaricato di requisire e ripartire le terre desolate fra i coloni, di tutelarne gli interessi e di giudicare in caso di controversie. Il suo ruolo si ridimensionò nel ’600 con il decrescere del fenomeno immigratorio.

L’Istria veneta era suddivisa in 18 Comuni (o podesterie) e in 12 feudi maggiori: tra questi, Piemonte, Visinada, Sanvincenti e Barbana erano in possesso di nobili veneziani; altri di nobili capodistriani o comunque locali. Duecastelli era giurisdizione feudale del Comune di Capodistria, la Contea di Orsera feudo del vescovo di Parenzo fino al 1778, quando fu sottoposta al capitano e podestà di Capodistria. Soprattutto nei feudi gestiti da nobili veneti i diritti degli abitanti erano assai più ampi di quelli dell’Istria arciducale, includendo anche organi di rappresentativi e decisionali. Dal ’400 ai primi decenni del ’600 la città più importante e popolosa fu Capodistria, seguita dalla vivace Pirano. Pola invece e ancor più Parenzo e Cittanova furono falcidiate della peste e si ripresero appena dalla seconda metà del ’600. Nel ’700 Rovigno balzò al primo posto in termini demografici, produttivi e di ricchezza, ma Capodistria rimase il capoluogo politico-culturale-religioso della provincia, fu in concorrenza con l’asburgica Trieste per la vendita del sale ai mercanti della Carniola e la sua nobiltà mantenne il controllo di alcuni feudi dell’interno.

Una nuova sciagura per la già provata popolazione istriana fu costituita dagli uscocchi. Questi slavi, profughi dai territori balcanici occupati dai turchi, inizialmente avevano attuato dai territori asburgici incursioni e atti di pirateria contro costoro, ma nel ’500, con la protezione asburgica, da alcune località quarnerine attaccarono anche navi battenti bandiera della Serenissima e, negli ultimi decenni del secolo, effettuarono sanguinose incursioni predatorie a Cherso e in Istria. A loro si erano aggiunti avventurieri di varia origine. Nel 1597 investirono Rovigno e la Polesana; nel 1599 assediarono invano Albona, espugnarono Fianona, dove compirono efferatezze, e saccheggiarono Rovigno. Allora la flotta veneziana assediò Fiume. Nel 1600 truppe veneziane attuarono una rappresaglia nell’Istria asburgica, cui seguì una micidiale pestilenza. Nel 1602 gli uscocchi colpirono la Ciceria veneta, nel 1606 Cherso e alcuni porti dell’Istria meridionale, nel 1607 Pola, nel 1608 Promontore e Barbana e nel 1610 Rovigno. Nel 1612 i veneziani saccheggiarono e distrussero Laurana, Moschiena e alcuni castelli della val d’Arsa e bombardarono Fiume, mentre gli austriaci puntarono su Barbana. Nel 1613 e poi nel 1614 i veneziani razziarono Fianona e si scagliarono contro Laurana, Abbazia, Volosca e altre località austriache dell’interno. Gli uscocchi assalirono il Pinguentino.
Tra il 1615 e il 1617 la Guerra di Gradisca o degli Uscocchi funestò ulteriormente l’Istria, specie interna, con attacchi e contrattacchi, saccheggi, stragi, incendi e gravi atti di barbarie da ambo le parti. La popolazione ne venne ancor più decimata, le campagne sconvolte, l’economia impoverita, la vita civile brutalizzata. La pace di Madrid del 1617 confermò l’assetto confinario antecedente, ma l’Austria dovette trasferire gli uscocchi nell’entroterra croato e sloveno. Da allora non vi furono più guerre aperte fra Venezia e l’Austria in territorio istriano, che fino al 1797 conobbe un lungo e benefico periodo di pace. Però non mancarono scaramucce di confine, spesso per ragioni commerciali, soprattutto nell’area triestina. Oltre ai militari di professione concentrati a Pinguente e Capodistria, nei castelli e nei borghi c’erano le truppe territoriali, chiamate cèrnide, e nelle città costiere contingenti gestiti dai Comuni. Numerose località venete furono fortificate a scopo preventivo.

La peste infierì nuovamente nel 1621 e fra il 1629 e il 1631 con effetti devastanti soprattutto a Pola e Parenzo (ridottesi a poche centinaia di abitanti), ma anche a Muggia, Capodistria, Umago, San Lorenzo di Daila, Cittanova, Buie, Verteneglio, Grisignana, San Lorenzo del Pasenatico, Pisino e Duecastelli (che da allora fu abbandonata). La popolazione scese da 65.000-70.000 a 40.000-45.000 unità circa. Dopo di allora non si verificarono più pestilenze gravi ed estese, anche grazie al miglioramento delle condizioni igieniche ed economiche, all’adozione di misure sanitarie, alla pace e alla stabilità sociale. Vi furono però casi di vaiolo, siccità, danni alle coltivazioni e carestie. Nel 1687 o 1688 Cittanova fu espugnata dai pirati ottomani di Dulcigno, che rapirono e schiavizzarono l’intera popolazione residua (circa cento persone). Ma fu un caso isolato.

Dal quarto decennio del ’600, dopo due secoli di depressione e stagnazione, l’Istria cominciò lentamente a rifiorire sul piano demografico, materiale e artistico-culturale. Tributariamente rendeva a Venezia meno di quanto questa vi investisse, ma la riforniva di merci importanti: legname (da costruzione e riscaldamento), pietra (da costruzione e interramento), sale, vino, olio, pesce, bovini, ovini, pelli animali e miele. La parte nord-occidentale era specializzata nella viticoltura, nell’olivicoltura e nella produzione del sale, mentre il resto della penisola si basava sull’allevamento e lo sfruttamento boschivo, soprattutto ad opera dei coloni, e sulla cerealicoltura (diffusa anche nella parte asburgica). Dopo il 1650 anche nella fascia costiera sud-occidentale riprese la coltura della vite e dell’olivo. La ripresa dell’agricoltura a scapito dell’allevamento favorì la crescita demografica ancor più nel ’700, salvo una battuta d’arresto a cavallo dei due secoli. Le differenze economiche non erano così marcate come poi nell’800.
Dal 1720 a Rovigno e poi nelle altre cittadine costiere cominciò un tipo di pesca più redditizio, nacque l’industria conserviera del pesce e nella seconda metà del ’700 si sviluppò la marineria commerciale. Dopo il 1760 Trieste, eretta a porto franco, divenne il principale mercato di smercio per i prodotti dell’Istria occidentale come Fiume per quelli dell’Istria orientale. Dalla casa madre triestina sorsero poi in Istria filiali di attività manifatturiere. Segnali di crisi, a partire dall’agricoltura, si ebbero dal 1780-81. Allora l’Istria contava 120.000-125.000 abitanti. Il risveglio economico fece emergere una borghesia produttiva che, sia pure benestante e istruita, restava esclusa dal potere politico. In tutta la penisola vennero create tra ’600 e ’700 numerose confraternite o scuole laiche, cioè associazioni che, legate alle parrocchie, svolgevano funzioni di mutuo soccorso materiale e finanziario. Spesso raggruppavano persone che svolgevano lo stesso mestiere o erano dedite al culto. Furono soppresse da Napoleone nel 1807.

Per le navi l’Istria era l’ultimo approdo adriatico prima di raggiungere Venezia e in tal senso fungeva da filtro: infatti gli equipaggi dovevano trascorrere un periodo di quarantena nei lazzaretti situati nei principali porti della costa occidentale. A Rovigno poi venivano imbarcati i “piloti da mar”, che conducevano uomini e merci fino alla capitale. All’inverso, l’Istria era il primo approdo adriatico per le imbarcazioni partite da Venezia.
L’Istria asburgica era frammentata in tante piccole realtà feudali: la Contea di Pisino, microscopiche signorie laiche ed ecclesiastiche e il Capitanato di Castua. I piccoli centri abitati si suddividevano in Città (Pedena, Gallignana, Antignana e, dal ’600, Pisino), Cittadine (Laurana e Vermo), Comunità (Gimino, Pisinvecchio, Bogliuno e Lindaro) e Frazioni. Nel capitanato di Castua c’erano i Comuni di Castua, Fiume, Moschienizze e Veprinaz. Le poche Città, dove si concentravano commercianti e artigiani, erano italofone, le Frazioni croatofone. Nelle Cittadine e nelle Comunità i due diversi gruppi etnici convivevano ed era diffuso il bilinguismo. Il clero era in grande maggioranza croato. Dopo una certa crescita fra il 1520 e il 1580, l’Istria arciducale risentì notevolmente del conflitto con Venezia, tanto che dopo il 1630 la corte viennese, in difficoltà finanziarie, offrì la contea di Pisino a Venezia, che rinunciò. Alla guida si susseguirono vari possessori pignoratari, tutti italofoni salvo il principe di Auersperg. Dopo una rivolta contadina contro gli eccessivi oneri tributari domata sanguinosamente nel 1653, le condizioni di vita migliorarono. Ma nel 1712 vi fu una nuova sollevazione dovuta alle stesse ragioni, nonché al tentativo di sopprimere il tribunale popolare dei capivillaggio e imporre dall’alto la nomina di questi, fino ad allora eletti dalla popolazione. Con la costruzione della strada Pisino-Fiume nella seconda metà del ’700 aumentarono i traffici commerciali, che trovavano sbocco anche a Porto Fianona e Porto Albona. Ne derivò un rafforzamento della borghesia italofona. Fra il 1780 e il 1790 la contea di Pisino con le signorie laiche ed ecclesiastiche fu annessa alla Carniola nell’ambito del capitanato circolare di Postumia.

Assegnato in precedenza a diversi pignoratari, dal 1630 al 1773 il Capitanato di Castua fu in mano al collegio dei Gesuiti di Fiume, con il quale i Comuni ebbero notevoli contenziosi. Nel 1719 Fiume, eretta a porto franco, uscì dal capitanato e nel 1776 divenne sede di un governatorato soggetto prima alla Croazia ungherese e dal 1779 direttamente all’Ungheria come corpo separato. Su Fiume gravitarono economicamente sia il Capitanato sia Veglia.


Il primo dominio austriaco (1797-1805)

A metà maggio 1797 giunse l’inattesa notizia che il doge si era dimesso, che il monopolio aristocratico delle cariche pubbliche era cessato, che era stato istituito il Veneto Governo Democratico e che ovunque nel territorio della Repubblica si andavano formando le Municipalità democratiche. Molti, fra i nobili e gli ecclesiastici, reagirono con incredulità e costernazione, impauriti dalla prospettiva di perdere il potere e di venir perseguitati come durante la rivoluzione in Francia. Forte fu invece tra borghesi e popolani, specie quelli poco legati alla Chiesa e frustrati per l’esclusione dalle cariche pubbliche, l’entusiasmo per il nuovo regime. Montona, Umago e Pirano inviarono a Venezia propri rappresentanti per giurare fedeltà alla nuova Repubblica democratica.

Il 5 giugno a Isola il popolo si ribellò alla notizia dell’imminente passaggio di sovranità all’Austria e uccise il podestà veneziano, ritenendolo complice dei nobili accusati di tramare per la consegna della città agli austriaci. Anche a Capodistria scoppiò una rivolta anti-nobiliare, fu issato il gonfalone della Repubblica, uno dei nobili fu costretto a gridare «Viva San Marco!» e tutti rinnovarono solennemente il giuramento di fedeltà a Venezia. Tumulti anti-nobiliari vi furono poi a Muggia e Pirano. Parecchi nobili si rifugiarono a Trieste sollecitando le autorità austriache a occupare l’Istria. A Canfanaro furono bruciati i documenti che attestavano i debiti di alcune famiglie slave. A Pirano, Rovigno, Montona e Parenzo invece la transizione alla Municipalità democratica fu indolore. Ovunque le maggiori cariche furono rivestite da uomini nuovi, in genere borghesi colti e ricchi di orientamento laico-progressista. Si diffusero per la prima volta sciarpe e coccarde bianche, rosse e verdi: i colori nazionali italiani stabiliti il 7 gennaio dal Congresso cispadano di Reggio Emilia.

L’esperimento delle Municipalità democratiche fu di breve durata. In base agli accordi di Leoben segretamente stipulati con Napoleone, fra il 10 e il 17 giugno gli austriaci occuparono l’Istria veneta, con grande sconcerto e rassegnazione della maggioranza degli istriani, che si riconoscevano nella Repubblica veneta riformata. Cherso non volle sottomettersi ai conquistatori prima di averne avuto ordine dal governatore generale della Dalmazia veneta. Il 16 giugno nel canale di Fasana una piccola flotta veneziana affrontò con successo alcune navi austriache. La nobiltà e il clero istriani accolsero con favore gli austriaci in quanto garantivano stabilità, ordine sociale e rispetto delle tradizionali prerogative della Chiesa dopo la breve fase rivoluzionaria e si presentavano come i continuatori di Venezia.

A Capodistria si insediarono il cesareo regio commissario plenipotenziario per l’Istria, la Dalmazia e l’Albania e il cesareo regio governo provinciale provvisorio dell’Istria veneta, che, invece di restaurare l’antico regime, confermò l’abolizione dei privilegi politici della nobiltà, garantendo al popolo la parità di diritti che aveva appena conquistato. Tutti i cittadini, senza più distinzioni di ceto, poterono così partecipare al governo locale. Pirano, Parenzo, Rovigno e Pola furono rette da una Direzione politico-economica, mentre Muggia, Isola, Umago, Cittanova, Buie, Grisignana, Portole, Montona, Pinguente, Orsera, San Lorenzo del Pasenatico, Valle, Dignano e Albona da una Superiorità locale o da un Tribunale provvisionale. A Capodistria fu confermato il tribunale d’appello provinciale, presieduto dallo stesso governatore. Rimasero inalterate, accanto agli statuti comunali, le norme venete in materia economica e fiscale. Le condanne per gli autori delle sedizioni di Isola e Capodistria furono miti, ma la presenza di militari stranieri, perlopiù croati, suscitò malcontento nel popolo. Nel luglio-agosto 1797 alcuni piranesi, cittanovesi, parenzani e rovignesi ordirono invano un complotto per restituire l’Istria al Comitato di salute pubblica di Venezia.

Il trattato di Campoformio del 17 ottobre 1797 sancì la fine della rigenerata Repubblica di Venezia e la sua spartizione: all’Austria andarono l’Istria, la Dalmazia, il Friuli e quasi tutto il Veneto, il resto alla Repubblica Cisalpina creata da Napoleone. Per la prima volta dai tempi del marchesato patriarcale tutta l’Istria fu soggetta allo stesso sovrano, l’imperatore del Sacro Romano Impero Francesco II, sebbene la parte anticamente austriaca restasse separata sul piano amministrativo. Cherso, Lussino, Veglia e Arbe tornarono pienamente sotto la Dalmazia. Le nuove autorità imposero uno stretto regime poliziesco, diedero la caccia ai presunti giacobini e censurarono libri e stampe. Nel 1798 furono compiute violenze contro soldati del presidio austriaco e nel 1799 fu abbattuto uno stemma austriaco a Buie, si verificò un tumulto a Pirano e si rivelò un insuccesso il tentativo di arruolare marinai per la flotta austriaca.

Nel 1800 Comuni e feudi dell’ex Istria veneta, con alla testa un superiore locale politico, furono riuniti in sette circondari o dipartimenti (Capodistria, Pirano, Parenzo, Rovigno, Pola, Albona e Pinguente), ciascuno con una direzione politico-economica e un tribunale civile di prima istanza. A Parenzo fu istituito un giudizio criminale di primo grado per tutta la provincia, nel 1804 trasferito a Dignano per meglio combattere il banditismo. Dal 1801 un nuovo commissario sostituì a Pirano e Rovigno le municipalità democratiche con i vecchi consigli nobiliari, ampliò il consiglio di Parenzo e requisì per suo conto opere d’arte e cimeli storici in varie parti dell’Istria. A Pirano due soldati furono aggrediti da alcuni popolani; per ritorsione un innocente venne imprigionato, bastonato e ucciso. A Visignano l’annuncio di una leva obbligatoria indusse la popolazione a rivoltarsi, e vi furono fermenti anche a Rovigno, la più filo-asburgica di tutte le località istriane. Capodistria rimase il cuore della fronda anti-asburgica, alla quale aderivano intellettuali, borghesi, professionisti e qualche nobile, mentre il popolo, più legato alla Chiesa, aveva nostalgia della vecchia Serenissima aristocratica e cattolica. Capo del partito filo-francese fu dal 1798 l’avvocato Angelo Calafati.

Nel 1802 l’Istria ex-veneta fu posta alle dipendenze della cancelleria aulica italiana di Vienna e nel 1804 fu unita a Trieste in un capitanato provinciale o circolare dell’Istria ex-veneta con tre soli commissariati circolari: Parenzo, Rovigno e Pola. Il tribunale di terzo grado passò da Venezia a Klagenfurt.
Gli austriaci tentarono di razionalizzare l’amministrazione veneta, ma il ripristino di alcuni privilegi nobiliari e, fra il dicembre 1804 e il luglio 1805, una forte militarizzazione del territorio provocarono nuovi malumori e tensioni. A Rovigno, dopo che un militare aveva ucciso un uomo del posto, numerosi popolani si scagliarono contro i soldati. Ma già dall’agosto dello stesso anno le truppe sgombrarono la provincia e vennero dirottate più a nord per contrastare la travolgente avanzata napoleonica.


L’Istria sotto Napoleone (1805-1813)

Viste le vittorie francesi durante la guerra contro la terza coalizione, all’inizio di novembre del 1805 da Capodistria una delegazione “democratica” si recò segretamente a Udine per invitare il comandante dell’armata francese in Italia a occupare la provincia. Ciò avvenne dal 21 novembre. I francesi però pretesero una cospicua contribuzione di guerra e a Pirano danneggiarono gli emblemi e cancellarono le iscrizioni della Serenissima, suscitando la riprovazione popolare. Il 25 novembre istituirono a Capodistria un governo provvisorio centrale dell’Istria. Dal 9 dicembre ne divenne preside Angelo Calafati, che assunse anche la carica di presidente del tribunale d’appello civile e penale. Per il resto l’assetto amministrativo e giudiziario della provincia rimase inalterato. Il 9 dicembre i francesi occuparono anche Fiume.

Il 26 dicembre 1805 con la pace di Presburgo l’Austria rinunciò alla parte degli stati della Repubblica di Venezia cedutagli mediante i trattati di Campoformio e Lunéville. L’Istria ex-veneta fu destinata con la Dalmazia, il Friuli e il Veneto al Regno d’Italia di Napoleone, esteso da Domodossola a Rovigo e da Reggio Emilia a Rimini (dal 1808 fino al Tronto). Nel gennaio 1806 fu proclamata ottava Provincia degli stati ex-veneti. Il 1° febbraio 1806 ne furono posti a capo un magistrato civile (lo stesso Calafati), un intendente di finanza e un delegato di polizia, tutti con sede a Capodistria. Calafati nominò sei delegati di governo per gli altri circondari istriani. Furono confermati i tribunali di prima istanza di Capodistria e Parenzo e quello d’appello di Capodistria, chiamato corte di giustizia civile e criminale, mentre il terzo grado ebbe sede nella capitale del regno, Milano.

Il 1° maggio la Provincia dell’Istria venne ufficialmente annessa al Regno d’Italia quale dipartimento con a capo il prefetto Calafati. Fu introdotta la legislazione napoleonica, che apportò notevoli rivolgimenti, non sempre ben digeriti dalla maggioranza della popolazione, legata alla Chiesa e al municipalismo dell’epoca veneta, ma infine accettati. Tra la primavera e il dicembre 1807 il dipartimento fu suddiviso nei distretti di Capodistria e Rovigno. Il Distretto di Capodistria fu ripartito nei cantoni di Capodistria, Pirano, Pinguente e Parenzo, il Distretto di Rovigno nei cantoni di Rovigno, Dignano e Albona. I 10 feudi vennero in gran parte emancipati ed eretti a Comuni, che in tal modo salirono a 22. Ogni cantone ebbe a capo un delegato prefettizio e ogni Comune un podestà con una giunta e un consiglio comunale. La normativa di riferimento non fu più quella particolare degli antichi statuti, ma quella generale delle leggi italiane. Rovigno divenne sede anche di una vice-prefettura di seconda classe. Fu abolito ogni privilegio nobiliare ed ecclesiastico. Per partecipare alla vita politica bastò essere residenti nel territorio comunale da un anno. L’assetto giudiziario fu razionalizzato e separato da quello politico-amministrativo. Ogni capoluogo di cantone ebbe quale tribunale di prima istanza una semplice giudicatura di pace. A Capodistria venne istituito anche uno specifico tribunale di commercio.

Fu garantita la libertà di culto e vennero soppressi quasi tutti gli ordini, le congregazioni e le confraternite religiose. Il matrimonio civile divenne obbligatorio, con il conseguente trasferimento di tutte le funzioni anagrafiche dalla Chiesa allo Stato. Sgradite novità furono l’imposta fondiaria, l’imposta personale, la carta bollata e soprattutto il servizio militare obbligatorio. Non piacquero nemmeno la contribuzione obbligatoria allo stazionamento delle truppe, i nuovi dazi, l’aumento del prezzo del sale e il divieto di acquistare merci inglesi. Fu tuttavia potenziata la produzione del sale, promosso il commercio e i progressi in campo agricolo, tecnico e industriale, unificati pesi e misure, migliorata l’igiene, attuato a Capodistria un parziale riassetto e risanamento urbanistico, restaurati l’Arena di Pola e l’Arco dei Sergi, meglio organizzata la beneficenza pubblica, introdotte nuove scuole elementari pubbliche laica, obbligatorie e gratuite, istituiti a Capodistria un ginnasio-liceo, parzialmente ripristinata la libertà di stampa, migliorato il servizio postale e semplificate molte procedure burocratiche.

Nel 1807 uscì il primo giornale: il Foglio periodico istriano, organo ufficiale della prefettura. Per la prima volta inoltre gli istriani poterono in qualche misura partecipare alla vita politica dello stato tramite i consigli distrettuali, di prefettura, quello generale dipartimentale e il senato nazionale. A essere cooptati in questi consessi furono unicamente istro-italiani, prevalenti soprattutto per livello economico, sociale e culturale. Cominciò a svilupparsi il sentimento nazionale italiano.

Nonostante l’aumentata tassazione, il blocco continentale e le incursioni navali inglesi, ne derivarono inizialmente maggior ordine, sviluppo economico e progresso civile.
Nacquero il Battaglione reale d’Istria, che nel 1809 combatté in Trentino e Carinzia contro gli austriaci e poi in Spagna, e la Guardia nazionale, che sostituì sul territorio le cernide e i bombardieri di epoca veneta. A Capodistria nel maggio 1806 sorse una loggia massonica, che elaborò i principi di libertà, uguaglianza, fratellanza, patria, nazione e democrazia. Vi aderirono funzionari pubblici, intellettuali, borghesi e perfino alcuni ecclesiastici anche del resto della provincia (salvo Rovigno) e di Trieste sostenitori del regime napoleonico. Fra la nobiltà conservatrice, il popolo tradizionalista (specie slavo) e il clero slavo prevalsero invece i sentimenti filo-asburgici, ma all’inizio non vi fu vera opposizione.

Il 4 giugno 1806 i muggesani impedirono lo sbarco di truppe inglesi, ricevendo un elogio dal viceré Eugenio. Sempre nel 1806 gli inglesi occuparono l’isolotto di Veruda e alcune parti del porto di Pola. Il 6 luglio 1808 davanti a Cittanova una flotta inglese, dopo cinque ore di combattimenti, fu costretta a ritirarsi. Tuttavia vi furono anche pescatori e marinai che aiutarono gli inglesi e nel 1809 venne sventato un complotto filo-britannico. Nell’Istria meridionale inoltre continuò a imperversare il banditismo, che non si riuscì a debellare.

Nell’aprile 1809, di fronte all’invasione austriaca, le truppe italiane e francesi indietreggiarono fino al Livenza e poi all’Adige, lasciando in Istria pochi contingenti. Gli austriaci da terra e gli inglesi dal mare assediarono Capodistria, che si arrese a condizioni onorevoli. In città assunse il potere prima un commissario civile e poi un cesareo regio intendente della Provincia dell’Istria, che istituì un magistrato per gli argomenti politico-pubblico-economici e un duumvirato per gli argomenti di finanza, ridusse la pressione fiscale e fece nuovamente circolare le merci inglesi, lasciando al loro posto le autorità distrettuali, cantonali e comunali. L’accoglienza della popolazione italiana fu fredda, salvo che a Rovigno, che era stata fortemente danneggiata dal blocco continentale e dall’incapacità della flotta italica di contrastare la guerra corsara inglese. Il 17 e 18 aprile il popolo diede fuoco all’archivio della vice-prefettura e imprigionò o malmenò parecchi giacobini, mentre una nave austriaca fece prigionieri i pochi soldati italiani asserragliatisi con alcuni contadini di Peroi sull’isola di Santa Caterina. Le autorità austriache, occupata la città, liberarono i prigionieri e sostituirono alla vice-prefettura una cesarea regia deputazione provvisoria politico-economica, retta dal capo dei rivoltosi rovignesi.

Il 24 aprile il castello di Pola resistette con soli 200 uomini, ma dopo sette ore dovette arrendersi. Fra il 6 e il 9 maggio gli austriaci occuparono anche Cherso, Lussino, Veglia e Arbe. La rivolta anti-francese e anti-italica si diffuse nel resto dell’Istria meridionale con devastazioni di archivi pubblici e razzie di beni privati. Ma il vittorioso contrattacco che portò il 18 maggio alla presa di Trieste indusse gli austriaci ad abbandonare Capodistria, rioccupata il 23 maggio dagli italo-francesi. Il resto della provincia, praticamente inerme, fu invece sottoposta specie in giugno e luglio a scorrerie terrestri austriache e navali inglesi. Da Fiume una colonna di miliziani, guidata da un disertore francese e rinfoltitasi con elementi dell’Istria asburgica e di quella meridionale, occupò Parenzo con l’appoggio navale inglese e requisì oggetti e denaro. Avuta però notizia della firma della pace a Vienna, il capo e alcuni componenti della spedizione fiumana lasciarono Parenzo e via mare raggiunsero Cittanova e Umago. Il 18 ottobre tentarono di fuggire da Umago, ma furono catturati o uccisi dalle avanzanti truppe italo-francesi. Queste, giunte a Parenzo, misero in fuga i residui della spedizione e il 21 ottobre a Rovigno sbaragliarono quanti vi si erano rifugiati opponendo resistenza insieme ad alcuni filo-asburgici locali e reagirono con l’incendio e il saccheggio di alcune case al lancio di oggetti dalle finestre della via principale. I notabili e il clero della città ottennero clemenza in cambio della consegna delle armi e di una contribuzione.

Nella notte fra il 25 e il 26 ottobre gli insorti attaccarono Sanvincenti, ma vennero respinti dai paesani e allora tornarono a Rovigno, da dove ripartirono e si dispersero dopo aver riscosso un tributo. In città fecero quindi ritorno i soldati italo-francesi, che ristabilirono l’ordine. Nove responsabili della rivolta furono fucilati, mentre altri rivoltosi rovignesi vennero tenuti in carcere a Trieste per alcuni mesi e uno di questi fucilato il 14 aprile 1810. Alcuni accusati di tradimento furono processati, ma non si diede luogo a nuove sentenze capitali. Oltre alla consegna delle armi fu imposta alla popolazione, specie rovignese, una leva straordinaria.

Il 14 ottobre 1809 la pace di Vienna sancì la rinuncia austriaca all’Istria anticamente asburgica, a Trieste, a Fiume, alla contea di Gorizia, al Monfalconese, alla Carniola, a parte della Carinzia e alla Croazia marittima. Napoleone assemblò tutti questi territori in un nuovo soggetto amministrativo con capitale Lubiana: il Governo delle Province illiriche dell’Impero francese. A queste aggregò anche la Dalmazia, l’appena disciolta Repubblica di Ragusa, le bocche di Cattaro, nonché Curzola e Brazza (francesi dal 1807) e due cantoni tirolesi. Questo nuovo stato cuscinetto, disomogeneo sul piano etno-linguistico, storico, culturale ed economico anche se a maggioranza slava, doveva costituire l’antemurale, la difesa militare avanzata, la marca di frontiera, l’avanguardia del Regno d’Italia verso l’Austria e l’Impero ottomano, lo strumento di controllo dell’intero Adriatico orientale contro la minaccia britannica, il mezzo di collegamento continentale fra Istria, Dalmazia e resto d’Italia ma anche un’area di penetrazione ideologica e una merce di scambio da barattare in futuro con la Galizia. Dunque una realtà provvisoria perché strumentale. Le Province vennero sulle prime organizzate dal viceré d’Italia Eugenio Beauharnais e dal 16 novembre ebbero come governatore generale il maresciallo Marmont. Lingue ufficiali furono il francese, il tedesco e l’italiano.

Nel gennaio 1810 il prefetto Calafati e tutti gli istriani filo-francesi appresero con grande stupore e rincrescimento che Napoleone aveva aggregato anche il dipartimento dell’Istria alle Province staccandolo dal Regno d’Italia. Lo stesso viceré si oppose, ma Napoleone concesse soltanto che le saline e i boschi dell’Istria ex-veneta e delle isole quarnerine, fondamentali per l’economia italiana, rimanessero sotto la sua giurisdizione. Nei primi mesi non vi furono cambiamenti amministrativi e Calafati rimase al suo posto. Anche nell’Istria anticamente asburgica furono introdotte le innovazioni già conosciute da quella ex-veneta, ma trovarono ancor minore consenso, tanto più che la natura militare delle Province portò a un aumento della tassazione e a un sistema di dazi che involontariamente alimentava il contrabbando.

Il 1° ottobre 1810 Marmont istituì l’intendenza d’Istria, che unificò la prefettura e l’intendenza di finanza, e, sopprimendo la vice-prefettura di Rovigno, ne affidò il relativo Distretto a un delegato dell’intendenza. Intendente fu l’ex prefetto Calafati. Venne creata una Guardia nazionale guardacoste per la sicurezza della navigazione contro le scorrerie inglesi, fortificate le principali cittadine marittime e potenziati i reparti sul territorio. Il 27 marzo 1810 la Guardia nazionale di Rovigno ricacciò in mare l’equipaggio di una spedizione inglese. Marmont condusse un’efficace azione contro il banditismo slavo nei dintorni di Pola e Dignano catturando e mettendo a morte diversi briganti. Introdusse però la censura e aumentato il prezzo del sale. Il 25 novembre 1810 soppresse le decime e i quartesi ecclesiastici, che sostituì con i ricavi dei fondi demaniali, e abolì quasi tutte le confraternite ecclesiastiche, incamerando le rendite nell’erario. Fece sorgere un ginnasio a Rovigno e procedette con la leva militare.

Il 15 aprile 1811 un decreto imperiale diede una sorta di costituzione alle Province illiriche, che vennero suddivise in sette province. Una di queste fu la Provincia d’Istria, con capoluogo Trieste e con i distretti di Gorizia, Trieste, Capodistria, Rovigno, a sua volta ripartiti in cantoni. L’Istria anticamente asburgica, Fiume e le isole quarnerine (staccate dalla Dalmazia) furono invece assegnate alla Provincia della Croazia civile. La Provincia fu retta da un intendente e ogni Distretto da un suo delegato. Il 30 giugno la vecchia intendenza provinciale fu soppressa. Il cantone di Parenzo passò dal Distretto di Capodistria a quello di Rovigno. Le città capoluogo di provincia, distretto o diocesi furono rette – alla francese – da un maire, affiancato da alcuni aggiunti, le altre da un sindaco, affiancato da un supplente. Ogni Comune ebbe un consiglio municipale, con compiti meramente finanziari, ogni cantone un giudice di pace con due supplenti e un cancelliere. Solo Trieste, Gorizia e poi Rovigno ebbero un tribunale di primo grado e solo Trieste e Fiume un tribunale di commercio. Trieste fu sede di una corte di prepositura per i delitti più gravi, mentre la corte d’appello di Lubiana era competente per l’intera Provincia d’Istria. Furono meglio garantiti i diritti degli imputati. La più importante delle tre camere di commercio delle Province illiriche venne insediata a Trieste.

Il 18 settembre 1811 Napoleone staccò l’Istria anticamente asburgica dalla Croazia civile incorporandola nella Provincia d’Istria. La richiesta era giunta dal generale Bertrand, dal giugno 1811 governatore delle Province illiriche, con la motivazione che la lingua, gli interessi e la facilità di comunicazioni doveva far riunire la Contea di Pisino e le altre piccole contee del versante sud del Monte Maggiore al resto dell’Istria, in quanto non avevano rapporti naturali con la Croazia. Così per la prima volta da secoli l’intera Istria fu unita anche sul piano amministrativo. Nei distretti di Capodistria e Rovigno, così come in quelli di Gorizia, Trieste, Fiume, Zara, Spalato, Sebenico, Ragusa e Cattaro, la lingua ufficiale accanto al francese fu sempre e solo l’italiano. Tuttavia il dialetto slavo fu adoperato, come già ai tempi di Venezia, per meglio farsi capire dagli abitanti di alcune aree.

Il 1° gennaio 1812 entrò in vigore in tutte le Province illiriche la legislazione francese. Vescovadi e capitoli ebbero garantita una rendita annua. I diritti feudali non vennero interamente soppressi per non inimicarsi la nobiltà terriera. Bertrand diminuì l’imposta fondiaria, rafforzò la difesa costiera e continuò la costruzione della strada Capodistria-Pola, ma aumentò la pressione fiscale per far fronte alle spese.

Il 4 maggio 1811 i parenzani contribuirono valorosamente a cacciare gli inglesi che avevano affondato una nave francese. Il 23 febbraio 1812 un vascello francese si arrese a uno inglese nelle acque di Pirano, mentre il 27 marzo la Guardia nazionale sventò uno sbarco a Rovigno. Il 31 agosto 1812 una fregata britannica catturò nel canale di Leme due navi italiche e una francese. Il 14 novembre gli inglesi, sbarcati tra Pola e Rovigno, furono respinti dalla Guardia nazionale. Lo stesso anno una famiglia di marinai rovignesi seppe resistere al tentativo di cattura inglese. E il 13 febbraio 1813 gli inglesi, sbarcati a Fasana, furono nuovamente ricacciati in mare.

Le sconfitte napoleoniche in Russia e Spagna raffreddarono anche in Istria l’appoggio popolare al regime, fecero crescere il malcontento e diedero ai filo-asburgici il coraggio di rialzare la testa. Con Junot e Fouché, che governarono in successione per pochi mesi nel 1813, l’amministrazione pubblica, a corto di denaro, si dimostrò sempre più insolvente verso funzionari in attività, pensionati o fornitori, producendo disservizi. Il 16 maggio Calafati tornò alla guida della Provincia dimostrando attivismo, efficienza e umanità. Ma intanto gli inglesi erano diventati per mare sempre più audaci e pericolosi, tanto da installare una base sulle isole Brioni. L’8 giugno 1813 saccheggiarono Umago asportandone il naviglio. Una decina di giorni dopo, sbarcati a Fasana, giunsero a Dignano, dove uccisero un chirurgo militare e rapirono funzionari e militi. Il 3 e 4 luglio si impadronirono temporaneamente di Fiume, l’8 bruciarono quattro barche a Muggia, ma il 12 luglio un loro tentativo di sbarco a Pirano fu sventato dalla Guardia nazionale. Il 2 agosto sbarcarono a Rovigno rubando e devastando. La crisi economica, già grave, si accentuò, con conseguenze negative sulle condizioni di vita.

Nel giugno-luglio 1813 Napoleone rifiutò di cedere all’Austria le intere Province illiriche, volendo conservare almeno l’Istria (ritenuta necessaria alla difesa di Venezia), Trieste, Gorizia e Villaco. Ne derivò una nuova coalizione europea anti-francese. Il 13 agosto gli inglesi conquistarono il castello di Cervera presso Parenzo, mentre il 27 agosto gli austriaci occuparono Fiume. Il 2 settembre il capitano Giuseppe Lazarich entrò con un piccolo reparto nell’Istria anticamente asburgica e assoldò un centinaio di contadini croati. Le forze italiche, dalle quali avevano defezionato alcuni croati, pensando si trattasse dell’avanguardia di un grande esercito, si arresero il 4 settembre presso Pisino. I prigionieri vennero sottoposti a maltrattamenti. Dal 5 al 12 settembre gli inglesi furono padroni di Rovigno. La Guardia nazionale di Pinguente si sciolse e la cittadina venne occupata dagli uomini di Lazarich così come Pola. Il 12 settembre anche Capodistria, assediata da terra e dal mare, si arrese.


Il secondo dominio austriaco

Riconquistata l’intera Istria, dal settembre 1813 gli austriaci vi ripristinarono il loro vecchio ordinamento, come se nulla fosse nel frattempo accaduto.
Le Province illiriche furono conservate con la loro suddivisione interna, ma già il 22 settembre 1813 furono cancellate alcune norme amministrative e parte della legislazione napoleonica, ripristinate le istituzioni del 1805 e ridotto il prezzo del sale. Il potere politico fu gestito da una cesarea regia commissione provinciale composta da tre nobili italiani e con sede a Capodistria. L’8 ottobre venne reintrodotta la legislazione fiscale, civile, penale, giudiziaria, ipotecaria e notarile austriaca; furono richiamati in servizio quanti avevano esercitato la funzione di magistrati e notai fino al 1805, ma non tutti aderirono all’invito per non tradire i propri ideali e per non tradire la fedeltà giurata all’imperatore. Furono persino proclamati nulli i matrimoni solo civili. Nel marzo 1814 il tribunale di terza istanza per l’Istria fu spostato da Lubiana a Klagenfurt e fu consentita la vendita del caffè. I bonapartisti furono posti sotto controllo e nell’aprile 1814 i pubblici funzionari appartenenti alla massoneria o ad altre società segrete furono costretti ad allontanarsene e a promettere di non aderirvi più. Il 26 aprile furono diminuiti alcuni dazi. In seguito fu completato il ripristino dell’ordinamento austriaco, escluse però le decime e i quartesi ecclesiastici. Anche i feudi furono riesumati, ma la funzione giudiziaria venne svolta dai tribunali ordinari. La legge tornò a non essere uguale per tutti: nobili ed ecclesiastici venivano infatti giudicati separatamente.

Il 30 maggio 1814 il trattato di Parigi stabilì il passaggio delle Province illiriche, del Veneto e della Lombardia all’Austria e il 23 luglio l’imperatore Francesco I le dichiarò «per sempre incorporate all’Impero». Il commissario aulico plenipotenziario per le Province illiriche stese una nuova costituzione provinciale, in vigore dal 1° novembre 1814, che ripartiva la Provincia dell’Istria nei circoli di Trieste e Fiume. Il primo comprendeva undici distretti (Monfalcone, Duino, Capodistria, Pirano, Buie, Montona, Pinguente, Parenzo, Rovigno, Dignano e Pola), il secondo otto (Pisino, Albona, Bellai, Laurana, Castua, Fiume, Buccari e Cirquenizza). Il 9 giugno 1815 l’atto finale del Congresso di Vienna confermò le decisioni del trattato di Parigi e istituì, al posto del Sacro Romano Impero cessato nel 1806, la Confederazione germanica. Istria, Fiume e Dalmazia rimasero staccate dagli altri possedimenti asburgici d’Italia. Nel 1816 venne creato il Regno d’Illiria, suddiviso in due governatorati: Trieste (Litorale) e Lubiana. Del Litorale fecero parte: il circolo di Trieste, con Aquileia e Sesana; il circolo dell’Istria ex-veneta (senza l’Albonese); il circolo di Fiume, con Veglia, Cherso, Lussino, Castelnuovo e la Croazia Civile (cioè il Gorski Kotar e Karlovac); la contea di Gorizia e Gradisca. I distretti (o commissariati Distrettuali) erano guidati da un commissario. I Comuni da un podestà, affiancati da un cassiere e un cancelliere.

Nel 1818 Trieste e Gorizia vennero segretamente annesse alla Confederazione Germanica; non così il resto del Litorale. Nel 1822 il Circolo di Fiume fu soppresso e la città ritornò quale Corpo separato nel Regno d’Ungheria. La Croazia Civile fu unita al Regno di Croazia e Slavonia (ricostituito nel 1820), mentre Veglia, Cherso, Lussino, i Distretti istriani e quello di Castelnuovo costituirono il circolo di Pisino. Nell’aprile 1825 nacque il circolo dell’Istria, composto inizialmente da 19 distretti: Capodistria, Pirano, Buie, Parenzo, Rovigno, Dignano, Pola, Montona, Pinguente, San Quirico, Pisino, Albona, Bellai, Laurana, Castelnuovo, Castua, Cherso, Lussino e Veglia. In seguito furono ridotti a 17, con la soppressione di quello di San Quirico e l’accorpamento di Laurana e Castua nel Distretto di Volosca. L’Istria fu così interamente riunificata sul piano amministrativo, con l’aggiunta di territori che nei secoli precedenti non ne avevano fatto parte ed erano in maggioranza slavi. I confini provinciali rimasero inalterati fino al 1918.

Il Circolo dell’Istria, la Contea di Gorizia-Gradisca e il Distretto autonomo di Trieste costituirono il Litorale del Regno d’Illiria, con capoluogo Trieste. Del regno facevano parte anche il ducato di Carinzia e quello di Carniola. Capoluogo, più nominale che reale, del circolo dell’Istria fu Pisino, cuore geografico della provincia a prevalenza italiana attorniato da un contado croato. Vi ebbero sede il tribunale criminale di prima istanza e quelli civili per nobili ed ecclesiastici. A Capodistria si trovavano gli uffici finanziari e un altro tribunale aveva sede a Rovigno, mentre il tribunale d’appello era a Klagenfurt. Le isole del Quarnero, molto lontane dai centri decisionali, chiesero più volte invano di tornare sotto la Dalmazia, eretta a regno con capitale Zara.

Il governo del circolo, composto da tecnici nominati a livello centrale, aveva competenze in materia di: 1) giustizia; 2) applicazione della normativa centrale; 3) fisco; 4) scuola, sanità, assistenza, cultura, rapporti con la Chiesa, approvvigionamento alimentare; 5) economia; 6) ordine pubblico; 7) controllo finanziario di distretti e Comuni; 8) reclutamento; 9) vertenze. I distretti erano retti da commissari, che esercitarono un potere amministrativo e nominavano i podestà dei 46 Comuni. Questi, che si suddividevano in 380 sottocomuni, erano essenzialmente unità catastali finalizzate alla riscossione dell’imposta fondiaria. Rimasero feudi, a varia gradazione, ma sempre soggetti al controllo statale: San Giovanni della Corneta, San Lorenzo di Daila, Matterada, Villanova del Quieto, Momiano e Carcase, Piemonte, Castagna, Visinada, Fontane, Sanvincenti, Barbana, Pietra Pelosa, Castel Racizze, San Quirico, Bellai, Castua, Laurana e Bersezio. Tale organizzazione verticistica soppresse completamente le antiche autonomie comunali impedendo qualsiasi forma di partecipazione e di controllo democratico. Il passo indietro rispetto non solo all’epoca napoleonica o a quella veneziana bensì allo stesso primo periodo austriaco fu notevole. Le classi dirigenti locali, per contare e ottenere qualcosa, dovevano ingraziarsi le autorità di nomina statale. Ma il personale amministrativo e i fondi a disposizione erano inadeguati; pertanto sanità, assistenza e scuola funzionavano male e per le opere pubbliche si ricorreva al lavoro obbligatorio dei contadini, sui quali già gravavano pesanti imposte fondiarie.

Al clero, ridotto di numero, migliorato nella formazione culturale e reso strumento del potere politico, spettò l’anagrafe e l’istruzione primaria nella madrelingua. Sorsero così nei villaggi le prime scuole elementari slave e i sacerdoti diventarono i formatori del sentimento nazionale della gioventù, assurgendo di fatto al ruolo di capi e di rappresentanti locali, in assenza di un sistema politico democratico. Tale processo si accelerò con l’introduzione dell’obbligo scolastico elementare.

Per volontà del governo centrale asburgico, che continuava la sua politica giurisdizionalistica di intromissione nella vita interna della Chiesa cattolica, nel 1827 le Diocesi di Pola e Parenzo furono unite, nel 1828 la diocesi di Cittanova fu inglobata in quella di Trieste e nel 1830 lo fu anche la diocesi di Capodistria di Trieste, mentre la diocesi di Pedena lo era stata già nel 1791. Da allora fino al 1919 le unite diocesi di Trieste e Capodistria, che comprendevano tutta l’Istria settentrionale e centrale, ebbero vescovi slavi (solo in un singolo caso austriaci). Inoltre le diocesi istro-quarnerine, così ridotte da sette a tre (Trieste-Capodistria, Parenzo-Pola e Veglia) furono sottoposte alla giurisdizione dell’arcidiocesi metropolitana di Gorizia, retta da prelati slovenofoni. Tutto ciò favorì un rafforzamento della componente slava e della lealtà dinastica nella Chiesa di quell’ampio territorio, nonché il consolidamento del legame fra clero slavo e abitanti delle campagne.

Dopo la stagnazione avvenuta fra il 1804 e il 1817, la popolazione istriana riprese a salire, raggiungendo nel 1820 i 120-125.000 abitanti: 90-95.000 nell’Istria ex-veneta e 20-25.000 in quella restante, senza le isole e la Ciceria. In mezzo non c’erano stati solo sconvolgimenti politici, guerre e crollo delle esportazioni, ma anche un clima rigido, carestie ed epidemie di tifo, che provocarono morti a migliaia. Nel 1821 la città più popolosa restava Rovigno (9.600 unità), seguita da Pirano (6.150), Capodistria (5.120), Dignano (3.500), Isola (2.780) e Gimino (2.560), che superava Pola, Parenzo e Pisino. La popolazione era per l’85% contadina. L’agricoltura era stata fortemente penalizzata nei decenni precedenti, né il governo asburgico aveva reintrodotto quelle confraternite che in epoca veneta avevano costituito un forte paracadute sociale. Ne conseguì, specie lungo la costa, un accentramento della proprietà terriera. I nuovi latifondisti, nobili o borghesi arricchiti, risiedevano nelle cittadine. Negli anni ’20 la coltivazione sempre più intensiva della patata nei magri terreni carsici risolse in parte i problemi alimentari favorendo una graduale crescita demografica.

Nel 1830 il circolo dell’Istria ammontava a 198.000 abitanti, saliti a 215.700 nel 1840: il 17% in più, mentre nello stesso periodo Trieste crebbe del doppio, diventando sempre più una calamita economica e demografica per l’Istria, specie occidentale. Nel 1850 si arrivò a 233.700. Particolarmente significativa nel trentennio 1820-1850 fu l’espansione di Pirano, legata soprattutto alla produzione del sale, alla pesca e alla conservazione del pesce. Quarta città divenne Lussinpiccolo, che dal ’700 aveva conosciuto lo sviluppo della marineria e si era venetizzata con l’apporto di numerosi immigrati. Il settore marittimo si rafforzò anche a Cherso, Capodistria, Rovigno, Veglia e Volosca. A frenare lo sviluppo era però l’inadeguatezza degli approdi portuali.

A comprimere l’aumento della popolazione ci pensò il colera nel 1836-37, 1849 e 1854-55. Un forte limite alla crescita demografica derivava anche dalla scarsa estensione delle aree agricole: appena il 22%, contro il 57% di pascoli e brughiere e il 20% di boschi o prati. Il miglioramento della viabilità favorì i traffici terrestri. I principali mercati di smercio dei prodotti locali erano Trieste per l’Istria nord-occidentale, Fiume per quella orientale e Venezia per quella sud-occidentale: dunque fuori dalla penisola, che mancava di un vero punto di gravitazione interno. Il disboscamento, tollerato, impoveriva le risorse forestali e danneggiava gli equilibri idrogeologici, il fiume Quieto, abbandonato a se stesso, esondava spesso, mentre scarseggiava l’acqua e i sistemi irrigui erano primordiali.
Proseguì la lenta ascesa della borghesia intellettuale, impiegatizia, commerciale e artigianale. Pisino e il suo territorio beneficiarono della nuova centralità politica. La cittadina ebbe un discreto sviluppo impiegatizio, artigianale, commerciale e di addetti ai servizi, potenziando la sua italianità e distinguendosi ancor di più dalla campagna slava. L’italianizzazione linguistica riguardò quanti si inurbavano o, pur restando dov’erano, salivano di grado sociale. I dialetti istro-veneti nel centro-nord dell’Istria e quelli istro-romanzi a sud del Leme e a ovest dell’Arsa erano infatti parlati dai ceti superiori, i quali capivano, leggevano e a volte anche parlavano correttamente l’italiano letterario, lingua ufficiale di tutte le amministrazioni pubbliche accanto al tedesco. Nel ginnasio di Capodistria si insegnava però in tedesco, la lingua dello stato, della corte, della cultura, la lingua che le future classi dirigenti dovevano assolutamente padroneggiare ora che l’impero si era ancor più germanizzato, non essendo più sacro e romano ma austriaco e avendo per giunta la presidenza della Confederazione germanica. Chi voleva una formazione superiore e universitaria in lingua italiana doveva recarsi nel Regno Lombardo-Veneto.

Nel 1842 il ginnasio tedesco di Capodistria fu trasferito a Trieste, divenuta in pratica la capitale culturale della provincia. Gli intellettuali istriani cominciarono a gravitare sempre più su questa città emergente, dove molti diedero il loro contributo alle riviste La Favilla, Archeografo Triestino e L’Istria, valorizzando la storia e la cultura patria. Tra questi Antonio Madonizza, Giovanni Orlandini, Antonio Somma e Antonio Facchinetti. Altri intellettuali memorabili furono Pasquale Besenghi degli Ughi e Carlo de Franceschi. I più laici aderirono alla massoneria e i più consapevoli sul piano politico a circoli segreti carbonari che, richiamandosi all’esperienza napoleonica, propugnavano un’Italia repubblicana o comunque sottratta alla dinastia asburgica. In continuità con l’esperienza napoleonica, durante la restaurazione si sviluppò soprattutto fra la nobiltà e la borghesia il senso dell’identità nazionale.

Ai Congressi degli scienziati italiani, svoltisi dal 1839 al 1847 all’insegna di un marcato patriottismo culturale, parteciparono anche diversi istriani e dalmati aderenti ai valori risorgimentali. Tra questi ricorderemo Bartolomeo Biasoletto, botanico e naturalista dignanese, Vincenzo de Castro, pedagogista e giornalista piranese, Bartolomeo Blasich, sacerdote rovignese, e Giuseppe de Lugnani, matematico e letterato capodistriano. Sulla scia del gusto romantico per le nazionalità e il folclore, alcuni studiosi istriani particolarmente aperti e altruisti come Carlo Combi e Antonio Fachinetti si dedicarono allo studio delle lingue, culture e tradizioni degli slavi del sud, o jugoslavi, ai tempi di Venezia chiamati indistintamente schiavoni e a partire dal 1843 serbo-croati. Ma proprio in quegli anni gli illiristi elaboravano i loro progetti irredentistici per un dominio jugoslavo sull’intero Adriatico orientale in contrapposizione all’elemento italiano. Già prima del 1848 dunque il generoso interesse italiano verso quel mondo si dimostrò mal ripagato. Un intellettuale a cavallo di due mondi fu Pietro Stancovich, canonico della croata Barbana ma membro di accademie e società letterarie italiane, avulso sia dal liberalismo nazionale italiano sia dall’illirismo.

Fra il 1844 e il 1847 il governatore del Litorale Francesco Stadion promosse l’insegnamento scolastico nella madrelingua e potenziò la pubblica amministrazione. Ripristinò inoltre alcuni consigli comunali in via sperimentale: le elezioni, su base censuaria, videro dappertutto la vittoria dei liberal-nazionali italiani, che tornarono così a essere la classe dirigente comunale.
La notizia che il 14 marzo 1848 l’imperatore Ferdinando I d’Austria aveva concesso la costituzione suscitò ampi consensi e speranze in tutta l’Istria e in ogni settore sociale. Ma quando si apprese dell’insurrezione anti-asburgica di Milano e Venezia e della nascita della Repubblica di San Marco l’opinione pubblica si divise tra sostenitori dei moti liberal-nazionali, prevalenti fra gli italiani, e legittimisti, maggioritari fra gli slavi delle campagne. Le coccarde tricolori tornarono a diffondersi. Prima a Pirano e poi anche nelle altre cittadine fu costituita la Guardia nazionale. Il 23 marzo la commissione municipale che teneva provvisoriamente le redini del governo a Venezia lasciò l’esautorato governatore austriaco Pallfy imbarcarsi sulla nave che avrebbe dovuto portare alla base navale di Pola gli ordini della rinata repubblica e che invece portò a Trieste quelli di Vienna. Così l’Austria poté disporre di nove delle sue undici navi da guerra per assediare Venezia. Lo storico francese Henri Martin scrisse che in caso contrario «avrebbe Venezia bloccato Trieste, preso forse Pola e Fiume e sollevato l’Istria e la Dalmazia ove le più ardenti simpatie vibravano per lei». Il vice-console britannico a Fiume riferì il 25 marzo che «l’Istria e le isole di Veglia e di Cherso si sono dichiarate per Venezia», fatto tanto più significativo se si considera che allora Veglia, salvo il capoluogo, era in maggioranza croata, mentre Cherso e Lussino erano divise tra italofoni e slavofoni, sebbene con una netta prevalenza culturale, politica ed economica dei primi.

Tutti i marinai istriani della marina austriaca passarono alla Repubblica di San Marco e la difesero fino alla fine. In tutto novanta volontari istriani aderirono alla Repubblica. Fra loro una decina furono i caduti. Dall’aprile 1848 l’Istria venne presidiata a tal punto dalle truppe austriache che i tentativi di insurrezione erano destinati all’insuccesso. Pertanto diversi patrioti istriani risposero all’appello di Niccolò Tommaseo recandosi a Venezia per combattere, e anche gli intellettuali e universitari istriani residenti in Veneto, Friuli e Lombardia parteciparono ai moti rivoluzionari. Dal maggio al largo delle coste istriane stazionarono navi “sarde”, venete e – fino a giugno – anche napoletane, che tuttavia non tentarono lo sbarco, limitandosi all’assalto del forte di San Bernardino presso Pirano.
In maggio i Consigli comunali istriani rifiutarono di inviare una propria rappresentanza a rendere omaggio all’imperatore. Solo la parte anticamente asburgica dell’Istria elesse un delegato (legittimista) all’assemblea costituente della Confederazione germanica di Francoforte. Il 18-20 giugno l’intero circolo elesse invece i propri rappresentanti all’assemblea costituente degli stati asburgici di Vienna: i liberal-nazionali italiani Michele Facchinetti, Antonio de Madonizza, Carlo de Franceschi e Francesco Vidulich e il croato filo-governativo Giuseppe Vlach. In settembre i quattro italiani si opposero con successo alla proposta di annettere anche l’Istria ex-veneta alla Confederazione germanica, sostenendo che «l’Istria è essenzialmente italiana per lingua, per costumanze, per memorie, per religione, per simpatia, per monumenti e per posizione geografica» e che «fin dal decimo terzo secolo cominciò a dedicarsi volontariamente al Governo italiano della Repubblica veneta». Gli stessi quattro deputati votarono a favore della soppressione dei rapporti di sudditanza signorile dei contadini e di tutti gli altri provvedimenti emancipatori e “progressisti” promossi dalla costituente.

Nel gennaio 1849 il rinnovo dei Consigli comunali su base non più censuaria e con elezione diretta dei podestà decretarono in quasi tutta l’Istria maggioranze plebiscitarie liberal-nazionali. Il governo pose il veto all’elezione dei podestà di Pirano e Pisino, ma le loro rispettive Giunte rimasero ugualmente in carica. Nell’aprile 1849 i consigli comunali protestarono contro la ventilata fusione dell’Istria con la Carniola, riuscendo a scongiurarla. In seguito si opposero all’introduzione del bilinguismo con la motivazione che l’italiano era l’unica lingua scritta compresa da tutti gli istriani, mentre solo il distretto di Castelnuovo era interamente slavo.

Il generale napoletano Guglielmo Pepe, comandante dell’esercito veneto, comunicò a Carlo Alberto il 5 febbraio 1849 di volersi imbarcare «prestamente con dodicimila uomini scelti per occupar Trieste, Pola, Fiume ed altre piazze», e da lì, in caso di insurrezione anti-asburgica, «iniziar corrispondenze con l’Ungheria». Anche i capi della Repubblica Romana pensarono a uno sbarco in Istria o Dalmazia. Ma nulla fu attuato soprattutto a causa della cessazione delle ostilità tra sabaudi e austriaci il 23 marzo 1849.

La costituzione austriaca del 4 marzo 1849 soppresse il Regno d’Illiria ed elevò il Litorale austro-illirico a Provincia immediata della corona con a capo un luogotenente di nomina imperiale con sede a Trieste. Nel maggio 1850 i Comuni istriani vennero ridotti da 357 (catastali) a 130 (amministrativi) e vennero istituiti 11 giudizi distrettuali. Le nuove elezioni comunali dell’autunno 1850 confermarono la vittoria liberal-nazionale. Le deputazioni (giunte) comunali espressero i propri rappresentanti nei capitanati distrettuali di Capodistria, Rovigno, Montona, Pisino, Volosca e Lussino, che a loro volta elessero i propri rappresentanti a livello di circolo, con sede a Pisino. Ma a partire dal 31 dicembre 1851, con la reazione neo-assolutistica, gli organi comunali furono sottoposti a rigido controllo e limitati nella loro autonomia, i capitanati distrettuali soppressi, le competenze del circolo dell’Istria trasferite alla luogotenenza di Trieste, i tribunali distrettuali sostituiti da 16 preture, che divennero uno strumento governativo anche sul piano politico. Fu imposto un regime poliziesco con la censura sulla stampa e sulla corrispondenza, e i patrioti espostisi maggiormente furono perseguitati. L’inclusione dell’Istria nell’area doganale austriaca comportò l’aumento dei prezzi e una forte riduzione degli scambi con Trieste. La popolazione, non solo italiana, reagì negativamente, ma in silenzio.

Dopo gli sfortunati eventi del 1848-49 l’idea nazionale si diffuse anche a livello popolare, specie nella versione repubblicano-garibaldina. Gli anacronistici privilegi concessi alla Chiesa cattolica soprattutto in campo scolastico e matrimoniale dal Concordato del 1855 divisero l’opinione pubblica istriana fra contrari, soprattutto italiani sia pure cattolici, e favorevoli, in primo luogo slavi, la cui classe dirigente era composta da ecclesiastici delle campagne. Nel 1857 divenne per la prima volta vescovo di Parenzo e Pola un croato: mons. Juraj Dobrila. Questo fatto suscitò sorpresa accelerando la spaccatura della società istriana in due componenti, quella italiana e quella slava, che corrispondevano grosso modo alle realtà urbane (non solo costiere) da una parte e a quelle rurali dall’altra.
Aumentò il numero delle scuole elementari e medie, mentre a Pirano e Rovigno sorsero scuole superiori tecniche. L’assistenza sanitaria rimase soddisfacente nell’Istria ex veneta, mentre era solo abbozzata in quella già arciducale. La beneficenza verso i più bisognosi nelle aree rurali mancava quasi del tutto, mentre diversi malati poveri si facevano ricoverare a Trieste. Al riscatto di contadini e pastori, specie dell’Istria già arciducale, dai gravami feudali contribuirono finanziariamente anche i proprietari terrieri italiani che nulla c’entravamo. Questa tassa aggiuntiva di solidarietà si aggiunse a un carico fiscale già eccessivo e alla crisi di agricoltura, pesca, commercio e artigianato. Dal 1857 anche i giovani istriani furono obbligati al servizio militare, il che rappresentò un problema specie nelle campagne.

Dal 1856 la creazione a Pola della base della marina militare austriaca e di un arsenale fortificato attirò nuove attività economiche e un numero crescente di immigrati soprattutto dall’Istria meridionale e da Venezia. La popolazione crebbe tumultuosamente (dai 1.106 abitanti del 1850 ai 58.562 del 1910, più i 16.014 militari). Come già a Trieste e Fiume, accanto alla città vecchia ne nacque una nuova concepita a tavolino e imposta dall’alto, all’avanguardia sul piano economico, sociale, tecnico e culturale. Le autorità tentarono di impiegare militari, funzionari e altri nuovi venuti austriaci e slavi per germanizzare e slavizzare quella che già nel 1880 era la più popolosa e importante città istro-quarnerina, in modo da farne un baluardo anti-italiano dell’impero nell’Adriatico. I residenti italofoni restarono maggioritari, tuttavia l’antico dialetto istrioto parzialmente venetizzato cedette presto il passo all’istro-veneto. Inoltre si acuirono le tensioni fra le principali componenti etniche: italiani da una parte, tedeschi, croati e sloveni dall’altra.

Nel 1859, mentre i militari di leva istriani parteciparono alla Seconda guerra d’indipendenza dalla parte austriaca, alcuni disertori e volontari si batterono da quella franco-piemontese. Vane speranze suscitò la breve occupazione di Lussino attuata dalla flotta alleata con il favore degli isolani. I preliminari di pace di Villafranca (11 luglio) stabilirono fra l’altro una conferenza generale per la nascita della Confederazione Italiana, di cui avrebbe dovuto far parte anche quanto rimaneva del Lombardo-Veneto austriaco. Dall’Istria fu allora rivolta a Vienna la richiesta di poter far parte della futura Italia. Ma l’annessione di Emilia, Romagna e Toscana al Regno di Sardegna, non riconosciuta da Francesco Giuseppe, vanificò l’ipotesi di confederazione. Nel 1860, come l’anno precedente, gli istriani manifestarono i loro sentimenti patriottici con bandiere tricolori e scritte sui muri. In parecchi aderirono alla sottoscrizione del milione di fucili promossa da Garibaldi e alcune giubbe rosse istriane parteciparono all’impresa dei Mille, mentre un Comitato nazionale dell’Istria inviò denaro. I beni dei fuoriusciti e dei disertori vennero sequestrati; a Pola un marinaio venne ucciso per aveva gridato «Viva l’Italia!» e a Pirano un giovane operaio per aver mancato di rispetto a una sentinella; una popolana fu arrestata perché portava un nastro tricolore al petto e un ragazzino per aver guardato con disprezzo due ufficiali asburgici; un operaio venne minacciato con la spada da uomini in divisa, mentre alcuni ragazzi capodistriani furono dispersi dai soldati perché portavano un fanale tricolore. L’arciduca Massimiliano d’Asburgo ammise: «si erge alle coste dell’Istria lo spirito italiano».

Nell’ottobre 1860 una sollevazione dei piranesi contro i funzionari doganali fu repressa con la forza. Poco dopo l’Istria fu nuovamente posta fuori dalla linea doganale austriaca, il che rivitalizzò i commerci in particolare con Trieste. La sconfitta militare e la crisi finanziaria indussero Francesco Giuseppe a ricostituire con il diploma del 20 ottobre 1860 le diete (assemblee) provinciali elettive, dotandole di ampi poteri anche legislativi e del compito di eleggere propri delegati al Reichsrat, il consiglio che avrebbe dovuto rappresentare tutti i popoli dell’impero. Il 26 febbraio 1861 lo stesso Francesco Giuseppe limitò le competenze e la libertà d’azione delle Diete, ma istituì un Consiglio dell’Impero bicamerale con una Camera dei deputati eletta integralmente dalle diete.

Il Margraviato (o Marchesato) d’Istria divenne una delle tre province del Litorale Austro-Illirico (le altre due erano Trieste e Gorizia). L’elettorato fu diviso in quattro curie, ognuna delle quali inviò i propri deputati alla Dieta: i grandi proprietari terrieri 5, le città e i borghi 8, le camere di commercio e artigianato 2, i Comuni foresi (rurali) 12. Deputati di diritto erano i vescovi di Trieste-Capodistria, Parenzo-Pola e Veglia. Solo l’8% della popolazione (su base contributiva) aveva diritto di voto e ad esercitarlo fu il 33% dei “cittadini” e il 23% dei “campagnoli”. I liberal-nazionali ebbero 21 dei 27 eletti, gli slavi 6, ai quali si aggiunsero quali membri di diritto i tre vescovi, slavi pure loro. Il 6 aprile 1861, nella prima seduta a Parenzo, la Dieta indicò quale capitano provinciale il marchese parentino Gian Paolo Polesini, che ottenne il nulla osta dall’imperatore e formò una giunta di soli italiani.

Dopo la proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d’Italia, sia il Comitato Veneto Centrale di Torino sia i liberal-nazionali del Lombardo-Veneto invitarono i deputati provinciali italofoni dell’Impero ad astenersi dall’eleggere propri rappresentanti al parlamento viennese. Così il 10 e il 16 aprile 1861 venti membri della Dieta istriana su ventinove, seguendo l’esempio dei loro colleghi lombardo-veneti, scrissero «Nessuno» sulla scheda per l’elezione dei due deputati da mandare al Consiglio dell’Impero. Polesini dichiarò che l’Istria era «sorta per mano di Dio entro i limiti geografici che accennano alla sua appartenenza». Fu un boomerang: infatti nel maggio il governo centrale sospese la Dieta recalcitrante e il 20 luglio la sciolse convocando nuove elezioni. Il partito liberal-nazionale invitò gli elettori ad astenersi per protesta e i liberali eventualmente eletti a dimettersi. Si ebbe così un’assemblea provinciale “collaborazionista” clerico-conservatrice, anche se in maggioranza italiana; al Consiglio dell’Impero andarono il luogotenente del Litorale e il vescovo croato di Parenzo e Pola. Per controbilanciare tuttavia l’indirizzo politico, il governo confermò in carica, nominò o recuperò nella Dieta, nella giunta e nell’amministrazione provinciale alcuni esponenti liberal-nazionali. Ne sortì un certo riequilibrio.

Lingua ufficiale della Dieta fu solo l’italiano anche nei rapporti coi Comuni, sia perché era l’unica che tutti i deputati provinciali parlassero, sia perché fra gli slavi dell’Istria non c’era accordo su quale alternativa utilizzare: pochi padroneggiavano lo sloveno o il croato letterario, codificati solo di recente, e comunque non volevano che venisse privilegiato l’uno a scapito dell’altro. L’autonomia legislativa della Dieta fu vanificata dal controllo sia preventivo che successivo dell’esecutivo centrale. Per giunta il trasferimento di competenze dal centro alla periferia portò a un’addizionale provinciale sulle imposte dirette. Tuttavia mancavano i soldi per le opere pubbliche e i miglioramenti agricoli, cosicché la condizione delle campagne fu particolarmente difficile fra il 1860 e il 1863 a causa della carestia, mentre i collegamenti stradali rimanevano inadeguati.

Nel margraviato d’Istria furono istituiti i distretti politici di Capodistria, Parenzo, Pisino, Pola, Volosca, Veglia e Lussinpiccolo, retti da un capitano distrettuale. Le elezioni comunali del 1861 diedero quasi ovunque la maggioranza ai liberal-nazionali. Rovigno ebbe uno statuto quale Città al pari di Trieste e Gorizia. Nel 1863 i 360 Comuni censuari furono raggruppati in 50 grandi Comuni podestarili in cui spesso solo il capoluogo era a maggioranza italiana. Negli anni ’60 dell’800 aumentò la diffusione sul territorio delle scuole elementari, crebbero i rapporti fra città e campagna e si diffusero maggiormente i costumi urbani tipicamente italici. Al contempo tuttavia si sviluppò una coscienza nazionale slava che solo lentamente cominciò a differenziarsi in croata o slovena.

Fino al 1866 il governo viennese non riconobbe il Regno d’Italia, considerato rivoluzionario e filo-ungherese, e in previsione di sbarchi garibaldini potenziò le difese costiere in Istria e Dalmazia. Le associazioni e la stampa continuarono a essere sorvegliate in un persistente clima poliziesco. Il giornale liberal-nazionale triestino Il Tempo fu duramente perseguitato e il suo direttore, l’istriano Antonio Antonaz, arrestato.
Nel giugno 1862 ad alcuni esuli istriani, che gli avevano procurato carte idrografiche e geografiche dell’Adriatico orientale assicurandogli che «Istria e Trieste anelano di essere sottratte al giogo straniero», Giuseppe Garibaldi rispose per iscritto di sapere che «l’Istria e Trieste anelano frangere le catene con cui le avvince odiata signoria straniera» e che «affrettano col desiderio il compimento del voto di essere restituite alla madre Italia»; inoltre, «quantunque tristizia di tempi e di uomini sembra voglia impedire il compimento di quel voto», lui avrebbe continuato a sperare e operare per «il completo nazionale riscatto».

Nel dicembre 1864 il primo ministro conservatore La Marmora dichiarò alla Camera che gli ulteriori obiettivi nazionali italiani erano solo Roma e il Lombardo-Veneto, non Trieste e l’Istria. Ciò pose nello sconforto i patrioti e gli esuli istriani, fiumani e dalmati che anelavano all’Italia. Del resto sembrava che l’Austria fosse ormai rassegnata a perdere il Lombardo-Veneto. Diversi Comuni istriani e la Dieta di Parenzo aderirono all’appello del Comune di Firenze per commemorare il sesto centenario della nascita di Dante Alighieri, ma le autorità annullarono le relative delibere e sciolsero il consiglio comunale di Pisino. Le cerimonie dantesche che tanto avevano allarmato polizia e magistratura si tennero comunque nel maggio 1865 in quasi tutta l’Istria. Pochi mesi dopo a Pisino, nonostante le manovre governative per impedirla, le nuove elezioni videro ancora una volta la vittoria liberal-nazionale, ma ai croati delle campagne andarono per la prima volta diversi seggi. Negli ultimi mesi del 1865 venne promossa dal nuovo governo austriaco la conoscenza delle lingue slovena e croata fra i funzionari pubblici delle aree a presenza slava: lo scopo era quello di usare strumentalmente sloveni e croati contro gli italiani dell’impero per indebolirli.

L’8 aprile 1866 il Regno d’Italia firmò un trattato di alleanza con il Regno di Prussia che la impegnava a entrare in guerra al fianco di questa contro l’Austria e a non concludere una pace o armistizio se l’Austria non avesse accettato di cedere all’Italia il Lombardo-Veneto e alla Prussia territori austriaci equivalenti per popolazione. Così, dopo che la Prussia il 26 luglio firmò un armistizio con l’Austria in cambio della cessione del Lombardo-Veneto alla Francia e da questa all’Italia, il governo Ricasoli, nonostante gli appelli degli esuli istriani e triestini, fermò con l’armistizio dell’11 agosto l’avanzata delle truppe regolari verso Gorizia proprio mentre gli austriaci stavano per ritirarsi a est dell’Isonzo. Poco prima dello scoppio della Terza guerra d’indipendenza le amministrazioni comunali di Capodistria e Pirano furono sciolte perché guidate da persone ritenute ostili all’Austria e durante le ostilità gli istriani più sospetti furono sottoposti a controllo. Altri ripararono in Italia e alcuni fra questi si arruolarono nell’esercito regolare o nelle file garibaldine. Ma le loro speranze di partecipare alla liberazione della propria terra furono gelate. La minacciosa base navale di Pola funse da deterrente verso la flotta italiana, che infatti non attaccò quella austriaca nell’Adriatico settentrionale.

Il trattato di pace fra Italia e Austria firmato il 3 ottobre 1866 a Vienna ripristinò le relazioni diplomatiche fra i due paesi interrotte da sette anni e ratificò la cessione del solo Lombardo-Veneto residuo, da confermare però tramite plebiscito. Anche alcuni istriani si recarono a Venezia per partecipare ai festeggiamenti per l’annessione in presenza di Vittorio Emanuele II. Ma da allora il Regno d’Italia, ritenendosi soddisfatto di quanto ottenuto, rinunciò a rivendicare tutti gli altri territori italofoni in mani asburgiche che Matteo Renato Imbriani definì irredenti: Trentino, Isontino, Trieste, Istria, Fiume e Dalmazia.

Nell’ottobre 1866 il rinnovo dei Consigli comunali di Capodistria e Pirano vide il trionfo dei liberal-nazionali, nonostante gli sforzi governativi di far prevalere l’ala più moderata. L’8 novembre 1866 si svolse a Trieste la prima violenta manifestazione anti-italiana dell’intero Adriatico orientale: ad animarla furono sloveni del circondario, fra i quali diversi appartenenti alla milizia territoriale. A Pola vi fu un più debole tentativo di scagliarsi contro gli operai provenienti dal Regno d’Italia, che si volevano rispedire a casa ora che erano diventati stranieri. A Castua, nell’estremo nord-est, sorse la prima sala di lettura croata. Nel dicembre 1866 il premier asburgico Riccardo Belcredi, che già durante la guerra aveva favorito sloveni e croati, delineò ufficialmente la politica, adottata poco dopo dal suo governo, di contenimento degli italofoni mediante il rafforzamento dei loro competitori nazionali slavi: la Dieta istriana avrebbe dovuto finanziare la nascita di nuove scuole slave, rafforzare il ginnasio tedesco di Pisino e trasferire in quella città le classi superiori del ginnasio italiano di Capodistria e le scuole reali. Intanto, con il passaggio del Lombardo-Veneto all’Italia, non esisteva più alcuna università italiana in territorio asburgico e i giovani erano costretti a frequentare quelle di lingua tedesca a Graz, Vienna o Innsbruck, se non volevano espatriare. Nel 1868 la legge Cairoli pareggiò nell’esercizio dei diritti civili e politici ai cittadini dello stato «tutti gli italiani delle province che non fanno ancor parte del Regno d’Italia», ma per gli irredentisti fu una magra consolazione.
Le elezioni del febbraio 1867 per il rinnovo della Dieta istriana diedero ai liberal-nazionali una maggioranza non plebiscitaria. Al Consiglio dell’Impero furono inviati due liberal-nazionali, mentre la giunta fu composta da italiani sia liberal-nazionali che filo-dinastici. Belcredi si dimise il 7 febbraio 1867 e i governi successivi virarono decisamente in senso liberale, conciliativo e laico. Il 6 agosto il ministro degli Interni stabilì che anche nel Litorale l’amministrazione pubblica rispondesse in sloveno ai cittadini che le si rivolgessero in quella lingua. Nell’anno scolastico 1868-69 il tedesco fu soppresso come lingua di insegnamento nelle scuole elementari dell’Istria. Prese dunque sempre più piede lo sloveno e il croato.

Il compromesso del 1867 incluse il Litorale austro-illirico e, dopo qualche tempo, anche il Regno di Dalmazia nella Cisleithania, ovvero la parte austriaca di quell’impero dualistico che da allora si chiamò austro-ungarico. Fiume fu invece annessa alla Transleithania, ovvero la parte ungherese, quale corpo separato. Le leggi fondamentali del dicembre 1867 fecero della Cisleithania una monarchia costituzionale di stampo liberale in cui tutte le nazionalità e le lingue erano poste su un piano paritario. Le preture (o distretti misti) furono soppresse e al loro posto sorsero i capitanati distrettuali, con compiti amministrativi, e i distretti giudiziari.

La nuova legislazione che tolse alla Chiesa cattolica alcuni privilegi soprattutto in campo scolastico e matrimoniale fu accolta con favore dalla maggior parte degli italiani dell’Istria, che erano cattolici sì ma moderati e intrisi ormai (sacerdoti compresi) di cultura liberal-risorgimentale, e dunque non ostili alla fine dell’ormai anacronistico Stato pontificio. Al contrario sloveni e croati delle campagne si legarono ancor di più al loro clero; in tal modo si rafforzò un partito nazional-clericale slavo che, con l’appoggio delle componenti filo-asburgiche più retrive, iniziò una campagna contro gli italiani delle città e dei borghi, giudicati atei, depravati e, a Trieste e Fiume, pure collusi con gli ebrei. I vertici ecclesiastici istriani erano tutti slavi convinti e ciò ne rendeva difficile il rapporto con i fedeli italiani. Nel 1868-69 il vescovo di Veglia si oppose duramente all’applicazione delle norme che ridimensionavano il ruolo della Chiesa nelle scuole elementari, mentre il vescovo di Parenzo-Pola trovò alla fine un accordo e quello di Trieste-Capodistria fu da subito più cauto. Nel 1869 32 Comuni chiesero la nascita di un ginnasio croato a Pisino per la formazione degli insegnanti elementari che dovevano sostituire i sacerdoti. Nel 1870 iniziò le pubblicazioni la rivista “Naša sloga”, che in lingua croata invitava all’unità gli slavi dell’Istria.

Il 10 aprile 1870 un gruppo di paolani di Capodistria, ovvero di contadini italiani residenti in città, assalirono alcuni giovani considerati antipapisti. Questo episodio, rimasto senza conseguenze, si inquadrò nel fallito tentativo di far nascere un partito clericale italiano. A Dignano alcuni fedeli, spinti da un giovane sacerdote rovignese, si scagliarono contro dei giovani liberali accusati di mancare di rispetto alle cerimonie religiose della settimana santa.
Nella parte slovena dell’Istria non furono pochi in quegli anni i sacerdoti originari della Carniola. Costoro contribuirono a diffondere l’idea, nata nel 1848 e ripresa nel 1861, di una grande Slovenia asburgica comprendente anche buona parte del Litorale. Alla base di tale rivendicazione cominciò ad affermarsi il delirante mito secondo cui erano gli sloveni gli abitanti originari di quelle terre, discendenti degli illiri e parenti dei veneti, mentre gli italiani erano gli eredi dei conquistatori e sfruttatori romani e veneziani. Le campagne, rimaste etnicamente e religiosamente pure, avrebbero dovuto conquistare le città corrotte. L’8 agosto 1870 si tenne con scarso successo a Covedo, nell’entroterra capodistriano, il primo Tabor dell’Istria slovena. In questa assemblea popolare all’aperto un avvocato goriziano esortò le ragazze a frequentare solo ragazzi sloveni, un prete carniolino già deputato dietale affermò che quella terra era slovena «perché gli abitanti originari dell’Istria erano slavi». Altri oratori rivendicarono il diritto all’istruzione e alla corrispondenza con le autorità nella propria madrelingua. Ma gli abitanti della zona non apprezzarono quei toni sciovinisti, ai quali non erano abituati dopo secoli di pacifica convivenza con gli italiani. Nel 1871 si tenne invece con maggior successo a Castua il primo Tabor croato.

Il rinnovo della Dieta nel 1870 vide la netta vittoria dei liberal-nazionali, mentre nei collegi rurali, salvo quello quarnerino, gli slavi moderati prevalsero sui nazionalisti. Non venne eletto il parroco di Bersezio, noto per aver distrutto le lapidi romane di Rozzo. A Vienna andarono due esponenti liberal-nazionali.
La presa di Roma del 20 settembre 1870, cui partecipò anche un ufficiale capodistriano, e la fine dello Stato pontificio vennero salutate favorevolmente da molti italiani d’Istria in quanto tappa ulteriore verso l’unità, ma favorirono il convergere dei due “partiti” anti-italiani: quello nazional-clericale sloveno e croato e quello conservatore filo-asburgico. Per entrambi gli italiani erano la longa manus di uno Stato rivoluzionario massonico che aveva detronizzato il papa, che umiliava la Chiesa e che, dopo aver sottratto ampi territori all’impero, continuava a minacciarlo. In realtà la breccia di Porta Pia segnò la fine della politica risorgimentale del Regno d’Italia e l’inizio di un suo riavvicinamento all’Austria-Ungheria, dove il ruolo della Chiesa era appena stato fortemente ridimensionato.
I liberal-nazionali istriani, “scaricati” dalla Destra storica, si rassegnarono al nuovo stato di cose ammorbidendo ulteriormente la loro linea: l’annessione al regno era ormai accantonata e la collaborazione sia con le autorità asburgiche sia con i liberali di altre nazionalità fu ritenuta necessaria per tutelare i diritti linguistici, ottenere più fondi per le opere pubbliche e conquistare una maggiore autonomia provinciale. La delusione per il ripudio compiuto dalla madrepatria portò a una caduta di tensione ideale nella classe dirigente istro-italiana, dove prevalse una linea moderata, autonomista e patriottica, ma legittimista. La minoranza irredentista era invece radicata soprattutto fra i giovani e nella sinistra laico-democratica. Solo a ridosso della prima guerra mondiale cominciò a formarsi un irredentismo nazionalista e conservatore. Il tentativo di creare un partito cattolico italiano austriacante riuscì, ma tardivamente.

Nel 1873, alle prime elezioni curiali a suffragio diretto maschile (grandi proprietari terrieri, città e camere di commercio, Comuni rurali) per il Consiglio dell’Impero, gli italiani ottennero tre dei quattro deputati spettanti all’Istria, mentre un croato la spuntò nei Comuni rurali dei distretti di Castelnuovo, Castua e delle isole. Nel 1875 nacque l’associazione politica slovena Edinost (Unità). Alle elezioni dietali del 1876 sloveni e croati uniti ebbero solo quattro dei ventisette eletti, per il resto italiani. Nel 1879 le nuove elezioni curiali per il Consiglio dell’Impero ebbero lo stesso esito di sei anni prima: tre italiani e un croato.

Nel 1877 cerimonie patriottiche si svolsero in ricordo della battaglia combattuta davanti a Salvore nel 1177 contro la flotta del Sacro Romano Impero. Sempre nel 1877 il deputato istriano al Consiglio dell’Impero Francesco Sbisà denunciò la slavizzazione di nomi e cognomi italiani compiuta soprattutto nelle isole quarnerine dai sacerdoti slavi che tenevano i registri dello stato civile.

Nel 1878 la chiamata alle armi per la repressione del movimento insurrezionale nei protettorati asburgici della Bosnia-Erzegovina e di Novi Pazar, istituiti dal Congresso di Berlino con il consenso del governo Cairoli, indusse diversi giovani istriani, triestini e trentini ad accogliere l’appello del Comitato per le Alpi Giulie e di Garibaldi, e dunque a  disertare rifugiandosi in Italia, dove già dimoravano alcuni esuli. Ma il governo italiano intimò agli irredenti dell’impero di non tenere manifestazioni di protesta per non turbare i buoni rapporti tra il regno e l’Austria-Ungheria.
Nel settembre 1882 ad accompagnare il triestino Guglielmo Oberdan nel viaggio da Roma a Ronchi fu l’irredentista buiese Donato Ragosa, che avrebbe dovuto fomentare iniziative insurrezionali in Istria, ma poi vi rinunciò quando seppe dell’arresto del compagno. I due, dopo la morte di Garibaldi, avevano deciso di immolarsi per contrastare l’intesa italo-asburgica che stava schiacciando le aspirazioni degli irredenti a far parte della patria comune. Rientrato fortunosamente nel regno, Ragosa fu poi perseguito dalla giustizia italiana per aver concorso al fallito tentativo del suo compagno d’esilio Guglielmo Oberdan. E con lui anche altri irredentisti istriani rifugiatisi in Italia ebbero vita dura a causa dell’abbraccio tra Roma e Vienna. Il 20 maggio 1882 re Umberto I aveva infatti segretamente stipulato con Austria-Ungheria e Germania quella Triplice alleanza che cementò l’intesa politico-militare fra i tre monarchi a puntello delle rispettive dinastie senza garantire alcuna tutela agli italiani dell’impero asburgico. Prova ne fu che il sistematico smantellamento dell’italianità in Dalmazia, iniziato dopo il 1866, non venne interrotto, anzi. I governi italiani non difesero politicamente né aiutarono finanziariamente i propri connazionali irredenti, molti dei quali si sentirono ripudiati da quella che avrebbe dovuto essere la madrepatria.

Anche alle elezioni dietali del 1883 i nazionali slavi ottennero solo 4 deputati, tutti di Castua. La novità fu che uno di questi tentò di fare il suo primo intervento in croato. Nel 1884 si costituirono a Pisino un partito liberal-nazionale italiano e autonomista, la Società politica istriana, e a Parenzo la Società istriana di archeologia e storia patria, che diede inizio ai suoi annuali Atti e memorie. Fiorivano intanto a livello locale associazioni, giornali e cori. Tra fine ’800 e inizio ’900 importanti scoperte archeologiche di epoca preromana e romana in Istria alimentarono, insieme agli studi storici, la consapevolezza di essere parte di un popolo autoctono su quel territorio da millenni ed erede di una grande civiltà.

Nel 1885 si formarono in Istria i primi gruppi aderenti alla Pro Patria, associazione sorta a Trento con lo scopo di promuovere e raggruppare in un’ottica di autodifesa nazionale le varie attività scolastiche, culturali, ricreative e sportive degli italiani di tutto l’impero. Il suo motto era: «Uniti e forti». La principale richiesta avanzata al governo austriaco fin dal 1886 fu la creazione di un’università italiana a Trieste. La Pro Patria, sottoposta a rigido controllo e ostacolata in vario modo, già nel 1890 fu pretestuosamente sciolta perché «sleale e antipatriottica», cioè irredentista. Nel 1891 le subentrò con gli stessi propositi la Lega Nazionale, che subito raccolse numerosi aderenti, con gruppi locali in ogni Comune istriano e anche in località minori dove vi fosse una presenza italiana. L’associazione istituì o sovvenzionò scuole (anche professionali), giardini d’infanzia e ricreatori, sopperendo alle carenze dell’offerta scolastica pubblica garantita con le scarse risorse di Provincia e Comuni. Inoltre assegnò borse di studio e organizzò feste e manifestazioni sportive, ricreative e artistico-culturali che diventavano momenti di promozione della coscienza nazionale. Le autorità asburgiche le frapposero numerosi ostacoli, ma la Lega Nazionale, finanziata segretamente dal governo italiano, riuscì a resistere per 24 anni fino al giugno 1915, quando fu sciolta dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria.

Un’opera analoga sul fronte slavo la svolse l’associazione “Santi Cirillo e Metodio”, che, forte anche dei contributi statali in quanto naturale antagonista dell’irredentismo italiano, nel 1889 aprì una scuola croata ad Abbazia, un’altra nei primi anni ’90 a Pisino, nonché sale di lettura e tipografie. Nel 1886 a Castua, capoluogo morale dell’Istria croata, era stata eretta una Casa nazionale (Narodni dom). In quegli anni sorsero fra gli slavi società coristiche, ginniche, filo-drammatiche e musicali.

Nel 1886 il Comune di Pisino e nel 1887 quello di Pinguente furono conquistati dal partito nazionale slavo, forte dei voti croati delle campagne. Crebbe in tal modo la pressione snazionalizzatrice sui quei due antichi centri urbani, “isole italiane in un arcipelago slavo”. Lo stesso partito assunse il controllo di Comuni rurali dell’Istria nord-orientale e delle isole. Nel 1888 il ministro della Giustizia sancì l’uso obbligatorio dello sloveno e del croato nei tribunali del Litorale accanto all’italiano o al tedesco.

Nel 1889 furono 9 su 27 gli eletti croati nella Dieta, che ebbe per la prima volta un vice-presidente di quella nazionalità. Nel 1891 il risultato delle elezioni per il Consiglio dell’Impero fu paritario: 2 italiani e 2 croati. Tuttavia in parlamento i croati dell’Istria non fecero gruppo comune né con quelli della Dalmazia né con gli sloveni. Inoltre gli sloveni continuavano a non avere rappresentanza e si sentivano minacciati dal Partito del diritto croato, che li considerava croati alpini e li voleva inglobare in una futura grande Croazia. Negli anni ’90 prima fra gli italiani, poi fra gli sloveni e infine anche fra i croati cominciò a diffondersi il movimento cristiano-sociale. Nell’area quarnerina contribuì a infrangere l’unità politica slava anche un movimento patriottico istriano che puntava sulla specificità provinciale e su un’alleanza fra italiani e slavi in chiave autonomistica e pacificatoria.

Nel 1894 l’affissione forzata di tabelle bilingui (italiano-sloveno) sul locale palazzo di giustizia provocò una rivolta a Pirano. Un analogo tentativo di installare l’insegna a Rovigno fallì. In seguito non furono affisse nuove tabelle bilingui nel resto dell’Istria, ma quella di Pirano rimase al suo posto, protetta dai militari.
Nel 1896 i neo-eletti deputati dietali del partito nazionale slavo giurarono in croato, venendo poi aggrediti dalla popolazione parentina che li considerò dei provocatori. Nel 1897 alcune migliaia di contadini croati calarono su Parenzo in difesa dei propri candidati alle elezioni per il Consiglio dell’Impero. Dalle urne uscì una rinnovata affermazione italiana. In quello stesso anno sorse a Pola il primo circolo istriano del Partito socialdemocratico italiano, che voleva riunire lavoratori sia italiani che croati, in quanto la lotta di classe non doveva conoscere né distinzioni né ostacoli nazionali. E proprio a Pola, considerata più sicura sul piano della fedeltà alla corona, le autorità asburgiche pensarono di spostare la sede della Dieta istriana, ma i tumulti che scoppiarono contro i deputati dietali croati le indussero nel 1899 a optare per Capodistria. Lì i deputati croati disertarono le sedute per protesta e ciò contribuì al deterioramento della situazione. I tentativi di conciliazione del 1900, 1902 e 1905 fra i due schieramenti nazionali si rivelarono vani: la radicalizzazione dello scontro sembrava senza via d’uscita. Intanto nel 1898 era nato a Pisino il primo ginnasio croato dell’Istria. L’anno successivo però nella stessa città sorse il ginnasio italiano Gian Rinaldo Carli: il secondo nella provincia dopo quello capodistriano.

Le elezioni del 1907 per il Consiglio dell’Impero, le prime con suffragio universale maschile, sancirono un pareggio (3 a 3) fra italiani e slavi, ma solo grazie all’accordo dei liberal-nazionali con i popolari e i socialdemocratici. Nel 1908 le elezioni per il rinnovo della Dieta, anch’esse per la prima volta a suffragio universale maschile, furono vinte dai liberal-nazionali con 24 seggi contro i 18 dei croato-sloveni su 47 complessivi. Dopo un rasserenamento del clima politico, nel 1909 fu eletto vice-capitano provinciale un croato. I due principali partiti raggiunsero un accordo sul rinvio delle elezioni comunali fintantoché non avessero varato assieme una legge sul riordino dei Comuni. I liberal-nazionali volevano una suddivisione su base etnica, in modo che la fascia costiera occidentale rimanesse sotto controllo italiano e i borghi italiani dell’interno fossero autonomi dal contado slavo, nel rispetto dei diritti nazionali di tutti. I croato-sloveni chiedevano invece il bilinguismo generalizzato.

Nel 1910 un ulteriore motivo di scontro tra le due componenti etnico-politiche fu la Prima esposizione istriana, svoltasi con successo a Capodistria ma boicottata da croati e sloveni. Il partito liberal-nazionale convocò la Dieta senza l’accordo degli slavi. Ne seguirono tafferugli in aula, le trattative furono interrotte e da allora l’assemblea non fu più riunita, con contraccolpi negativi sulle già tese relazioni etnico-politiche nella Provincia.
Nel 1911 fu tuttavia raggiunto a Vienna un accordo fra le due controparti sulle scuole croate e slovene della provincia. Le successive elezioni parlamentari decretarono la vittoria dei quattro partiti italiani (liberal-nazionale, socialdemocratico, cristiano-sociale e democratico) e un arretramento di quello croato-sloveno. Ripresero allora le trattative sul riordino amministrativo, ma i liberal-nazionali respinsero l’introduzione del bilinguismo in ambito giudiziario, la spartizione della cariche politiche su base etnica e l’aumento dei finanziamenti alle attività scolastiche e culturali croato-slovene. Le vicende esterne, con la conquista italiana di Libia e Dodecaneso e la vittoria serba nelle guerre balcaniche, contribuirono alla sospensione delle trattative, riprese solo nel 1913. Le elezioni dietali del giugno-luglio 1914, a suffragio universale maschile ma sempre con il sistema curiale, diedero 23 seggi ai liberal-nazionali e 19 agli slavi. Furono le ultime, perché poco dopo scoppiò la Prima guerra mondiale.

Tra la seconda metà dell’800 e il 1914 la società istriana si disarticolò e riorganizzò al suo interno essenzialmente in chiave nazionale, perdendo in tal modo il senso dell’appartenenza a un territorio comune. L’Istria divenne una terra di confine, dove ogni componente si batteva per la propria sopravvivenza, magari a scapito dell’altra. La dimensione locale e tradizionale si stemperò soprattutto nei centri maggiori in direzione della modernità, con i suoi pregi e difetti. Maggiormente conservatrici rimasero invece le aree rurali slave.

La popolazione, non più falcidiata da guerre e pestilenze, crebbe progressivamente come mai in passato. Il balzo più significativo avvenne fra il 1900 e il 1910, quando si passò dai 345.050 ai 404.300 abitanti soprattutto per l’afflusso di immigrati slavi, tedeschi e stranieri. Dal 1880 i censimenti, basati sulla lingua parlata o d’uso, rilevarono a livello provinciale una costante maggioranza relativa croata, seguita a breve distanza dalla componente italiana; meno numerosi sloveni e tedeschi. La maggioranza assoluta fu sempre slava. Fra il 1900 e il 1910 gli italiani crebbero meno che nel decennio precedente, mentre croati, sloveni e tedeschi salirono di molto. La fascia costiera occidentale restò sempre quasi interamente italiana, mentre la parte nord-orientale quasi del tutto slovena o croata. Invece nel resto della penisola, a Cherso e Lussino la situazione era assai varia, frammentata e a volte contraddittoria, con località dove da un censimento all’altro le maggioranze si ribaltavano. Comunque gli italofoni rimasero prevalenti nelle cittadine e nei borghi, gli slavofoni nelle campagne. I censimenti non consideravano però il fatto che fra gli slavi il bilinguismo era la regola, a differenza che fra gli italiani. L’unico Comune del tutto privo di slavofoni fu sia nel 1900 che nel 1910 Cittanova. Una borghesia croata cominciò a prender forma solo a Pola e Pisino. Nelle altre realtà urbane gli immigrati slavi tendevano invece ad assimilarsi. Peraltro una sempre più consistente emigrazione italiana dall’Istria si diresse verso Trieste, la vera capitale economico-culturale della provincia accomunata dallo stesso dialetto veneto.

L’agricoltura rimase l’attività principale, con i maggiori proprietari concentrati nei centri urbani e dunque di lingua italiana, mentre braccianti, coloni e fittavoli erano perlopiù slavi. Fra il 1850 e il 1880 si verificò una frammentazione della proprietà terriera con indebitamento dei piccoli proprietari e dei non proprietari e ricorso all’usura. Solo la nascita di casse rurali slave e cooperative agricole e l’intervento di agronomi di lingua croata o slovena favorirono l’emancipazione economico-nazionale dei contadini slavi. Dopo il 1860 sorse a Pola, Rovigno e Isola la piccola industria per l’inscatolamento del pesce (famose divennero le affermate ditte “Ampelea” e “Arrigoni”) e a Rovigno nel 1872 la fabbrica tabacchi, con il conseguente sviluppo di un ceto operaio in quelle località marittime. Soprattutto a Pola prese corpo la cantieristica, a Lussino e Volosca la navigazione. Nella miniera di carbone dell’Arsa lavoravano centinaia di minatori, ma lungo la costa sud-occidentale vi erano anche cave di pietra da costruzione. Nel 1876 entrò in funzione la ferrovia Trieste-Pisino-Rovigno-Pola e nel 1902 la Trieste-Capodistria-Isola-Buie-Montona-Parenzo; entrambe avvicinarono le località interne alle principali città costiere, fulcro di commerci, pesca e artigianato, oltre che della pubblica amministrazione e delle attività sanitarie, scolastiche, legali e culturali. Tra la fine del ’700 e l’800 le principali cittadine si estesero al di fuori delle mura, dove nacquero periferie dall’impianto urbanistico razionalista. Agli inizi del ’900 ad Abbazia, Portorose e sulle isole Brioni si affermò un moderno turismo elitario.

Il 26 luglio 1914 il Governo istituì la censura preventiva sulla stampa con un’ordinanza che sospendeva da subito la pubblicazione di tutti i periodici istriani, salvo quelli di Pola. Lo stesso giorno tutti gli istriani abili furono richiamati alle armi e pochi giorni dopo, allo scoppio delle ostilità, mandati a combattere sul fronte russo. Pola fu proclamata piazzaforte. Dall’8 agosto vennero invitati a lasciare la città i familiari di ufficiali e impiegati della marina militare e le persone sprovviste di mezzi di sostentamento. Già entro la fine di agosto lo fecero in 26.000 su 58.500: quasi la metà della popolazione. Su treni organizzati raggiunsero perlopiù altre località istriane, Trieste, Monfalcone e Aquileia. Quanti fra loro non potevano bastare a se stessi vennero assistiti dai Comuni che li accolsero, ma non dallo stato, in quanto l’evacuazione non era stata formalmente obbligatoria. Pertanto la maggior parte dei profughi, avendo perso con il lavoro la propria fonte di reddito e intaccato i propri risparmi, tornò a Pola, dove erano invece rimasti tutti coloro che risultavano necessari al mantenimento e alla difesa della piazzaforte. Anche Lussinpiccolo fu dichiarata porto di guerra e sottoposta alle conseguenti restrizioni. Inizialmente furono imprigionati, confinati o internati 305 croati e sloveni dell’Istria (in particolare di Pola) e del Goriziano tacciati di spionaggio e complicità con i serbi, che le autorità asburgiche consideravano responsabili della guerra. Tuttavia la maggioranza della popolazione croata e slovena dell’Istria, per la sua natura cattolico-conservatrice, si mantenne fedele alla corona asburgica fino alla fine.

Dall’agosto 1914 tutte gli organi elettivi locali furono esautorati e le amministrazioni assegnate a luogotenenti governativi. La classe dirigente liberal-nazionale perdette in tal modo quasi tutto il suo potere.
Nelle trattative segrete con Roma per far rimanere l’Italia fuori dalla guerra il governo austro-ungarico non promise mai l’Istria, né il governo italiano la rivendicò. Appena l’11 aprile 1915, in cambio della neutralità, il governo Salandra chiese a quello di Vienna, insieme alla cessione del Trentino, dell’Alto Adige meridionale, della Contea di Gorizia e Gradisca, della conca di Tarvisio e di alcune isole dalmate, la creazione di uno Stato indipendente di Trieste che avrebbe ricompreso anche la circoscrizione giudiziaria di Capodistria e Pirano, che si incuneava all’interno dell’Istria settentrionale fino a Pinguente e includeva l’intero golfo di Pirano fino a Salvore. Invece con il Patto di Londra firmato segretamente il 26 aprile 1915 le potenze dell’Intesa (Regno Unito, Francia e Russia) promisero all’Italia il Litorale austro-illirico (esteso al “confine naturale” delle Alpi Carsiche ma senza Veglia), il Trentino, l’Alto Adige e parte della Dalmazia in cambio di un impegno militare diretto. La denuncia italiana della Triplice alleanza (3 maggio 1915) e più ancora l’entrata nel conflitto a fianco dell’Intesa (24 maggio 1915) rese gli italiani dell’Austria-Ungheria potenziali quinte colonne del nemico.

Ufficialmente per garantire la sicurezza alla piazzaforte militare di Pola, ma in effetti nel timore di uno sbarco italiano, già il 23 aprile la popolazione dell’area a sud della linea Barbariga-Dignano-Altura fu allertata. Nella notte fra il 17 e il 18 maggio 1915 le autorità asburgiche affissero i bandi di evacuazione. Il 23 maggio l’ordine venne esteso anche alla parte settentrionale del Distretto di Pola fino alla linea Rovigno-Canfanaro-Barbana. In tutto 50-60.000 istriani (fra cui 27.000 polesi) dovettero così lasciare subito le proprie case, potendo portare con sé solo pochi effetti personali. Erano in maggioranza donne, anziani, bambini e “sospetti”, visto che quasi tutti gli uomini si trovavano al fronte. Partirono anche l’80-85% dei contadini, costretti a vendere animali e foraggi al comando del porto di Pola. I viaggi avvennero dalla stazione ferroviaria cittadina su treni da 35 vagoni bestiame «per 6 cavalli o 40 uomini». Destinazione: il campo di smistamento di Wagna, in Stiria. Da lì gli istriani, suddivisi per caratteristiche etniche e/o politiche (italiani, slavi, “sospetti”), furono internati perlopiù in altri campi di raccolta ungheresi, austriaci o moravi, dove sopravvissero in condizioni penose con un magro sussidio governativo. Molte famiglie vennero divise. Numerosi furono i decessi, specie fra i bambini, per malattie, epidemie, freddo, malnutrizione, carenze igieniche o cure inadeguate. Molti, avendo esaurito i risparmi, si adattarono ai lavori offerti loro. Quanti se lo potevano permettere cercarono sistemazioni più sicure e dignitose. Nonostante i divieti, un certo numero di sfollati riuscì a trovare alloggio in altre località istriane, nonché a Trieste e Fiume.

Nel febbraio-luglio 1916 tornarono a casa circa 7.000 internati, perlopiù di Sanvincenti, Barbana e Canfanaro, ma anche di Valle e Rovigno. Nel novembre 1917 altri vallesi e rovignesi. Nel 1918 alcune migliaia di contadini delle campagne intorno a Pola. Il quadro che trovarono fu desolante: furti, danni, saccheggi, degrado, campi abbandonati. A Pola il rientro avvenne a partire dal novembre 1918, dopo l’arrivo delle truppe italiane. Ma appena nel febbraio 1919 tutti i restanti sopravvissuti poterono rimpatriare su disposizione delle nuove autorità.
Furono fra i 405 e i 521 gli istriani internati poiché ritenuti politicamente infidi in quanto irredentisti, liberal-nazionali, radicali, repubblicani, garibaldini, anarchici oppure spie, sabotatori o prostituite. Nella primavera del 1917 poterono quasi tutti lasciare i campi di concentramento austriaci: alcuni vennero confinati, altri trovarono una sistemazione fuori dal Litorale e, dopo Caporetto, almeno in parte rimpatriarono. Dopo la pace separata di Austria-Ungheria e Germania con i sovietici (3 marzo 1918), anche i prigionieri istriani dell’esercito asburgico in mani russe poterono far ritorno a casa, benché non sempre in modo immediato o agevole.

Allo scoppio della guerra tra Italia e Austria-Ungheria i cittadini regnicoli residenti in Istria – come pure negli altri territori asburgici – che non erano già rientrati in Italia furono forzatamente rimpatriati (donne, anziani e minori) oppure (se maschi fra i 18 e i 50 anni) internati o confinati. Ma prima del divampare del conflitto un numero imprecisato di istriani (forse alcune migliaia) si rifugiarono in Italia facendo una precisa scelta di campo ed evitando così l’arresto, l’invio al fronte e/o la deportazione. Di questi fuoriusciti furono diversi i politici e 410 gli istriani che, disertando dall’esercito asburgico, si arruolarono come volontari nel regio esercito per redimere la loro terra. Diverse decine fra questi caddero in combattimento e vennero poi decorati. Il volontario pisinese Fabio Filzi, catturato dagli austriaci insieme a Cesare Battisti, fu impiccato a Trento il 12 luglio 1916. Il capodistriano irredento Nazario Sauro fu invece catturato durante una spedizione navale e impiccato a Pola il 10 agosto 1916.
Dal maggio 1915 al novembre 1917 l’Istria rappresentò per l’esercito asburgico una retrovia del fronte, dove non si verificarono atti bellici nemmeno navali. Pola tuttavia subì qualche attacco aereo italiano. L’abbandono delle campagne della Polesana rese ancora più acuto il problema degli approvvigionamenti alimentari. La carestia si accentuò con la siccità dell’estate 1917 e il freddo dell’inverno successivo. I traffici marittimi e la pesca furono azzerati e l’intera economia provinciale compromessa. Al termine del conflitto la febbre spagnola fece un alto numero di vittime.


L’Istria italiana in tempo di pace (1918-1940)

Avviatosi il processo di smembramento dell’Impero austro-ungarico, a partire dal 30 ottobre 1918 i Consigli nazionali italiani presero pacificamente il potere in numerose località dell’Istria, mentre in altre si affermarono quelli slavi. Il 28 ottobre nel porto di Pola l’equipaggio delle navi da guerra si ammutinò innalzando la bandiera rossa e il 30 ottobre un comitato operaio si impadronì dell’arsenale. Il 31 ottobre il governo di Vienna consegnò la flotta militare di Pola al comitato cittadino sloveno-croato-serbo, che non volle cederla alle forze dell’Intesa. Ignara dell’accaduto, il 1° novembre un’ardita spedizione italiana piazzò una carica esplosiva a tempo sotto la carena della nave ammiraglia Viribus Unitis, appena ribattezzata Jugoslavija. Gli incursori furono catturati ed avvertirono dell’imminente esplosione, ma non furono presi debitamente sul serio. Così lo scoppio provocò 300 tra morti e dispersi.
A partire dal 3 novembre, come previsto dall’armistizio italo-austriaco, le truppe italiane occuparono pacificamente via mare l’intera provincia, accolte in modo entusiastico dalla stragrande maggioranza degli italofoni, ma anche da una parte dei mistilingui. L’8 novembre l’Ammiragliato italiano prese possesso a Pola della flotta ex imperiale, facendo rimpatriare tutti i militari di stanza passati agli ordini di Zagabria. Il 16 novembre però una mina al largo di Lisignano fece inabissare il cacciatorpediniere della Regia Marina “Cesare Rossarol”, partito da Pola e diretto a Fiume, causando la morte di 96 dei 134 uomini dell’equipaggio: fu un terribile e inatteso strascico della guerra appena finita.

L’Istria, insieme all’intero Litorale austro-illirico e alle zone della Carniola occupate, fu retta (19 novembre 1918) dal Governatorato militare della Venezia Giulia con sede a Trieste. I suoi compiti erano provvedere alla pubblica sicurezza, controllare la gestione dei servizi civili e le amministrazioni locali, eseguire le direttive del Comando supremo e, in casi d’urgenza, emanare misure legislative. A Padova si insediò il Segretariato generale per gli affari civili, da cui dipendevano i commissari civili, posti a capo dei vecchi Capitanati distrettuali, e l’Ufficio affari civili. L’imprecisa definizione dei limiti di intervento tra Governatorato militare, Comandi della IX e III Armata (che controllavano due diverse aree del territorio occupato), Segretariato generale e Marina militare (incaricata di gestire l’Istria meridionale e le isole quarnerine) creò attriti, contraddizioni e grovigli gestionali. Nel suo territorio di competenza la Marina militare dimostrò particolare severità, arrestando i leader politici croati, sostituendo slavi con italiani nelle amministrazioni comunali, chiudendo scuole elementari e medie croate, sopprimendo il giornale di Pola “Hrvatski list” e vietando le comunicazioni telefoniche oltre la linea armistiziale.

Si tentò ovunque di ripristinare le amministrazioni democratiche, ma in alcuni Comuni a maggioranza slava, dove erano poche le persone disposte con la loro candidatura a riconoscere l’autorità del governatorato, furono posti dei commissari prefettizi. Il 19 gennaio 1919 i territori sotto occupazione armistiziale italiana furono affidati per il controllo amministrativo al Ministero delle Terre liberate, incaricato di gestire il risarcimento per danni bellici, la ricostruzione degli edifici distrutti e l’assistenza alle popolazioni. Il 4 luglio 1919 passarono all’Ufficio centrale per le nuove provincie presso la Presidenza del Consiglio, diretto dal chersino Francesco Salata, che tentò di venir incontro alle esigenze del territorio nel rispetto della sua specificità e autonomia. Nell’agosto 1919 al Governatorato militare subentrò il Commissariato generale civile per la Venezia Giulia. Nel 1919 cominciò a operare l’Istituto Federale di Credito per il Risorgimento delle Venezie, rivolto ai privati.

L’Istria uscì dalla guerra stremata, impoverita e divisa tra sostenitori dell’Italia e del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (Shs), mentre una parte dei socialisti vagheggiava uno stato indipendente nord-adriatico che facesse da cuscinetto internazionalista tra i due stati nazionali. Specie da Pola e dai principali centri, militari asburgici, funzionari pubblici, ferrovieri, postelegrafonici e operai non autoctoni (fra cui tutti i germanofoni) rimpatriarono, in alcuni casi per obbligo o timore di ritorsioni, e furono sostituiti da regnicoli, ex combattenti o locali. Nei mesi successivi alla fine del conflitto si completò, non senza disagi, il rientro degli internati, dei fuoriusciti e dei militari coscritti. Il loro reimpiego nella disastrata economia istriana, specie dell’area meridionale, si rivelò tutt’altro che agevole e rapido. Intanto, nell’estenuante attesa di una definizione della sovranità statuale del territorio sotto regime armistiziale, si trascinarono a lungo problemi pratici legati ai cessati rapporti economici e giuridici dei cittadini istriani con l’antico nesso asburgico.

La crisi economica causata dal lungo e defatigante conflitto fu aggravata dalla perdita dei tradizionali mercati dell’Impero austro-ungarico, dalle turbolenze post-belliche nell’Europa centrale, dalla politica anti-italiana del Regno Shs, dal disastroso cambio della corona austriaca con la lira, dalla svalutazione delle cartelle dei prestiti di guerra e dai ritardi nell’erogazione degli indennizzi per i danni subiti. Particolarmente grave era la condizione sia dei contadini non proprietari che, indebitati e ormai privi di un adeguato sostegno creditizio, spesso finirono per perdere la terra da loro lavorata, sia degli operai di Pola che, per la contrazione dell’attività cantieristica e industriale, vennero licenziati e, specie se forestieri, dovettero emigrare. Molti degli stessi commercianti e ristoratori di Pola si trovarono in difficoltà a causa del forte decremento demografico e della perdita di potere d’acquisto di tanti loro concittadini. Solo nelle cittadine costiere e nei borghi interni la crisi post-bellica, che prolungava in forma diversa quella bellica, si manifestò in forma meno pesante. Il prolungarsi del periodo armistiziale alimentò una condizione di provvisorietà, mentre le sovrapposizioni di competenze fra i diversi organi statali produssero una politica contraddittoria che non favorì né la ripresa produttiva né la corretta gestione dell’ordine pubblico.

Anche fra la popolazione italofona crebbe così il malcontento, mentre l’Italia intera era scossa da forti conflitti politico-sindacali. I socialisti sbandarono verso posizioni rivoluzionarie, mentre il movimento politico unitario dei nazionalisti sloveni e croati, l’Edinost, contrastò le autorità italiane nella speranza di una annessione al Regno Shs, determinando una radicalizzazione dello scontro etnico. I più ostili furono i sacerdoti e i cattolici slavi, che mal digerirono la mancata riapertura di alcune scuole (specie medie e superiori), la soppressione dell’insegnamento religioso e l’abolizione del bilinguismo nei tribunali. In particolare fra il febbraio e il luglio 1919 si temettero azioni insurrezionali jugoslave fomentate da Belgrado. Per completare il ciclo di studi, molti allievi croati e sloveni dovettero provvisoriamente espatriare. Il vescovo sloveno di Trieste e Capodistria Karlin venne sostituito da Angelo Bartolomasi, il primo italiano dopo lungo tempo a guidare la grande diocesi, comprendente anche tutta l’Istria settentrionale e quella centrale interna.

Nel primavera del 1920 l’annunciata cessione del cantiere Scoglio Olivi a un consorzio di imprenditori privati propensi più all’assistenzialismo pubblico che al rischio e agli investimenti provocò sia a Pola che a Dignano violenti scontri tra operai e tutori dell’ordine. Il 1° maggio fra i manifestanti vi furono due morti e 18 feriti. Da allora i fascisti, sostenendo che era stata stretta un’alleanza eversiva tra social-rivoluzionari e nazionalisti slavi, cominciarono a prendere di mira anche questi ultimi. Con il pretesto di reagire alle violenze slave di Spalato (11 luglio, assassinio del capitano Tommaso Gulli e del motorista Ottavio Rossi da parte di nazionalisti jugoslavi) e Trieste (13 luglio, ferimento “per errore” dell’istriano Antonio Raikovich da parte di fascisti, uccisione di Giovanni Ninni ad opera di ignoti, spari contro l’Ufficio Passaporti jugoslavo e vilipendio alla bandiera SHS, ferimento mortale del tenente Luigi Casciana, assalto squadrista e incendio al Narodni Dom - Hotel Balkan, morte di Ugo Kablek e ferimento grave della figlia lanciatisi dalla loro stanza d’albergo, pestaggi di slavi e devastazioni e saccheggi di negozi, banche, società commerciali, abitazioni e uffici di esponenti slavi), il 14 luglio a Pola squadristi e militari incendiarono l’edificio che ospitava il Narodni dom. La notte successiva distrussero le abitazioni e/o gli studi di due avvocati croati (Zuccon e Vratovich, che per prudenza lasciarono l’Istria) e la sede giovanile socialista di Montegrande. A Pisino il 15 luglio, dopo vari tentativi resi vano dall’intervento dei Carabinieri, diedero alle fiamme la tipografia di un giornale cattolico croato e nella notte fra il 16 e il 17 luglio compirono atti intimidatori contro gli slavi della città.

Il 27 agosto 1920 fu promulgata la fine dello “stato di difesa” della piazzaforte di Pola. Dal 3 al 7 settembre si tenne nella Venezia Giulia uno sciopero generale proclamato dai sindacati rossi e sostenuto da socialisti e repubblicani «per ottenere la cessazione dello stato di guerra e il ripristino delle libertà», ma anche per la convocazione di regolari elezioni amministrative. In Istria vi aderirono con particolare convinzione i minatori di Albona, anche se a preoccuparli erano maggiormente le loro dure condizioni di lavoro.

A Pola il 22 settembre 1920 Benito Mussolini tenne un affollato comizio al Teatro Ciscutti e durante un pubblico banchetto in suo onore il colonnello Emanuele del locale presidio militare lodò apertamente l’azione dei Fasci. Tale gesto suggellò l’alleanza sempre più stretta che si andava stringendo tra fascisti e ampi settori dello Stato in Istria come nel resto della Venezia Giulia per contrastare i “rossi” da un lato e i nazionalisti slavi dall’altro. La sera del giorno dopo, in pieno centro, vicino alla sede giovanile socialista si verificò uno scontro tra giovani social-rivoluzionari e carabinieri. Dopo alcuni spari un maresciallo rimase ucciso. Per rappresaglia, nella notte gli squadristi, con il beneplacito delle forze dell’ordine, distrussero la locale Camera del Lavoro, circoli socialisti, la redazione e la tipografia del giornale “Il Proletario”, nonché l’abitazione di un dirigente massimalista. Il 24 settembre i socialisti reagirono con uno sciopero.

Affermò pochi giorni dopo in un rapporto il comandante dei Carabinieri della Compagnia di Pola che a causa degli errori dei socialisti un movimento «di pochi nazionalisti locali poté essere ravvivato fino alla costituzione di un saldo fascio, che trovò invero presso le autorità militari incoraggiamento e aiuti larghissimi». Le squadracce furono infatti tollerate e spesso agevolate da chi avrebbe dovuto reprimerle e che invece le riteneva utili strumenti di difesa dello Stato, dell’italianità e dell’ordine sociale contro i paventati rischi sia rivoluzionari che separatisti. Il 7 ottobre 1920 i fascisti assaltarono il Narodni dom di Pinguente, il 14 novembre la Casa del Popolo di Lussingrande e nella seconda decade di dicembre la Camera del Lavoro di Lussinpiccolo. Il 31 ottobre e il 1° novembre a Pirano si verificarono scontri tra squadristi e “rossi”.

Il Trattato di Rapallo (12 novembre 1920) assegnò all’Italia l’ex Litorale austriaco (meno Veglia e Castua), e dunque quasi tutto il Margraviato d’Istria più un tratto di Carniola e la città di Zara con le isole di Lagosta, Cazza, Pelagosa e Saseno. Le autorità regie non ritennero di dover interpellare la popolazione con plebisciti, come pure era stato fatto fra il 1859 e il 1866, per timore di un esito negativo e tanto più che Rapallo non lo imponeva. Per protesta contro la cessione di quasi tutta la Dalmazia al Regno SHS, il 15 novembre i legionari dannunziani occuparono le isole di Veglia e Arbe, i Consigli comunali dei cui capoluoghi avevano invocato l’annessione all’Italia o quantomeno alla Reggenza del Carnaro. Da Pola partirono le navi che dal 1° dicembre 1920 attuarono il blocco navale dei territori in mani dannunziane. Ma il 6 due cacciatorpediniere e una torpediniera, disertando, si recarono a Fiume in appoggio al Poeta Soldato e l’11 quattro autoblindo raggiunsero da terra la città. Dall’Istria si mossero le truppe italiane che, con il “Natale di sangue” del 1920, posero tragicamente fine all’epopea dannunziana in quella che fu una vera e propria guerra civile tra italiani, o meglio tra forze governative e insorti. Intanto però a Veglia i legionari avevano devastato scuole e sale di lettura croate, saccheggiato il palazzo vescovile, distrutta l’annessa tipografia e colpiti privati cittadini.

L’annessione formale al Regno d’Italia avvenne il 2 febbraio 1921 in base al decreto del 19 dicembre 1920. Parenzo diventò capoluogo della Provincia d’Istria. Rimaneva ancora da compiere il passaggio dalla legislazione asburgica a quella italiana Vi si provvide gradualmente, ma l’introduzione della nuova normativa, per tanti aspetti diversa dalla precedente alla quale la popolazione era abituata, non fu considerata da tutti come un progresso.
Per non incorrere in equivoci, alcuni istriani italianizzarono spontaneamente il proprio cognome, specie se tedesco. Il censimento del 1921 rispetto a quello del 1910 evidenziò a livello provinciale un netto calo demografico (da 404.309 a 343.401 unità) e un ribaltamento della supremazia etnica: gli italiani salirono dal 36,5% al 58,3%, i croati calarono dal 41,6% al 26,3% e gli sloveni passarono dal 13,7% al 13,8%, mentre le altre nazionalità si azzerarono e gli stranieri scesero dal 4,2% all’1,6%.

Nel primo semestre del 1921 Pola, Lussinpiccolo e Abbazia accolsero generosamente alcuni dei profughi dalmati che avevano lasciato la loro terra dopo l’annessione al Regno Shs e il ritiro delle truppe italiane. Ma l’Istria, con la disoccupazione che si ritrovava, non era certo in grado di dare un lavoro a questi connazionali.
In Istria, dopo la scissione di Livorno, vennero fondate sezioni del Partito Comunista d’Italia solo a Pola, Rovigno e Muggia con la partecipazione sia di italofoni che di slavofoni. Nel febbraio 1921 le spedizioni squadriste ripresero con vigore contro le sedi “rosse” a Valle, Montona, Antignana, Scoffie (Albaro Vescovà) e Rovigno, dove fu ucciso un socialista. A Buie un 19enne fascista piranese venne freddato per legittima difesa da un ferroviere comunista che era stato aggredito.

In un periodo di crisi della società Arsa e sulla spinta delle loro organizzazioni sindacali di categoria appena passate all’orientamento comunista, circa tremila minatori di Carpano, Vines e Stermaz, iniziarono nel febbraio 1921 un’agitazione per aumenti salariali che il 2 marzo si trasformò in sciopero a oltranza per solidarietà con i sindacati triestini vittime di atti squadristici, il 4 marzo in occupazione delle miniere e il 21 marzo (anche per l’intervento di esponenti politici esterni) nell’autogestione operaia degli impianti seguita dalla predisposizione di una difesa armata con guardie rosse (la cosiddetta «Repubblica di Albona»). Gli scioperanti erano perlopiù italiani sia locali che regnicoli, con una minoranza di slavi istriani, cittadini jugoslavi e altri stranieri. I fascisti reagirono con azioni provocatorie a Pisino e Albona acuendo la tensione. Il 4 aprile dodici minatori siciliani riluttanti vennero imprigionati dai rivoluzionari e poi rilasciati per evitare l’intervento delle forze dell’ordine. Dopo trattative confuse e contraddittorie, l’8 aprile si arrivò allo scontro tra operai e militari, i quali ultimi ebbero facilmente la meglio. Due minatori (un cecoslovacco e uno jugoslavo) morirono in seguito allo scoppio di bombe, mentre due operai e due soldati rimasero feriti. Venti minatori vennero arrestati, ventotto denunciati e parecchi altri fermati. Il processo svoltosi fra il novembre e il dicembre 1921 a Pola contro un centinaio di imputati terminò con un verdetto assolutorio. La società Arsa riprese la produzione, sia pure con lentezza, e quasi tutti i minatori processati (salvo gli stranieri e qualche “testa calda”) furono riassunti.

Il periodo precedente alle elezioni politiche del 15 maggio 1921 venne funestato da violenze fasciste contro nazionalisti slavi (tra cui sacerdoti, maestri o altri maggiorenti locali), ma anche contro comunisti, socialisti e popolari italiani. Si verificarono provocazioni, intimidazioni, furti di giornali propagandistici e di schede elettorali, assalti, devastazioni, incendi, sequestri di persona e aggressioni. Lo scopo era vincere le elezioni terrorizzando gli avversari affinché si astenessero. Il resto lo avrebbero fatto gli agenti governativi nei seggi con gli opportuni “aggiustamenti”. I fascisti egemonizzavano sul piano organizzativo la lista filo-governativa del Blocco Nazionale, composta anche da candidati del Partito Democratico Nazionale (liberal-nazionali), del Partito della Ricostruzione Nazionale (liberal-nazionali conservatori), dell’Associazione Nazionalista Italiana e del Partito Socialista Riformista (ex socialisti e democratici moderati). I nazionalisti sloveni e croati avevano invece fatto blocco comune nell’Edinost, mentre i comunisti, perlopiù di nazionalità italiana, si presentavano in forma autonoma. Il presidente del Consiglio Giolitti si illudeva di potersi servire dello squadrismo per puntellare il suo potere sconfiggendo le opposizioni di sinistra e il forte partito slavo, di cui temeva il successo elettorale. Ciò spiega la tolleranza o la complicità a volte dimostrate dalle forze di pubblica sicurezza verso gli autori delle violenze e la mancata protezione delle vittime.
L’8 marzo 1921 squadristi provenienti da Muggia raggiunsero in camion Isola, dove lanciarono bombe a mano contro le abitazioni di due italiani “rossi”, incendiarono la Camera del Lavoro di orientamento socialista, lanciarono ulteriori bombe a mano e ferirono con arma da fuoco un agricoltore italiano. Lo stesso giorno altri squadristi assaltarono il circolo comunista di Decani e la cantina sociale di Albaro Vescovà.

Nella notte tra il 13 e il 14 marzo qualcuno sparò contro degli ufficiali che percorrevano la strada da Pirano a Strugnano su un’auto militare. Il 15 marzo i marittimi piranesi, contro le violenze delle camicie nere, protestarono e annunciarono uno sciopero, che poi dovettero sospendere. Nel tardo pomeriggio fu incendiato il fienile di un fascista di Santa Lucia, che denunciò alcuni esponenti socialisti di Pirano causandone l’arresto. Le camicie nere devastarono l’appartamento di un noto maestro socialista piranese, lo consegnarono ai carabinieri (che lo arrestarono insieme ad altri tre socialisti e comunisti) e poi assaltarono i circoli socialisti di Santa Lucia, San Bortolo e Sicciole, sempre in comune di Pirano.

Il 19 marzo, alla stazione di Portorose, ignoti “rossi” lanciarono sassi contro il vagone della “Parenzana” sul quale erano appena saliti tre squadristi diretti a Trieste. Questi reagirono sparando colpi di arma da fuoco contro gli assalitori. Giunti poi in treno a Strugnano, spararono ripetutamente all’impazzata sia contro la casa di un commerciante sia contro alcuni adolescenti che giocavano all’aperto uccidendone due, rendendo invalido a vita un terzo e ferendone altri due. Le vittime erano italofone, come del resto tutti gli abitanti della piccola località costiera. Gli autori non vennero mai né individuati né processati.  Il giorno dopo fu solennemente celebrato a Trieste il ricongiungimento della Venezia Giulia all’Italia.

A fine marzo delle camicie nere uccisero a Buie due comunisti italiani, aggredendone altri a Castelvenere. Il 5 aprile nell’Istria sud-orientale carabinieri, soldati e fascisti repressero una rivolta contadina di orientamento nazional-bolscevico slavo.

La mattina del 15 maggio 1921, giorno delle elezioni politiche, un gruppo di undici giovani capodistriani si recò con un autocarro a Maresego, un villaggio sloveno sui colli sopra Capodistria capoluogo di Comune, allo scopo di fare propaganda per il Blocco Nazionale. La versione dei fatti rimane controversa. Certo è che la tensione salì; gli attivisti italiani sembra avessero sparato dei colpi di pistola; alcuni abitanti sloveni li presero a sassate e li inseguirono massacrandone tre (Giuseppe Basadonna, Giuliano Rizzato e Francesco Giachin), ferendone gravemente un quarto (Filiberto Tassini) e – pare – infierendo poi sui cadaveri. I superstiti riuscirono a fuggire per le campagne. Due distinte rappresaglie squadriste compiute il 16 maggio presso Maresego e il 17 nella vicina Cesari causarono la morte dei contadini sloveni Sabadin e Bonin, erroneamente ritenuti responsabili dell’aggressione, nonché l’incendio di sei case. I carabinieri effettuarono diversi arresti e istituirono dei blocchi stradali onde evitare nuove violenze.  L’11 novembre 1921 Babich, uno dei tre latitanti davvero coinvolti nell’eccidio, fu ucciso a Maresego da un carabiniere per aver tentato di sottrarsi all’arresto. Gli altri due invece si rifugiarono all’estero.  Un successivo processo svoltosi al tribunale penale di Trieste si concluse con otto condanne a pene detentive relativamente miti (da 6 mesi a 8 anni di carcere) e sette assolu­zioni.  A Capodistria nel 1936 le autorità fasciste intitolarono delle vie a Basadonna, Rizzato e Giachin.

Tornando alle elezioni politiche del 15 maggio 1921, in certe località istriane a nuclei interi di elettori croati fu impedito di votare e ad Albona gli squadristi uccisero un socialista italiano e ferirono altre 17 persone che tentavano pacificamente di recarsi alle urne. A Caresana (San Dorligo della Valle) venne ammazzato uno sloveno e i fascisti incendiarono almeno quattro case.

Anche grazie all’astensionismo forzato di molti elettori slavi o antifascisti e ai brogli legalizzati, il Blocco Nazionale raggiunse in Istria il 55,3% (più che a Trieste e molto più che nel resto d’Italia) e cinque eletti (di cui due fascisti), l’Edinost il 21,4% e un eletto, i comunisti il 7,0% e un eletto. Non ottennero invece seggi il Partito Socialista Ufficiale (7,0%), il Partito Repubblicano Italiano (5,0%) e il Partito Popolare Italiano (4,0%), che non disponevano di mezzi per far rispettare il voto di tutti i loro elettori.

Violenze fasciste contro sacerdoti slavi, antifascisti italiani, Camere del lavoro, Case del popolo e Narodni dom proseguirono anche nei mesi successivi in varie località. Il 22 giugno 1921 i fascisti fecero esplodere una bomba alla Casa del popolo di Capodistria; la reazione delle sinistre fu sedata dai carabinieri. Il 17 luglio 1921 a Isola uno squadrista triestino uccise con una bomba un 19enne cattolico italofono di Fianona che partecipava a una festa provinciale organizzata dai popolari. L’autore fu poi assolto nel processo svoltosi in autunno. Il 20 luglio un fascista pugnalò un abitante di Visignano.

Atti violenti contro fascisti suscitarono immediate rappresaglie. Così in ottobre a Visinada l’assassinio di un falegname italiano portò all’incendio delle case di due croati. La maggioranza degli iscritti ai fasci era però composta da ex liberal-nazionali che non condividevano quei duri metodi di lotta. L’intensificarsi delle violenze suscitò riprovazione anche in larga parte degli istriani italofoni. Ne derivò una ripresa dei repubblicani e dei popolari. Intanto l’accentuarsi della crisi economica in Italia indusse nuove ondate di scioperi anche in Istria.
Nel novembre 1921 si costituì la Federazione provinciale di Parenzo del neo-costituito Partito Nazionale Fascista (PNF), che prese il posto dei Fasci di Combattimento.

Il governo Bonomi (luglio 1921 - febbraio 1922) ricostituì la Giunta provinciale, con rappresentanti di tutti i partiti e le nazionalità, affidandole gli stessi poteri di cui aveva goduto fino al 1914, e istituì commissioni consultive incaricate di studiare l’applicazione dell’ordinamento italiano. Il 1° gennaio 1922 introdusse la leva militare obbligatoria. Inoltre, sempre nell’ottica di normalizzazione e pieno inserimento delle nuove provincie nel contesto statuale italiano, indisse le elezioni comunali, che si svolsero, a seconda delle zone, il 22 gennaio, fra il 25 giugno e il 2 luglio, e il 3 settembre.

La campagna elettorale poté svolgersi liberamente e il voto ebbe luogo quasi ovunque in un clima abbastanza sereno e corretto, specie nell’Istria nord-occidentale e nell’Albonese. Qualche contestazione si verificò in particolare da parte slava. Nel Distretto politico di Volosca ebbe luogo un episodio di violenza ad opera di fascisti fiumani. I listoni italiani, composti in prevalenza da liberal-nazionali e sostenuti più o meno apertamente dalle autorità commissariali, vinsero a Pola e nella maggioranza dei Comuni (a Muggia e Pirano con i popolari), compresi alcuni a forte presenza slavofona come Albona, Antignana, Apriano, Barbana, Bogliuno, Draguccio, Lussingrande, Moschienizze, Paugnano - Monte di Capodistria, Pinguente, Pisino, Rozzo, Sanvincenti e Volosca-Abbazia. A Cittanova, Canfanaro, Cherso, Gimino e Rovigno conquistarono anche tutti i seggi di minoranza, mentre a Parenzo e Visignano quasi tutti. Ma i socialisti vinsero a Capodistria, i repubblicani a Umago e Verteneglio, gli agrario-popolari a Buie, Grisignana, Portole (con gli slavi moderati) e Valle, i popolari a Isola, mentre a Visinada vi fu parità fra socialisti e nazionali italiani. Le liste nazionali slovene vinsero in sei Comuni: Castelnuovo, Decani, Dolina, Elsane, Maresego, Matteria e Ocisla - San Pietro di Madrasso. Solo a Bersez, Mattuglie e Slum arrivarono primi i nazionali croati. I nazional-fascisti ottennero i consiglieri di minoranza a Lussinpiccolo e Portole, gli agrario-popolari a Pola e Dignano, i comunisti a Isola e Buie, i nazionali croati a Barbana e Antignana.

Il 1° aprile 1922 entrarono in vigore il codice penale e il codice di procedura penale italiani, meno garantisti di quelli asburgici. Nel complesso la legislazione italiana progressivamente applicata in quei mesi apparve agli istriani cervellotica e troppo arbitrariamente interpretabile dalle autorità. Assai indigesta risultò in particolare la normativa fiscale. Nell’aprile 1922 la Giunta provinciale istriana accettò la proposta di introduzione della legge amministrativa italiana, che sanciva la fine delle tradizionali autonomie. Nel maggio 1922 re Vittorio Emanuele II e la regina Elena visitarono le principali località dell’Istria, accolti con manifestazioni di giubilo.

A Pola e Muggia i metallurgici aderirono in massa allo sciopero nazionale di fine giugno - inizi luglio 1922. Più blanda fu invece a Pola e Albona la partecipazione allo sciopero dei primi di agosto. Il 5 agosto a Muggia una squadra italo-croata di Visinada giunta a presidiare il cantiere San Rocco fu assalita da militanti proletari, che uccisero un fascista e ne ferirono gravemente quattro. Dopo un tentativo di mettere a soqquadro Muggia da parte di una squadra triestina, respinta dai carabinieri, 150 fascisti istriani giunsero via mare e, sulle colline soprastanti, si scagliarono contro un circolo comunista, un’osteria e due sedi delle Cooperative Operaie. Al reimbarco furono colpiti dalla popolazione con tegole e sassi. A Isola vi furono diverse incursioni squadriste e il 27 settembre un giovane italiano di tendenze comuniste fu colpito con arma da fuoco.

L’offensiva fascista dell’ottobre 1922 per la conquista delle istituzioni dello stato indusse il debole governo Facta a sopprimere il Commissariato Generale per la Venezia Giulia e a nominare un prefetto regionale a Trieste e un vice-prefetto a Parenzo per l’Istria. Dal 28 al 30 ottobre 1922 anche i fascisti istriani si concentrarono, come gli altri della regione, nel Goriziano, in previsione di uno scontro con i nazionalisti slavi che poi non ci fu. Quelli dell’Istria nord-occidentale parteciparono all’occupazione simbolica della Prefettura di Trieste, in accordo con lo stesso prefetto e le autorità militari. Anche in Istria la presa del potere fu agevolata dalle complicità istituzionali e inizialmente si limitò alla provvisoria occupazione di alcuni municipi, stazioni ferroviarie, palazzi delle poste e, a Pola, dell’Ammiragliato. Ma presto la situazione degenerò.

Gli squadristi costrinsero alle dimissioni la Giunta provinciale e, subito o nei mesi successivi, numerose. A Pola bruciarono la Camera del Lavoro e a Rovigno indussero la sezione comunista allo scioglimento. A diversi sacerdoti, croati ma anche italiani, somministrarono l’olio di ricino. Proibirono inoltre l’uscita di vari giornali, tra cui quello dell’on. polesano De Berti, che si dimise da deputato del Blocco Nazionale e sciolse tutte le sezioni istriane del suo Partito Socialista Riformista. Nel dicembre 1922 a Capodistria l’esplosione di una bomba in un albergo dove si trovavano alcuni dirigenti fascisti fu seguita dalla devastazione della locale Casa del popolo.
Nel novembre 1922 il neo-costituito Governo Mussolini soppresse l’Ufficio centrale per le nuove province, ponendo termine alla politica autonomistica di Salata e trasferendo le competenze ai rispettivi Ministeri in un’ottica centralistica. Nel gennaio 1923 trasferì il capoluogo provinciale da Parenzo a Pola, cedendo alla Provincia di Trieste i Comuni di Muggia e San Dorligo della Valle. Nel 1924 la neo-istituita Provincia di Fiume acquisì l’intero Circondario di Volosca-Abbazia e nel 1928 i Comuni di Castelnuovo e Matteria. Così, nel giro di pochi anni la Provincia d’Istria si rimpicciolì ulteriormente perdendo territori a nord/nord-est e cessò di confinare via terra con il Regno SHS, ma continuò a farlo via mare nel Quarnerolo.

Le squadracce si istituzionalizzarono nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, senza con ciò rinunciare alla violenza. Numerosi demo-nazionali, social-riformisti, repubblicani e popolari, salendo sul carro del vincitore, aderirono al Partito Nazionale Fascista, che nell’aprile 1923 aveva in Istria 7.000 iscritti e 94 sedi ma che fu presto commissariato dalla più aggressiva Federazione di Trieste.

Fu la stessa Federazione polese del PNF, per non perdere l’appoggio popolare, ad opporsi al decreto che nell’aprile 1923 sancì la chiusura degli arsenali di proprietà statale, sortendo però solo il rinvio della soppressione dell’arsenale militare al maggio-giugno 1924. Tale provvedimento provocò effetti negativi anche sul cantiere Scoglio Olivi, privato delle sue più importanti commesse. L’accentuarsi della crisi della cantieristica polese indusse un certo numero di operai all’emigrazione indipendentemente dalla loro nazionalità e fede politica. Gli slavi istriani comunque trovarono facilmente impiego nei cantieri di Spalato o delle Bocche di Cattaro.

Nel 1923 il vescovo di Trieste e Capodistria Angelo Bartolomasi, considerato dal governo Mussolini troppo antifascista e indulgente verso gli slavi, preferì cedere il posto a Luigi Fogar, che a sua volta fu sostituito per gli stessi motivi nel 1936 dal rovignese Antonio Santin, il quale tuttavia perseverò nella tutela dei diritti religiosi dei suoi fedeli alloglotti. Non altrettanto coraggiosa fu invece la linea del vescovo di Parenzo e Pola Pederzolli, già austriacante. A molti sacerdoti provenienti da diocesi slovene, croate o ceche fu respinta l’opzione per la cittadinanza italiana, ma non sempre costoro furono espulsi dal regno.

Dopo la Marcia su Roma il governo Mussolini concentrò la sua azione repressiva contro i comunisti, mentre l’Edinost assunse atteggiamenti concilianti, rinunciò a fare opposizione e salutò favorevolmente gli accordi italo-jugoslavi del 27 gennaio 1924. Il governo, esentato dagli obblighi internazionali di protezione delle minoranze, dalla fine del 1923 ridusse progressivamente le classi scolastiche elementari croate o slovene. L’uso della madrelingua fu tuttavia garantito nelle ore suppletive, nonostante le pressioni dissuasive esercitate in alcuni luoghi sui genitori. I docenti poterono rimanere al loro posto tramite un esame di abilitazione che consentiva loro di insegnare in italiano. In base a un regio decreto del 29 marzo 1923, l’intera toponomastica fu resa entro il 1924 solo in forma italiana, salvo le scritte funerarie o i riferimenti storico-artistici. Ma l’uso del croato e dello sloveno era ancora tollerato nei Comuni a maggioranza slava. L’italiano venne impostò come unica lingua ufficiale nei tribunali. A partire dal 1923, con il cambio della normativa sulla residenza, quanti non poterono acquisire la cittadinanza italiana a emigrare.

Il 6 aprile 1924 alle elezioni politiche, in vista delle quali si erano verificate alcune violenze fasciste, la Lista Nazionale (fascisti e alleati) ottenne in Istria ben il 78%: un po’ più che nel resto d’Italia. Non ebbero eletti l’Edinost (10,1%), i comunisti (4,7%), i repubblicani (3,7%), i popolari (1,6%), i socialisti massimalisti (0,7%), i democratici di Amendola (0,3%) e i socialisti unitari (0,3%). La parte più radicale dell’elettorato slavo preferì i comunisti (messi fuori legge nel Regno Shs dal 1921), mentre quella più moderata la Lista nazionale.

In particolare fra il 1924 e il 1926 i conflitti interni alla Federazione fascista di Pola portarono a una sistematica sostituzione dei gerarchi locali con altri “regnicoli” spesso privi di un passato squadrista. In sostanza si verificò una colonizzazione della dirigenza fascista istriana ad opera di elementi di altre regioni, ritenuti più facilmente controllabili dagli apparati statali.

L’assassinio Matteotti non suscitò in Istria grandi reazioni popolari e la stessa Edinost si guardò bene dall’aderire alla protesta dell’Aventino per non apparire sovversiva. Tra gli oppositori, i più attivi, anche sul piano sindacale, erano diventati i comunisti, seguiti dai repubblicani. Anche la stretta contro la libertà di stampa, riunione e manifestazione, imposta da Mussolini dopo il 3 gennaio 1925, venne accolta dalla maggioranza degli istriani con una certa rassegnazione. Malgrado gli Accordi italo-jugoslavi di Nettuno del 20 luglio 1925, anche le associazioni e i giornali slavi in Istria finirono sotto il controllo del prefetto. E non giovò certo alla minoranza l’assoluzione, sentenziata da un tribunale di Lubiana, di un malavitoso, militante dell’organizzazione irredentista ORJUNA, che a Pinguente aveva ucciso due carabinieri. Una circolare di Mussolini datata 1° novembre 1925 affermò che nelle aree abitate da allogeni, snazionalizzate «nei secoli dell’italico servaggio», andava «reintegrato» il loro carattere italiano reprimendo le manifestazioni irredentiste e facendo sentire a quelle genti, «con opportune concessioni e un benevolo trattamento», «tutti i vantaggi di appartenere allo Stato italiano».

Nel febbraio 1926 la legge sul riordino autoritario delle amministrazioni locali portò, nei Comuni con meno di 5.000 abitanti, allo scioglimento dei Consigli comunali democraticamente eletti e alla surroga dei sindaci con podestà nominati dal governo. Sparirono così i sindaci alloglotti, sostituiti da podestà italiani. Dalla primavera 1926 l’intensificarsi di sanguinosi attentati jugoslavisti in territorio italiano peggiorò i rapporti tra i due paesi. A risentirne furono in primo luogo gli slavi della Venezia Giulia, che nella stragrande maggioranza avevano ormai accettato sia la sovranità italiana sia il fascismo. Così nel marzo vi furono i primi trasferimenti in altre regioni di carabinieri allogeni, mentre nelle scuole elementari cominciarono a venir aboliti sia il residuo insegnamento in lingua slovena e croata sia i corsi suppletivi. Ne derivarono prepensionamenti, trasferimenti e licenziamenti di insegnanti slavi. Si cercò di reagire con l’educazione familiare, con scuole clandestine o con l’iscrizione degli allievi in scuole del Regno Shs, specie a Karlovac e Lubiana. Iniziarono anche i primi scioglimenti di associazioni slave. Nell’aprile 1926 le norme sulla «restituzione del cognome originario italiano abusivamente alterato sotto la dominazione straniera» furono estese anche all’Istria. In alcuni casi, accanto al ripristino dei cognomi italiani originari, che avveniva d’ufficio, si trattò, su richiesta, di una italianizzazione di cognomi slavi che o non corrispondevano più al sentimento nazionale di chi li portava o avrebbero potuto creare difficoltà all’inserimento sociale e lavorativo. Ma vi furono anche tante persone che dovettero «ridurre in forma italiana» il loro cognome solo perché pressate e indotte dalle autorità. A volte da un medesimo cognome ne sortirono diversi, assegnati a componenti dello stesso gruppo familiare. L’applicazione della legge non fu istantanea, ma si protrasse negli anni. Dal 1928 fu proibito per legge di dare ai nuovi nati nomi slavi. I nomi di alcuni studenti furono poi italianizzati d’ufficio.

Dal novembre 1926 la repressione contro i “sovversivi” si inasprì e nel giro di un paio d’anni anche in Istria furono chiusi partiti, giornali e gruppi culturali, sportivi, musicali, teatrali e ginnici, sia italiani che slavi, non allineati con il regime. Tra questi perfino la Lega Nazionale. Gli istriani sottoposti a diffida o a confino di polizia oppure condannati dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato furono perlopiù comunisti italiani e solo in misura minore anarchici, socialisti e irredentisti slavi. L’Edinost invece, grazie al suo atteggiamento mansueto e collaborativo, fu l’ultimo partito sciolto in Italia (il 19 settembre 1928). Ciò avvenne pochi giorni dopo la chiusura del suo quotidiano omonimo. La condiscendenza dell’Edinost fu severamente redarguita dallo stesso Piero Gobetti, che invece morì in seguito alle bastonature fasciste. Fra il 1929 e il 1930 poterono essere stampati due settimanali cristiano-sociali: uno in sloveno, l’altro in croato. Ma in seguito sopravvissero solo alcune pubblicazioni religiose. Tuttavia da oltre confine, malgrado i periodici sequestri, continuò ad arrivare la stampa jugoslava.

La maggioranza degli istriani accettò le misure liberticide senza reagire, sperando servissero a garantire l’ordine e la pace sociale. L’indurimento della politica fascista e il rincrudirsi della strategia della tensione portò alcuni giovani irredentisti slavi a prendere in considerazione la lotta armata. Ma in Istria tale fenomeno fu più tardivo e circoscritto rispetto al resto della Venezia Giulia. I comunisti, ostili alle organizzazioni paramilitari jugoslaviste in quanto monarchiche, reazionarie e filo-serbe, cercarono di evitare defezioni dalle loro file facendo proprie le istanze separatiste.

Dalla seconda metà degli anni ’20, alcune migliaia (il numero esatto è tuttora controverso) di slavi fra studenti, insegnanti, politici, attivisti, intellettuali, sacerdoti, disertori, espulsi, ricercati, operai, contadini, funzionari o impiegati di cooperative, casse rurali e istituti bancari chiusi o rilevati dai corrispettivi italiani espatriarono, a volte spinti anche da ragioni economiche, oltre che politico-nazionali: i più verso il confinante regno; gli altri, magari perché di orientamento marxista, verso qualche paese europeo o il Sudamerica (specie l’Argentina). Tale esodo tuttavia riguardò la provincia di Pola meno delle province di Trieste e Gorizia, dove la coscienza nazionale slava e il conflitto tra le etnie erano stati più forti.

Soprattutto negli anni ’30 gli esuli riparati in Jugoslavia  non furono accolti sempre benevolmente dalle popolazioni locali, che li ritenevano concorrenti in ambito lavorativo, assistiti dallo Stato e, paradossalmente, tacciati di fascismo. Alcuni aderirono a gruppi revanscisti paramilitari, che li utilizzarono quali agenti in vista di una guerra contro l’Italia per la conquista dell’intera Venezia Giulia e del Friuli orientale. A Zagabria in particolare si formò un movimento irredentista croato istriano che stampava un foglio, diffuso clandestinamente in Istria (senza troppo successo) e a volte sequestrato dalle stesse autorità jugoslave. Anche in seguito all’ulteriore deterioramento dei rapporti italo-jugoslavi culminante nel mancato rinnovo degli accordi bilaterali del 1924, il 24 marzo 1929 il giovane Vladimir Gortan sparò contro la processione di elettori che nelle vicinanze di Pisino si stavano recando alle urne per il plebiscito pro Mussolini, che vide poi quasi il 90% degli istriani aventi diritto votare Sì, in linea con la media nazionale. Gortan mancò il bersaglio, ma i suoi quattro seguaci uccisero un colono e ferirono un contadino, entrambi della loro stessa etnia. Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, riunito a Pola, condannò Gortan a morte e gli altri quattro a trent’anni di carcere. La fucilazione avvenne il 17 ottobre. Da allora fino alla caduta del fascismo non si verificarono in Istria altri atti terroristici cruenti. Il plebiscito del 25 marzo 1934 ebbe risultati ancora più totalitari.
Se una parte degli allogeni aderì al regime e soprattutto alle sue organizzazioni collaterali, il fascismo non riuscì tuttavia nell’assimilazione di massa. Anzi: finì per rafforzare in molti slavi, specie dei villaggi, il legame con la propria lingua, la propria terra e le proprie tradizioni. Ciò anche grazie all’impegno dei sacerdoti, i quali rappresentavano ormai l’unica classe dirigente residua di un popolo privato dei propri capi. Percentualmente gli slavofoni non aumentarono e semmai diminuì decisamente il loro rilievo socio-economico, dopo che quello politico era stato annullato. Ma il loro secolare radicamento nella realtà rurale istriana non fu intaccato.

Nel 1934 i comunisti italiani, jugoslavi e austriaci, perseguitati nelle rispettive patrie, proclamarono assieme il diritto all’autodecisione delle minoranze fino alla secessione. Tale principio fu ribadito nel 1936 dalla Federazione comunista della Venezia Giulia, che firmò un patto d’azione con gli omologhi sloveni e croati.

Gli accordi di collaborazione tra Roma e Belgrado del luglio 1937, che sancirono la fine del sostegno jugoslavo agli irredentisti e la fine del sostegno italiano ai separatisti croati e macedoni, portarono a un migliore trattamento delle minoranze croata e slovena quanto all’uso della madrelingua, che si protrasse fino al giugno 1940 rendendo più distesi i rapporti inter-etnici anche in Istria. Progetti di sostituzione di contadini alloglotti con altri provenienti dalla pianura padana restarono sulla carta.

Alla fine degli anni ’20 le cooperative ex socialiste ed ex popolari furono fascistizzate. Non riuscì invece il salvataggio di tutte le casse rurali slavo-cattoliche, travolte dalla crisi agricola iniziata nel 1927 e poi da quella generale del 1929. L’inverno del 1929 fu assai duro sul piano meteorologico e comportò gravi danni ai raccolti, determinando anche la dismissione delle saline di Capodistria. La persistente crisi economica delle zone costiere accentuata dal crollo di Wall Street spinse parecchi italiani a cercare lavoro a Trieste, a Monfalcone o all’estero (specie negli Usa). Italiana fu anche una parte dell’emigrazione politica verso Usa o Francia. In alcune aree rurali slavofone la miseria favorì il riaccendersi del banditismo.

Nel 1928 un sommergibile della Regia Marina impegnato in un’esercitazione navale affondò nelle acque a Ovest delle isole Brioni in un incidente dai contorni mai ben chiariti. Perirono 27 marinai.

Negli anni ’30 il fascismo realizzò l’acquedotto in tutta l’Istria, bonificò le valli del Quieto e dell’Arsa e le ex saline di Capodistria, rimboschì alcune aree e (anche grazie alla politica autarchica iniziata con la guerra d’Etiopia) potenziò le miniere di carbone, edificando i borghi per minatori di Arsia e Pozzo Littorio. Inoltre creò colonie marine per la gioventù, nonché strutture scolastiche, assistenziali e ricreative. Anche gli slavi beneficiarono delle opere e della legislazione sociale del regime. L’estrazione di bauxite riprese, le industrie di Rovigno e Isola furono ampliate, il cementificio di Valmazzinghi incrementò l’attività e alcune strade principali asfaltate e percorse da corriere di linea. Pola si arricchì di edifici pubblici nel nuovo stile littorio, si dotò di un moderno impianto sportivo, si abbellì di monumenti e giardini, mentre dal 1938 il cantiere Scoglio Olivi ebbe un parziale rilancio con le commesse per la manutenzione di sommergibili e la produzione di ossigeno, ispirate dai venti guerra. Fu velocizzato il trasporto ferroviario fra Pola e Trieste via Pisino anche a beneficio di Rovigno. Il settore scolastico venne fortemente incrementato anche nelle zone rurali, con il conseguente aumento sia dell’alfabetizzazione sia dei posti di lavoro.
La ferrovia Parenzana fu però soppressa nel 1935 in quanto ritenuta troppo costosa e nelle miniere dell’Arsa si verificarono gravi incidenti mortali a causa della scarsa sicurezza e dell’aumentata produzione: tredici minatori perirono nel 1937, sette nel 1939 e ben 185 (con 146 feriti) il 28 febbraio 1940. Inoltre molti contadini erano indebitati, privi di sostegno da parte delle banche e impossibilitati a usufruire dell’acquedotto e delle bonifiche; alcuni avevano anche subito espropri male indennizzati. Degli interventi statali in agricoltura beneficiarono prevalentemente i maggiori fondi e consorzi agricoli. Il disagio contadino si espresse nel giugno 1938 in una manifestazione di protesta a Montona alquanto inedita per i tempi. Vista la scarsa presenza di ebrei in Istria, le leggi razziali colpirono poche persone.


L’Istria italiana in tempo di guerra (1940-1943)

Dall’agosto 1939 anche in Istria cominciarono i razionamenti dei generi alimentari, le limitazioni alle forniture del gas e al traffico privato e l’ammasso obbligatorio di rame, ferro e recinzioni metalliche a scopi bellici. Dopo la dichiarazione di guerra a Francia e Regno Unito del 10 giugno 1940, vennero arrestate persone sospette di intelligenza con il nemico, presto liberate. Il 22 agosto e il 15 novembre 1940 partirono per la Germania contingenti di lavoratori volontari istriani. Alla fine dell’anno cominciarono le prime iniziative di protezione anti-aerea di beni artistici e archeologici. Opere d’arte di scuola veneta furono portate in ricoveri segreti friulani per essere messe al sicuro da bombardamenti e razzie, come stabilito dalla legge di tutela del patrimonio artistico in caso di guerra. Nel 1943 alcune, tra cui quelle provenienti da Capodistria e Pirano, furono trasferite a Roma, dove si riteneva potessero essere meglio protette. Lì rimasero custodite e dimenticate per decenni.

Dopo la resa jugoslava seguita all’invasione delle forze dell’Asse, nel maggio 1941 il Regno d’Italia annetté la Provincia di Lubiana, istituì le Province di Spalato e Cattaro e ampliò quelle di Fiume e Zara. Così il confine orientale italiano si allontanò dall’Istria, ma dai territori ex jugoslavi annessi o controllati militarmente cominciarono a penetrarvi elementi di quella resistenza comunista che, sotto il comando di Josip Broz Tito, si mobilitò dopo l’attacco tedesco all’Urss (22 giugno 1941) per una nuova Jugoslavia repubblicana, comunista, federale e geograficamente allargata in tutte le direzioni. Se però nei territori ex jugoslavi i titoisti combatterono anche una guerra civile contro le altre formazioni slave, in Istria diversi slavi, anche nazionalisti e cattolici, cominciarono a simpatizzare per il Movimento popolare di liberazione (Mpl), egemonizzato dai comunisti, i quali prospettavano  il riscatto nazionale, sociale ed economico del popolo subalterno delle campagne contro quello egemone delle cittadine. Le motivazioni ideologico-sociali si fusero con quelle irredentiste in una miscela che sarebbe diventata esplosiva.

Nel contempo le autorità italiane accrebbero l’intolleranza verso l’uso dei dialetti slavi in luogo pubblico. Per prevenire inoltre atti di ammutinamento e passaggio al nemico, trasferirono i militari istriani di madrelingua slava o comunque ritenuti inaffidabili in altre regioni italiane, specie del sud, assegnando loro compiti ausiliari. Di converso, dal 1940 in Istria e in particolare a Pola furono ospitati alcuni profughi italiani del Dodecaneso e delle colonie africane.

Il 14 dicembre 1941 presso Parenzo si verificò il primo atto della resistenza partigiana in Istria: il blocco di una strada con dei massi. Il giorno successivo a Trieste venne eseguita la sentenza capitale contro sei dei settanti comunisti slavi processati per attività sovversiva. Dal giugno 1942 a Rovigno venne diffuso un foglio clandestino bilingue redatto da comunisti croati e italiani aderenti all’Mpl: fu il primo segno della partecipazione in forma subordinata di settori antifascisti italiani al fronte titoista. Nello stesso mese ad Albona e Pisino sorsero sedi distaccate dell’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza di Trieste incaricate di contrastare il nascente movimento eversivo. Nell’agosto 1942 una formazione partigiana dal territorio croato raggiunse il Monte Maggiore, da dove effettuò atti di sabotaggio contro la ferrovia Trieste-Pola, ma nel dicembre fu sbaragliata dai militari italiani. Nell’ottobre 1942 il Fronte di Liberazione (Of), ramo sloveno dell’Mpl jugoslavo, propugnò la nascita di una repubblica slovena federata alla futura Jugoslavia e comprendente l’intero territorio etnico sloveno, in novembre cominciò a infiltrarsi in Istria e il 1° giugno 1943 lanciò un Proclama al popolo istriano.

Nel gennaio 1943 i primi giovani croati istriani furono arruolati nelle file partigiane e mandati a combattere le truppe italiane nella provincia di Lubiana. La propaganda segreta titoista si rafforzò anche fra gli operai delle cittadine costiere con l’obiettivo di soppiantare i nuclei comunisti italiani internazionalisti, ovvero gli unici gruppi antifascisti italiani dotati di una qualche organizzazione. Il 12 marzo 1943 il vescovo di Trieste e Capodistria Antonio Santin deplorò l’eccessiva durezza dell’Ispettorato speciale nelle rappresaglie contro l’incipiente guerriglia.
Nel febbraio 1942 furono ricavati su aree comunali i primi orti di guerra, mentre nel pubblico impiego gli uomini chiamati alle armi cominciarono a essere sostituiti dalle donne. Fra il gennaio e il febbraio 1943 fu proibita la vendita di dolci e superalcolici, dopo quella del caffè. Vennero inoltre realizzati i primi rifugi anti-aerei: si temeva in particolare il bombardamento del porto di Pola.

Il 13-14 giugno 1943 il Consiglio territoriale antifascista di liberazione popolare della Croazia (Zavnoh), ovvero il “parlamento” partigiano croato, proclamò la volontà di liberare e unificare tutte le località croate, tra cui l’Istria, Fiume e la Dalmazia.

Il 21 luglio 1943 Mussolini dichiarò lo stato di guerra anche per la provincia di Pola.
La caduta del regime il 25 luglio e l’avvento al potere del maresciallo Badoglio furono salutate da qualche manifestazione di giubilo, ma l’Istria fu subito sottoposta allo stretto controllo dell’esercito, con il coprifuoco e il divieto di riunioni e dimostrazioni. Iniziò il processo di de-fascistizzazione. Gli ex gerarchi vennero destituiti e in certi casi perseguiti; alcuni si nascosero o ripararono in luoghi giudicati più sicuri. Le Camicie nere e la Milizia furono assorbite dall’esercito. Alla guida delle amministrazioni pubbliche e degli organi di stampa furono chiamate personalità antifasciste o comunque fedeli al nuovo governo e al re. Cominciarono a rientrare diversi prigionieri politici, perlopiù comunisti. Il governo jugoslavo in esilio a Londra lanciò velleitari proclami irredentisti.
Dal 28 agosto per transitare sulle strade istriane divenne obbligatorio un lasciapassare. Il 31 agosto i partigiani titoisti abbatterono un migliaio di pali telefonici, ma fu questo anche l’unico significativo atto di sabotaggio del periodo badogliano, a riprova della debolezza del Movimento popolare di liberazione jugoslavo nella penisola prima dell’8 settembre. Il 1° settembre l’ex onorevole social-riformista polesano Antonio De Berti fu nominato commissario prefettizio di Pola.


Tra nazisti, partigiani e fascisti (1943-1945)

Dopo l’annuncio dell’armistizio (8 settembre 1943), anche in Istria si registrò l’incredibile sfaldamento delle strutture politiche e militari del Regno d’Italia. Lo Stato Indipendente Croato filo-nazista ne approfittò per proclamare l’annessione di Istria, Fiume e Dalmazia italiana, ma in pratica riuscì a conquistare con l’appoggio tedesco solo quest’ultima, salvo Zara. La popolazione istriana assaltò magazzini, depositi e caserme abbandonate. Dalle carceri fuggirono numerosi detenuti. Dalla Jugoslavia occupata si riversarono in Istria e sulle isole quarnerine frotte di soldati italiani che intendevano liberarsi della divisa e delle armi per tornare a casa e che furono generosamente aiutati dai civili (non solo italofoni).

A Pola, Rovigno e Albona si costituirono subito dei Comitati di salute pubblica, composti da antifascisti, con l’intento di assumere i poteri civili e mantenere l’ordine in accordo con le autorità militari e di polizia.
A Pola agli oltre 20.000 tra soldati, marinai e avieri italiani se ne aggiunsero circa altrettanti in fuga dalla Jugoslavia occupata. Il presidio tedesco, che consisteva di poche centinaia di sommergibilisti, rimase asserragliato nel cantiere Scoglio Olivi. Ma già la mattina del 9 settembre tutte le navi della Regia Marina abbandonarono la città per raggiungere Malta. La corvetta Baionetta fu invece chiamata a porre in salvo i reali da Ortona a Brindisi. Anche gli aeromobili della Regia Aeronautica presero il volo.

Il locale Comitato di salute pubblica, formato da varie componenti politiche antifasciste italiane ma a prevalenza comunista, avendo il comandante della piazzaforte marittima amm. Strazzeri la mattina del 9 settembre respinto l’offerta di collaborazione e la richiesta di far intervenire le forze armate contro i tedeschi, proclamò uno sciopero generale di protesta. Un comizio indetto per il pomeriggio all’insegna del motto «Fuori i tedeschi da Pola» richiamò un notevole assembramento di folla, ma fu represso brutalmente dalla forza pubblica con 3 morti e 17 feriti, in maggioranza comunisti italiani appena liberati dalle carceri; ancora si discute sui veri autori della strage, che sembrano essere stati poliziotti. L’oratore ufficiale Edoardo Dorigo, comunista polese inviso ai titini perché contrario al loro nazionalismo, era stato arrestato poco prima.

La sera dell’11 settembre 800 militari tedeschi entrarono a Pola con sei carri armati accompagnati da un maggiore italiano collaborazionista. L’amm. Strazzeri, firmando la resa senza combattere, consegnò al maggiore delle SS Hertlein, che assunse tutti i poteri, le decine di migliaia di soldati italiani ancora presenti in città. Quanti fra costoro rifiutarono di combattere al fianco dei tedeschi o di lavorare per loro, furono dapprima imprigionati nelle caserme e nelle piazze d’armi (generosamente sfamati dalla popolazione) e quindi spediti con i treni bestiame nei campi di concentramento tedeschi. Il 12 settembre finanzieri e marinai italiani di stanza in una caserma resistettero per alcune ore. In città affluirono altri militari tedeschi, che lo stesso giorno debellarono un gruppo di insorti italiani (antifascisti rovignesi ed ex militari) presso Dignano. Sempre il 12 settembre venne rifondato a Pola il Fascio di combattimento, con finalità di difesa nazionale, ma rimasero vacanti le autorità amministrative sia comunali che provinciali; giunse in tal modo all’apice il processo di militarizzazione della società. Il 14 settembre un tentativo di fuga dalle carceri polesi di prigionieri politici fu stroncato dai tedeschi con 26 morti e numerosi feriti. Il 17 settembre si verificò uno scontro a fuoco tra tedeschi e insorti di Pola e del territorio circostante, cui si affiancarono alcuni militari italiani. Il 27 settembre nello scoppio della polveriera di Siana (periferia di Pola) morirono bruciate 19 persone.

Tra il 10 e il 15 settembre gruppi di insorti (perlopiù contadini, braccianti e operai slavi) occuparono quasi tutta la penisola, salvo Pola, Fasana, Pirano, Portorose, Muggia e Dignano requisendo armi e munizioni abbandonate. Il comandante del presidio militare italiano di Pisino, prima di arrendersi, consegnò agli insorti un gruppo di civili italiani che avevano chiesto le armi per difendersi, mentre il comandante del presidio di Albona, contravvenendo agli impegni presi, passò armi e munizioni ai partigiani, che così occuparono facilmente la città. Reparti dell’esercito o dei carabinieri difesero per breve tempo solo Caroiba, Montona e Rozzo; per il resto non vi fu alcuna resistenza armata italiana.

L’11 settembre una colonna motorizzata tedesca diretta a Pola si scontrò al bivio di Tizzano con un gruppo di insorti locali inesperti; tra lo scontro a fuoco e la successiva rappresaglia ne morirono 84. La colonna tedesca, ripartita alla volta di Fiume dopo la presa di Pola, si scontrò poi con altri insorti lungo la strada per Albona.
Il 13 settembre Hitler istituì la Zona d’operazioni Litorale Adriatico, comprendente le province di Pola, Trieste, Fiume (senza più Veglia e il Gorski Kotar), Gorizia, Lubiana e Udine (con Pordenone), e vi insediò quale commissario supremo il governatore della Carinzia Friedrich Rainer. Era un protettorato sotto controllo nazista.
Ben presto alcuni nuclei titoisti croati giunti in Istria dalla Lika tramite il Gorski Kotar e i loro sostenitori locali imbrigliarono il movimento partigiano in senso nazional-comunista e istituirono i poteri popolari destituendo i Comitati di salute pubblica di Rovigno e Albona.

Il 13 settembre a Pisino un sedicente Comitato di liberazione popolare dell’Istria, dipendente dallo Zavnoh e formato da una trentina di croati più un italiano, proclamò l’unione dell’Istria alla «propria madrepatria» e «l’unificazione con gli altri fratelli croati». Il 16 settembre il Consiglio di liberazione nazionale sloveno (Snos, equivalente allo Zavnoh) dichiarò l’annessione del non meglio definito Litorale, comprendente i Comuni di Capodistria, Isola, Pirano, Cosina e Matteria, alla Slovenia popolare nella Jugoslavia federale. Il 20 settembre lo Zavnoh dichiarò decaduti i trattati italo-jugoslavi del 1920 e 1924 e quello italo-ustascia del 1941, annettendo Istria, Fiume e Dalmazia alla «Madre Patria croata, e attraverso questa alla nuova fraterna Federazione Democratica dei Popoli della Jugoslavia», ma garantendo l’«autonomia» alle «minoranze italiane».

Ancora a Pisino, divenuto il capoluogo titoista della provincia, un meno fantomatico Comitato provvisorio di liberazione popolare dell’Istria il 25 settembre 1943 confermò le decisioni del 13 settembre, prese atto «con soddisfazione» di quelle del 20 settembre e il 26 settembre lanciò un proclama «Al popolo istriano» in cui, salutando «con entusiasmo lo storico atto del 13 settembre 1943 che segna il distacco dell’Istria dall’Italia e la sua incorporazione nella madre Croazia e Jugoslavia», rammentando che tutte le leggi italiane erano da ritenersi abrogate, annunciava che la lingua della Chiesa sarebbe stata il croato, che tutti i toponimi, i nomi e i cognomi italianizzati sarebbero tornati alla forma croata, che sarebbero state aperte scuole croate e che alla «minoranza italiana» sarebbero stati garantiti i diritti nazionali (lingua, istruzione, informazione, autonomia culturale…), ma che gli italiani «immigrati in Istria dopo il 1918, con lo scopo di snazionalizzare e sfruttare il nostro popolo», sarebbero stati «restituiti all’Italia». Il 29 novembre il Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia (Avnoj) ratificò le decisioni dello Snos e dello Zavnoh. Tutte queste delibere annessionistiche furono unilaterali e in contrasto con il principio di autodeterminazione dei popoli proclamato dalla Carta Atlantica, sulla quale avrebbe teoricamente dovuto fondarsi la lotta delle Nazioni Unite contro il nazi-fascismo.

A Rovigno i partigiani rimasero dal 16 al 22 settembre e, fuggiti dopo un attacco tedesco, vi ritornarono a fine mese. I partigiani del comando croato di Pinguente, occupate Capodistria e Isola il 27 settembre con l’apporto di insorti sloveni dell’entroterra, se ne andarono dopo due giorni, visto l’afflusso di tedeschi lungo la strada costiera, ma non senza aver liberato dalle prigioni molti detenuti comuni anche pericolosi.

Nel loro furore rivoluzionario i partigiani, sempre più allineati alle direttive titoiste, arrestarono o rapirono oltre un migliaio di italiani, soprattutto uomini ma anche donne, ex fascisti, antifascisti, filo-monarchici o apolitici, di ogni età e ceto sociale, e li condussero forzatamente in luoghi di detenzione a Pisino, Pinguente, Albona o Santa Marina di Albona. Specie a partire dal 22 settembre e con maggiore frequenza ai primi di ottobre, a volte dopo frettolosi processi farsa conclusi con pretestuose condanne a morte ma più spesso senza alcuna formalità, ne gettarono diverse centinaia (spesso vivi) in foibe, caverne o pozzi dell’Istria interna oppure li uccisero con colpi d’arma da fuoco e poi li fecero sparire in qualche cava di bauxite, o altrimenti li annegarono facendoli poi colare a picco con una pietra al collo. Ne occultarono le salme per nascondere i mostruosi crimini compiuti e poterli poi negare, ridimensionare o attribuire ad altri.

Molte delle vittime, prima dell’esecuzione, furono maltrattate, torturate o stuprate con grande e gratuita crudeltà. La loro unica colpa era di essere convintamente italiane, di far parte del ceto dirigente locale (magari come semplici insegnanti o impiegati), di non volere la Jugoslavia comunista o in ogni caso di non essere benvisti dai loro carnefici. Nell’ottica dell’instaurazione di un regime comunista jugoslavo, tale sanguinosa e arbitraria epurazione preventiva, affiancata da altri abusi, era tesa ad eliminare sul nascere potenziali avversari politici o comunque soggetti poco arrendevoli. Nessuno di costoro era in quel momento fascista, poiché il regime era cessato il 25 luglio 1943 e in Istria aveva debolmente tentato di ricostituirsi dopo il 12 settembre solo a Pola in posizione subordinata all’occupante nazista. La violenza rivoluzionaria, programmata a tavolino secondo la prassi stalinista, colse di sorpresa la stragrande maggioranza degli istriani, italofoni e non. Nulla l’aveva fatta presagire, tanto più che, dopo le dimissioni di Mussolini, il fascismo era solo un ricordo. Non si trattava insomma di fuoco che covava sotto la cenere, ma di un brutale disegno politico preordinato da un manipolo di rivoluzionari infiltratisi in Istria i quali, con il concorso di pochi fanatici locali, avevano saputo conquistarsi l’appoggio di una fetta della popolazione slavofona e di una infima minoranza di quella italofona. In alcuni casi l’ideologia servì a coprire squallide rivalse personali compiute da vicini di casa, conoscenti, domestici, mezzadri o lavoranti, anche per semplice invidia, cupidigia o gelosia. Alcuni degli autori delle stragi erano appena fuggiti di prigione. A Lussino i titini sterminarono circa 160 tra cetnici (cioè serbi monarchici anticomunisti) filo-italiani e loro sostenitori.

Fu questa la prima ondata di infoibamenti. Il numero esatto degli infoibati del 1943 non è stato ancora accertato con esattezza, ma le stime oscillano fra le 500 e le 900 unità. Il recupero di parte delle salme, a volte orrendamente mutilate, venne attuato dai vigili del fuoco di Pola fra l’ottobre 1943 e il febbraio 1945 con la protezione militare a difesa da possibili attentati partigiani. Ai poveri resti delle vittime fu data sepoltura con grande e commossa partecipazione popolare. La notizia dei massacri rafforzò nella grande maggioranza della popolazione italiana l’ostilità verso i titoisti, ma anche la grande paura di un loro ritorno.

Le esecuzioni di massa furono accelerate quando, tra il 2 e il 10 ottobre, i nazisti occuparono rapidamente l’intera Istria e, a seguire, le isole quarnerine. Le vittime di questa pesante e vittoriosa offensiva militare si contarono non solo fra i partigiani, ma anche fra la popolazione civile sia slava che italiana di ogni tendenza politica, visto che le Waffen SS attuarono vere e proprie stragi durante i rastrellamenti successivi agli scontri armati. Le fonti tedesche parlarono di ben 2.500 partigiani uccisi e 2.800 prigionieri: cifre probabilmente esagerate per ben figurare presso i vertici militari. Già il 27 settembre però un bombardamento aereo tedesco su Pisino e Gimino aveva provocato numerosi morti.

Le nuove autorità naziste assunsero nel Litorale Adriatico il controllo militare, politico e civile impedendo che si adottasse la legislazione della Repubblica Sociale Italiana, limitando la presenza di truppe repubblichine e favorendo sloveni e croati secondo la vecchia politica asburgica del divide et impera. Prefetti e podestà nominati dal supremo commissario erano italiani, ma accanto avevano un vice sloveno o croato e un consigliere tedesco. Fu vietata o comunque poco gradita l’esposizione di simboli della Rsi. A Capodistria il 22 maggio 1944 fu perfino fatto smontare, per presunte necessità di difesa antiaerea, il monumento al martire irredento anti-austriaco Nazario Sauro, che poi i titini distruggeranno. Furono autorizzati organi di stampa e ripristinate scuole in lingua slovena e croata. I reparti militari della Rsi dovettero assumere denominazioni diverse e quelli della Decima Mas giunti nell’inverno 1944 vennero allontanati nel febbraio 1945 perché poco ossequienti ai tedeschi. I Carabinieri reali furono sciolti il 25 luglio 1944 in quanto sospettati di scarsa fedeltà e i loro effettivi furono inglobati in altri reparti. Nella provincia giunsero anche formazioni armate croate, slovene, russe, ucraine, mongole e tartare sotto comando tedesco.

I partigiani, rifugiatisi nelle aree più interne, effettuarono imboscate e scontri a fuoco con reparti tedeschi e italiani, atti di sabotaggio e disturbo (specie sulla linea ferroviaria Trieste-Pola, con furti ai passeggeri), confische di generi alimentari ai contadini e rapimenti di civili da arruolare forzosamente. Il 27 febbraio 1944 attaccarono le carceri di Rovigno. Le rappresaglie naziste furono spesso dure e colpirono anche innocenti, sacerdoti compresi. I partigiani e i loro fiancheggiatori catturati venivano giustiziati o, dopo un periodo di detenzione e tortura, finivano nei lager in Germania. A rinfoltirne le file furono le chiamate alle armi dal 10 marzo 1944 e 30 luglio 1944: allora presero infatti la via del bosco diversi giovani, anche italiani, che non intendevano andare né con i tedeschi, né con i fascisti.
Dall’autunno 1943 il Pci di Trieste, aderente al Comitato di liberazione nazionale (Cln), organizzò alcune formazioni autonome (Battaglione Zol, Battaglione Alma Vivoda, Brigate Garibaldi) che inizialmente lottarono contro tedeschi e fascisti in Istria e sul Carso, ma che poi, falcidiate nei combattimenti, furono assorbite dall’Of e spostate nella Slovenia interna affinché non ostacolassero i disegni jugoslavi. I loro comandanti militari e politici, quasi sempre fedeli alla linea internazionalista e contrari all’annessione, vennero uccisi, fatti catturare dai nazisti o esposti al fuoco nemico.

L’assoggettamento completo dei reparti italiani all’Of avvenne nell’autunno 1944 dopo l’uscita del Pci triestino dal Cln, accusato di nazionalismo, e l’appello a collaborare con l’Of. Il Battaglione Pino Budicin, costituito da italiani dell’Istria centro-meridionale in memoria di un antifascista rovignese eliminato dai nazisti per probabile delazione titina, cercò di operare autonomamente, ma fu presto mandato a combattere fuori dall’Istria per non intralciare i piani annessionisti. Il tentativo del capitano dei carabinieri Giuseppe Casini di non sottomettersi alla volontà del Partito comunista croato (Pcc) fu punito con la sua fucilazione e con lo sventagliamento dei suoi uomini fuori dall’Istria. Ormai l’Istria era considerata annessa alla nascente Jugoslavia popolare e nessun’altra autorità politica o militare era ammessa. Per giunta il Cln Alta Italia condiscese alle richieste jugoslave; così gli antifascisti democratici italiani dei Cln di Pola, Capodistria, Isola, Pirano, Fiume, Trieste e Gorizia si trovarono soli, mal collegati fra loro e in mezzo a due fuochi: i nazi-fascisti da una parte, i titini dall’altra. Presidente dell’ultimo Cln triestino fu un sacerdote capodistriano: don Edoardo Marzari.

Voluta dal Pcc e composta dai suoi dirigenti italofoni, tra il luglio 1944 e il marzo 1945 nacque l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume (Uiif) con lo scopo di convincere operai, contadini e intellettuali italiani ad accettare l’annessione. L’Uiif avrebbe dovuto rappresentare la minoranza nazionale italiana nella nuova Jugoslavia, adeguandosi ai voleri della autorità nazional-comuniste rispettivamente croate o slovene. Già dalla tarda estate 1944 i comandi jugoslavi pianificarono l’occupazione della Venezia Giulia e del Friuli orientale, da effettuare prima di quella di Lubiana e Zagabria senza l’impiego di partigiani italiani. Il comitato centrale del Partito comunista sloveno (Pcs) il 7 marzo 1945 diede ordini per l’occupazione di Trieste e la deportazione dei «reazionari» in Slovenia e il 29 aprile 1945 dispose di contrastare nei territori giuliani ogni insurrezione anti-nazista che non si fondasse sul ruolo guida della Jugoslavia di Tito. Bisognava dimostrare che solo i titini avevano liberato quelle zone, mentre gli italiani erano stati inerti o complici del nemico. Di concerto, il 7 febbraio 1945 Togliatti intimò al presidente del Consiglio Bonomi di non favorire l’occupazione del Friuli orientale e della Venezia Giulia da parte di partigiani italiani e il 30 aprile invitò la classe operaia triestina ad accogliere le truppe jugoslave come liberatrici.

Tra il settembre-ottobre 1943 e l’aprile 1945 molti italiani d’Istria si sentirono rassicurati dall’impegno nazista contro i partigiani e dunque ritennero l’occupazione nazista il male minore. Diversi giovani si arruolarono nella Milizia difesa territoriale (corrispondente alla Guardia nazionale repubblicana) per rimanere nella loro terra e difenderla dagli “slavo-comunisti”. A Pola ebbe sede una squadriglia di sommergibili e una compagnia di marò della Decima Mas. Il 15 febbraio e il 14 settembre 1944 ci fu la chiamata al lavoro obbligatorio, che riguardò migliaia di uomini (ma nelle campagne anche donne) fra i 16 e i 55 anni. L’intera economia istriana risentì fortemente del clima di paura, precarietà e incertezza che si respirava. Le condizioni di vita peggiorarono conseguentemente.

Pola, città martire, subì fra il 9 gennaio 1944 e il 6 maggio 1945 ben 23 incursioni aeree anglo-americane con oltre 250 morti e non meno di 550 feriti. Le vittime sarebbero state ben superiori se la popolazione non avesse potuto trovare rifugio in 60 riparo anti-aerei. Su 3.225 edifici residenziali, 235 furono rasi al suolo e 2.170 danneggiati, compresi il Tempio di Augusto, il duomo e il chiostro del convento di San Francesco. Andò distrutta metà della rete idrica e il 60% di quella elettrica. Venne pertanto compromessa l’erogazione di acqua ed energia. Furono inoltre colpite tutte le industrie e il 40% delle strade. In realtà Pola non era un obiettivo strategico militare o industriale davvero importante: i bombardamenti rispondevano all’esigenza di persuadere i tedeschi che gli anglo-americani sarebbero presto sbarcati in Istria e di farvi pertanto convergere truppe da altri fronti. Le principali vittime di tale strategia diversiva furono tuttavia i civili. Nel luglio 1944 le autorità tedesche ordinarono lo sfollamento obbligatorio di bambini con meno di 15 anni, immigrati dopo il 1° luglio 1941 (tra cui i profughi delle colonie), pensionati, sinistrati privi di alloggio, ricoverati negli ospedali e istituti assistenziali, residenti in istituti religiosi, persone assistite e donne non impiegate in attività «indispensabili». In agosto e settembre i primi sfollati vennero condotti in Friuli, ma molti fra questi ritornarono furtivamente a Pola. Allora le autorità tentarono di indurre donne non occupate, giovani con meno di 16 anni e ultrasessantenni a trasferirsi a nord della linea Rovigno-Albona, minacciando in caso contrario a fine marzo 1945 la deportazione coatta. Ma i risultati furono scarsi. Alcuni comunque trovarono rifugio presso parenti, specie nell’entroterra.

Subirono attacchi alleati dal cielo anche altri centri istriani. Il 27 maggio 1944 presso Lussinpiccolo velivoli alleati affondarono un piroscafo pieno di profughi zaratini, causando numerose vittime. Il 9 settembre 1944 colpirono un piroscafo di linea partito da Salvore per Trieste, provocando 155 morti e molti feriti; dli alleati dissero di aver pensato che la nave trasportasse truppe tedesche: in realtà, accanto ad alcuni soldati tedeschi, in maggioranza i passeggeri erano civili. Il 22 aprile 1945 i tedeschi fecero saltare i porti di Umago e Isola, con danni anche agli edifici limitrofi. Insieme a loro, anche i fascisti lasciarono Isola, ma vi rientrarono il giorno successivo e il 29 aprile si trasferirono a Capodistria.


Tra jugoslavi e anglo-americani (1945-1947)

Nella seconda metà di aprile del 1945 gli jugoslavi occuparono Veglia, Cherso e Lussino. Il 28 aprile fu la volta di Albona e Abbazia. Quasi tutti i reparti repubblichini seguirono i nazisti in ritirata verso l’Austria e dunque non parteciparono all’ultima difesa della loro terra. Il 30 aprile una colonna tedesca fu attaccata dai partigiani locali a Isola; si registrarono dei morti e i nazisti prelevarono il podestà. Dovendo combattere solo contro poche retroguardie tedesche, il 1° maggio i titini presero facilmente numerose località istriane, nonché Trieste e Gorizia, il 2 maggio Pola, il 3 Fiume. Ma nuclei tedeschi resistettero nel porto e nel castello del capoluogo istriano e fra Volosca e Villa del Nevoso. Gli ultimi presidi tedeschi si arresero il 4 maggio a Salvore, il 6 a Pisino, il 7 a Villa del Nevoso e a Pola. Appena l’8 maggio invece l’armata di Tito entrò a Zagabria e Klagenfurt e l’11 maggio, con l’apporto di partigiani italiani della Venezia Giulia, a Lubiana. I titini avevano potuto vincere la guerra sul piano militare grazie al materiale bellico sottratto all’esercito italiano in rotta e al sostegno britannico, sempre più massiccio dalla seconda metà del 1943. Alla conferenza inter-alleata di Teheran (28 novembre - 1° dicembre 1943) Stalin, Churchill e Roosevelt avevano riconosciuto Tito come alleato. Ma il maresciallo, arrivando per primo nella Venezia Giulia, volle porre tutti davanti al fatto compiuto, impedendo l’occupazione anglo-americana, in modo da accampare per la definizione dei confini il diritto di possesso del conquistatore.

Nei territori occupati fu imposto lo stato di guerra con il coprifuoco e gli orologi furono spostati sull’ora di Belgrado. Dal 29 aprile 1945 un CLN espressione di tutti i partiti antifascisti locali governò Isola, pur con il forte condizionamento delle truppe del Fronte di Liberazione sloveno, ma il 13 maggio venne esautorato da un Comitato Esecutivo Antifascista filo-jugoslavo guidato da un comunista italiano.
Il 5 maggio Capodistria, Isola e Pirano furono dichiarate annesse al Litorale sloveno e assegnate al Circondario di Trieste. In tutta l’Istria sotto il controllo delle autorità militari si insediarono i Comitati popolari di liberazione, nominati rispettivamente dal Pcc o dal Pcs, ma nelle principali realtà urbane composti in maggioranza da italiani del posto.

A Pola il Cln dovette agire in clandestinità, mentre a Capodistria, Isola e Pirano furono tollerati solo quelli controllati dai comunisti. Le nuove autorità jugoslave arrestarono e fecero sparire migliaia di persone, sia del posto sia residenti per motivi professionali o di servizio, con la ridicola accusa di essere «nemiche del popolo». Vennero presi di mira coloro che incarnavano l’italianità o comunque erano contrari all’annessione, mistilingui e antifascisti compresi, in modo da prevenire future possibili opposizioni. Molti degli arrestati, in stragrande maggioranza uomini, furono infoibati o comunque uccisi, altri deportati in campi di concentramento per prigionieri nell’interno della Jugoslavia, dove spesso morirono per i maltrattamenti, la denutrizione e le pessime condizioni igieniche, altri ancora costretti anche per lungo tempo a lavori forzati in condizioni di schiavitù.

Nel maggio 1945 militari con la stella rossa fecero prigionieri alle Isole Brioni una quarantina di militi della Difesa Territoriale e della X MAS, li condussero a Val de Rio, presso Lisignano, li posizionarono intorno a una mina subacquea arenata sulla spiaggia e li trucidarono facendola esplodere.
Il 21 maggio lo scoppio (fortuito?) di una mina fra il canale dell’Arsa e Cherso provocò la morte o il ferimento di parecchi dei circa 350 prigionieri italiani che, prelevati dalle carceri di Pola e legati fra loro con il fil di ferro, dopo essere stati condotti a piedi fino a Fasana e imbarcati sulla vecchia motocisterna «Lina Campanella», stavano venendo trasportati verso Buccari per l’internamento. Quanti finirono in mare furono o maciullati dalle eliche o spietatamente mitragliati dai titini. Solo pochi riuscirono a trovare scampo su barche da pesca. Coloro che invece nuotarono fino a riva vennero arrestati di nuovo e condotti in campi di concentramento o ai lavori forzati.
Dalla sola Pola all’11 aprile 1947 risultavano scomparse ben 827 persone: 637 civili e 190 militari. In tutta la Venezia Giulia le vittime furono migliaia. Spesso la scelta di chi arrestare dipese dalle delazioni di concittadini o compaesani collaborazionisti.

L’Accordo di Belgrado (9 giugno 1945) divise la Venezia Giulia in Zona A, con la parte occidentale delle province di Trieste e Gorizia, la città di Pola e gli ancoraggi dell’Istria occidentale, sotto il Governo Militare Alleato (Gma), e Zona B, con la provincia di Fiume, quella di Pola meno il capoluogo e la parte orientale di quelle di Trieste e Gorizia, sotto il Governo Militare Jugoslavo. Il 12 giugno le truppe anglo-americane occuparono la parte settentrionale della Zona A fino a Ospo, Scoffie, Crevatini e Punta Grossa, mentre quelle britanniche raggiunsero Pola il 16 giugno. I titini, asportati macchinari e arredi da fabbriche e ospedali, evacuarono anche i centri costieri tra Capodistria e Fasana, ma presto vi ritornarono, visto che gli anglo-americani non li avevano occupati come previsto.
L’amministrazione civile della Zona B fu assegnata a tre Comitati popolari, rispettivamente per l’Istria, il Litorale Sloveno e Fiume. Il Distretto di Capodistria, comprendente anche i Comuni di Isola e Pirano, fu sotto controllo sloveno. Si cambiarono i nomi a molte vie e piazze per sottolineare la presenza del nuovo regime, mentre nelle aree interne fu introdotto il bilinguismo o il monolinguismo rispettivamente croato o sloveno. In un crescendo furono adottate misure per omologare i territori occupati al resto della Jugoslavia. Dopo le iniziali uccisioni o deportazioni di elementi sospetti si mirò ad assoggettare al controllo politico ogni aspetto della vita civile. Fu introdotta la leva obbligatoria, in modo da allontanare i giovani italiani e indottrinarli al nuovo credo. Il personale amministrativo fu licenziato, costretto a lavorare senza stipendio o sottoposto a gravi pressioni. Molti nuovi dirigenti giunsero da fuori quali emissari di partito. Il pagamento delle pensioni fu sospeso in attesa del completamento delle indagini sui beneficiari. Il commercio ambulante fu soppresso e quello privato sottoposto a limitazioni, vessazioni e campagne diffamatorie che con il tempo lo soffocarono. Si tese a centralizzare la raccolta e la distribuzione delle merci.
La libertà di stampa, di riunione e di associazione fu progressivamente abolita, la corrispondenza sottoposta a censura, le banche controllate. I quotidiani ufficiali in lingua italiana erano a Pola “Il nostro Giornale” e a Fiume “La Voce del Popolo”. Il 12 agosto 1945, all’insegna di una fasulla fratellanza e unità, fu istituita l’Unione Antifascista Italo-Slava della Regione Giulia (Uais), una sorta di contenitore delle organizzazioni filo-jugoslave che organizzò la propaganda e una raccolta forzata di firme pro annessione.

Nell’ottobre 1945 i partiti democratici ancora operanti furono sciolti e i loro dirigenti perseguitati. Il 13 agosto venne fondato il Partito comunista della Regione Giulia, filo-jugoslavo. Erano considerati «onesti e buoni» solo gli italiani che rinnegavano la propria madrepatria; gli altri erano «reazionari», «nemici del popolo» o «fascisti mascherati». Ma fra gli italiani della Venezia Giulia erano favorevoli o non contrari all’annessione solo una minoranza di operai, contadini e intellettuali specie di Pola, Rovigno e Albona. Un censimento tendenzioso jugoslavo rilevò nell’ottobre 1945 che in Istria su 337.408 abitanti c’erano 234.166 croati (69,4%) e solo 92.788 italiani (27,5%). Per giunta – si diceva – la minoranza italiana era concentrata in tante piccole isole urbane attorniate dal «mare slavo» delle campagne, da cui dipendevano e di cui avrebbero dovuto seguire la sorte.

Nell’ottobre 1945 le esportazioni e importazioni in Zona B vennero limitate e fatte passare mediante un’unica ditta di provata fede. La Banca per l’economia per l’Istria assunse il monopolio delle operazioni finanziarie. Il 18 ottobre la lira fu sostituita dalla jugolira, non spendibile né in Zona A, né in Italia, né in Jugoslavia, con un cambio svantaggioso che impoverì ulteriormente la popolazione, impedì gli acquisti a Trieste e ridusse la quantità e varietà di merci reperibili nei negozi. Tutte queste misure servivano a separare sempre più nettamente le due zone. Il 29 e 30 ottobre i capodistriani reagirono con uno sciopero-serrata, ma furono puniti da squadracce titine del circondario che devastarono negozi, picchiarono diverse persone e uccisero due persone. Il 25 novembre la popolazione fu chiamata a eleggere l’Assemblea popolare regionale dell’Istria e i Comitati popolari cittadini e distrettuali in un clima di intimidazione. Le uniche liste ammesse erano quelle presentate dall’Uais. Molti di coloro che non intendevano recarsi alle urne furono prelevati a forza. Ciononostante votò solo l’87,26% degli aventi diritto e nelle aree a maggiore presenza italiana le percentuali furono ancora più basse. Alto fu il numero di schede annullate in segno di protesta. Capodistria e Pirano furono escluse dalla consultazione perché «durante il periodo fascista e l’occupazione germanica costituivano centri di terrorismo fascista». Presidente dell’esecutivo del Comitato popolare regionale fu un croato albonese oriundo di Spalato e segretario un altro croato albonese oriundo di Sussak. I vice furono invece italiani. Su 15 membri, 8 furono i croati e 7 gli italiani.

La repressione crebbe in vista dell’arrivo della commissione inter-alleata che nel marzo 1946 visitò alcuni centri dell’Istria. Da gennaio le commissioni di epurazione licenziarono o retrocessero di grado o funzione quanti erano stati fascisti, avevano collaborato con questi, combattuto contro i partigiani e gli alleati o comunque operato «contro il popolo», il che significava essere contrari all’annessione o magari dichiararsi italiani in zone che le autorità consideravano esclusivamente slave. Naturalmente chi rimase senza lavoro, se non venne anche espulso o minacciato di allontanarsi, dovette cercare rifugio e fonti di sostentamento a Trieste. Intanto proseguirono confische, espropri e nazionalizzazioni di beni privati di cittadini giudicati infidi. Alcune famiglie furono costrette a ospitare in casa militari jugoslavi. Furono aumentate le imposte sulla ricchezza mobile e introdotte tasse sugli interessi e i redditi finanziari. Furono distribuite nuove carte d’identità con i nomi scritti nella grafia slava, a Pirano venne asportato il leone di San Marco e a Pisino demolito l’edificio bombardato del ginnasio-liceo. In generale aumentarono le misure vessatorie e poliziesche e fu reso più difficile il transito verso la Zona A. Durante la visita della commissione furono inscenate dalle autorità manifestazioni pro jugoslave a cui era obbligatorio partecipare; tuttavia alcuni cercarono per vie traverse di comunicare agli anglo-americani la volontà di tornare all’Italia.
Nel maggio 1946 fu disposto nel Distretto di Capodistria il sequestro dei beni del «nemico», dei «criminali di guerra» e dei loro collaboratori e sostenitori, compresi gli «assenti», ovvero quanti erano esodati dopo l’8 settembre 1943 o dopo il 1° maggio 1945. Il settore commerciale fu sempre più statalizzato con esiti negativi tanto per i produttori, sfruttati, che per i consumatori, privati di beni anche essenziali e gravati dall’aumento dei prezzi. Le attività agricole furono sottoposte al controllo politico. Nel novembre 1946 fu stabilita l’assegnazione in proprietà della terra ai contadini che l’avevano coltivata almeno da 15 anni fino al 9 novembre 1943, con il conseguente esproprio senza indennizzo dei proprietari. Fu inoltre decisa la restituzione degli appezzamenti ai contadini slavi che li avevano dovuti vendere dopo il 1° gennaio 1919. Anche in questo caso era previsto l’esproprio senza indennizzo degli attuali proprietari.

Il 27 marzo 1947 a Cittanova fu imposta la segnaletica bilingue italiano-croato. In aprile il bilinguismo italiano-sloveno fu imposto a Capodistria, Isola e Pirano, con l’obbligo di studiare lo sloveno alle scuole medie. Con l’anno scolastico 1946-47 vennero chiuse le scuole superiori italiane di Parenzo.
Nel 1946 si accentuò la politica anti-religiosa in Zona B. Il 7 aprile il vescovo di Parenzo e Pola Raffaele Radossi denunciò il comportamento intimidatorio delle autorità jugoslave. La Diocesi di Trieste-Capodistria lamentò asporti di libri canonici, violenze e restrizioni ai sacerdoti, diminuzioni o ritardi nel pagamento della congrua e limitazioni all’Azione Cattolica. Il 18 giugno fu impedito al vescovo Antonio Santin, già aggredito il giorno precedente a Opicina, di celebrare a Capodistria i riti per la festa del patrono. Il 4 luglio fu devastata la sede dell’Azione Cattolica di Isola. L’11 settembre don Francesco Bonifacio, curato di Villa Gardossi (attuale Crassizza), fu rapito, ucciso e fatto sparire da alcune guardie popolari che volevano eliminare un prete scomodo perché onesto e coraggioso, punto di riferimento certo per i suoi fedeli. Il 19 giugno 1947 a Capodistria il vescovo Santin fu aggredito e ferito. Il 28 agosto a Lanischie (Ciceria), durante un’aggressione squadrista, il sacerdote istro-croato don Miro Bulesić venne brutalmente assassinato e il monsignore sloveno Jakob Ukmar, designato amministratore apostolico per la parte delle diocesi di Trieste-Capodistria e Gorizia da cedere alla Jugoslavia, ferito.

In varie località della Zona B si costituirono Cln clandestini, che fecero riferimento al Cln per l’Istria, costituitosi nel gennaio 1946 a Trieste ad opera di antifascisti democratici istriani esuli. Mezzo di diffusione delle loro istanze e di esortazione per i rimasti a resistere sul posto con la non collaborazione fu “Il grido dell’Istria”, periodico distribuito gratuitamente in Zona A e in forma clandestina in Zona B. Per il CLN istriano la restituzione dell’Istria all’Italia avrebbe dovuto accompagnarsi al rispetto dei diritti di croati e sloveni e al ripristino della democrazia. Coraggiosi gruppi di patrioti fecero uscire clandestinamente a Rovigno il foglio “Va’ fuori ch’è l’ora” e a Parenzo “La nostra Voce” per denunciare l’oppressione titina e promuovere la resistenza pacifica. Il governo italiano finanziò sia tale attività propagandistica sia l’attività assistenziale che il CLN istriano attuò tanto fra i profughi a Trieste quanto fra i “rimasti” con denaro, viveri e indumenti. In testa alla graduatoria dei beneficiari stavano i familiari di infoibati e deportati, seguiti da disoccupati e licenziati dalle amministrazioni statali, familiari di caduti nella lotta di liberazione, familiari di prigionieri e dispersi, profughi, pensionati e infine attivisti dei CLN clandestini. Inizialmente tanto il governo De Gasperi quanto il CLN per l’Istria si prefiggevano di far rimanere il maggior numero possibile di istriani nella loro terra per non lasciare libero il campo agli jugoslavi, contrastando così l’opera di snazionalizzazione in atto.
La Zona A della Venezia Giulia fu suddivisa in tre Aree, ognuna con a capo un commissario. Ai vertici dell’amministrazione civile di Pola, Trieste e Gorizia, agli ordini del comandante supremo alleato, andarono inizialmente ufficiali anglo-americani, a Pola solo britannici. Fu mantenuta in vigore la legislazione italiana precedente l’8 settembre 1943, salvo le norme razziste, ma non fu introdotta quella successiva. Sloveni e croati ebbero nuovamente scuole, giornali, luoghi di ritrovo e ogni altro diritto nazionale. Una commissione di epurazione di prima istanza giudicò e in alcuni casi sanzionò quanti avevano collaborato con i nazisti e avevano fatto carriera grazie al fascismo, ma vennero rimessi in discussione i licenziamenti operati dai Cpl.

Pola uscì dalla guerra con tutte le conseguenze dei bombardamenti, dei combattimenti tra tedeschi e partigiani, dei macchinari industriali smantellati dai tedeschi prima e dai titini poi, della disoccupazione e dei difficili approvvigionamenti alimentari. In città cominciarono a rientrare gli sfollati, che però molto spesso non avevano più né casa (almeno 1.100 famiglie, anche perché alcuni militari alleati alloggiavano in appartamenti privati) né lavoro. Il 30 agosto 1945 fu inaugurato il primo campo per sfollati e dall’autunno si avviò la ricostruzione degli edifici e il restauro dei monumenti distrutti. Ma il problema dei senza tetto si acuì con l’esplosione (fortuita?) di due depositi di munizioni il 5 dicembre 1945 e il 12 gennaio 1946. E al momento dell’esodo i polesani non avranno ancora incassato il contributo per le spese di ricostruzione e gran parte dei risarcimenti per le distruzioni belliche. L’enclave comprendeva solo la città con un limitatissimo retroterra: meno di un terzo del territorio comunale. Pola viveva accerchiata: un solo traghetto la collegava a Trieste tre volte alla settimana impiegando cinque ore, un altro a Venezia, mentre la ferrovia attraversava la Zona B ed era pertanto assai imprudente utilizzarla.

Il 30 giugno 1945 il Comitato Cittadino Polese (Ccp), uscito dalla clandestinità, chiese al Gma di togliere al Cpl i suoi residui poteri nel campo alimentare, finanziario e industriale; i vertici anglo-americani tentarono una mediazione, respinta dai titoisti. Il 29 luglio uscì il primo numero del quotidiano democratico, antifascista, patriottico e filo-occidentale “L’Arena di Pola”, che svolse anche un importante ruolo di avvicinamento del ceto operaio alla causa nazionale. Il 4 agosto vi furono manifestazioni contrapposte in concomitanza con la visita del comandante britannico Alexander. L’11 agosto dal Ccp sorse il Cln di Pola, composto da Democrazia Cristiana, Partito Socialista di Unità Proletaria, Partito d’Azione, Partito Repubblicano Italiano e Partito Liberale Italiano, con un proprio rappresentante nel Cln della Venezia Giulia ma con deboli addentellati a Roma. Il nuovo organismo politico chiese invano il 1° settembre al governo italiano di attivarsi affinché l’Istria, Fiume, Cherso e Lussino fossero occupate da una potenza neutrale. Il 13 settembre, dopo il rifiuto del Cpl, un rappresentante del Cln fu nominato dal Gma presidente del Consiglio comunale, che svolse anche le funzioni di Consiglio di Zona. Le organizzazioni titoiste non lo riconobbero e ne boicottarono l’attività inscenando cortei, comizi e scioperi. Oltre che fra molti autoctoni slavofoni, avevano un seguito tra parecchi operai italofoni allettati dal socialismo jugoslavo.

Fino al 31 dicembre 1945, con i pochi denari provenienti da Roma, il Cln aiutò finanziariamente i propri concittadini bisognosi e i connazionali della Zona B perseguitati dai Poteri popolari; poi il compito passò al Comitato per l’Assistenza postbellica, espressione del governo italiano. Il 12 settembre iniziò a trasmettere (in italiano e croato) Radio Pola. Il 2 ottobre nacque con finalità assistenziali l’Unione Esuli Istriani, composta da quanti avevano raggiunto Pola dalla Zona B (ma anche da Fiume e Zara) per salvaguardare la propria incolumità e libertà (1.200 persone nel luglio 1946).

Lo scontro politico si imperniò sulla scelta di campo fra Italia e Jugoslavia, nonché fra Occidente democratico-capitalista e blocco stalinista. Il 4 novembre una violenta contromanifestazione titoista ostacolò le cerimonie per la vittoria nella Prima guerra mondiale e fino ai primi mesi del 1946 le organizzazioni filo-jugoslave dimostrarono una notevole forza. Crebbero però quelle filo-italiane con la nascita dei Sindacati Giuliani alternativi ai Sindacati Unici, dell’Associazione Partigiani Italiani che raggruppò anche ex combattenti nelle file jugoslave, l’Associazione Militari Internati in Germania e altre associazioni studentesche, culturali, ricreative e sportive patriottiche coordinate da un Cln sempre più attivo e influente. Ma intanto le fabbriche restavano chiuse o avevano poche commesse, mentre gli imprenditori non investivano a causa dell’incerto futuro, i prezzi aumentavano, tanti erano senza casa e sempre più persone vivevano di assistenza. E il clima di tensione e violenza in città non si placava.

Una svolta nei rapporti di forza tra i due schieramenti contrapposti si verificò in concomitanza con la visita della Commissione inter-alleata per la delimitazione dei confini. Il 19 marzo 1946 si costituì la sezione della Lega Nazionale, cui aderirono subito migliaia di persone. Il 22 marzo, dopo un poco affollato sciopero e una manifestazione pro Jugoslavia cui avevano partecipato soprattutto slavi portati dalla Zona B, circa ventimila polesani scesero spontaneamente per le strade invocando l’Italia. Alcuni lo fecero inalberando la bandiera rossa, a dimostrazione che ormai non tutti i comunisti si identificavano più con Tito.

Dopo il 5 maggio 1946 i CLN di Pola e per l’Istria aderirono alla proposta di plebiscito volta a determinare democraticamente un confine etnico oggettivo che lasciasse il minor numero di cittadini sotto governo straniero. Sindacati e organizzazioni imprenditoriali indissero per il 26 giugno uno sciopero-serrata pro Italia e pro plebiscito cui partecipò gran parte della cittadinanza. Ma il governo De Gasperi non accolse le ripetute sollecitazioni a sostenere tale soluzione, mentre il disaccordo tra i Quattro Grandi su come e dove effettuare il plebiscito portò all’accantonamento della proposta. Il 3 luglio 1946 Usa, Urss, Regno Unito e Francia resero nota la loro intenzione di adottare come nuovo confine italo-jugoslavo la linea francese e di istituire fra Duino e Cittanova il Territorio Libero di Trieste. Pola e gran parte dell’Istria sarebbero state così cedute alla Jugoslavia.

Fin dal giorno seguente “L’Arena di Pola” parlò di esodo come unica alternativa alla schiavitù e alla snazionalizzazione. Rispose “Il Nostro Giornale”: «Partiranno i fascisti vecchi e nuovi», «le bande di “esuli” ben pagati e sovvenzionati», «qualche riccone che teme per i guadagni illeciti e che capisce che nel nuovo sistema non sarà più possibile rubare a man salva»; ma resteranno gli antifascisti, «i lavoratori onesti, gli operai», «gli impiegati», «il popolo tutto». Invece entro il 28 luglio dichiararono la propria intenzione di esodare, nel caso di annessione alla Jugoslavia, ben 28.058 dei 31.700 cittadini che risultavano ufficialmente presenti a Pola (ma in realtà il loro numero era più elevato), ovvero l’88,51%. Fra questi: 13.959 operai disoccupati, pensionati o invalidi (il 49,75%), 5.764 operai occupati (il 20,54%), 1.333 artigiani (il 4,75%), 1.273 commercianti ed esercenti (il 4,53%), 439 industriali (l’1,56%) e 454 professionisti e artisti (l’1,61%). Sarebbero rimasti solo 3.642 residenti (l’11,48%). Dunque una scelta plebiscitaria, interclassista, trasversale, espressione di un popolo unito nel nome dell’Italia, vista come patria ma anche come garanzia di libertà, di democrazia, di incolumità personale, di aderenza alle tradizioni anche religiose, di futuro economico e di realizzazione professionale.

Il 18 agosto 1946 l’esplosione di una trentina di ordigni accatastati presso la spiaggia di Vergarolla, affollata di famiglie italofile polesi e da profughi dalla Zona B che assistevano alle gare natatorie di ispirazione patriottica, provocò la morte forse di un centinaio di persone (65 quelle identificate, tra cui 15 sotto i 12 anni) e il ferimento di numerose altre. Fu un’orrenda carneficina, fra le più micidiali della storia dell’Italia repubblicana. Le finestre di numerosi edifici in un ampio raggio andarono in frantumi e il fumo nero sollevatosi dal luogo dell’esplosione si rese visibile a chilometri di distanza. L’intera cittadinanza rimase scioccata e partecipò ai funerali. Tempo prima artificieri italiani, su incarico delle autorità alleate, avevano tolto agli ordigni il detonatore, che qualcuno aveva rimesso. Una commissione di indagine britannica escluse lo scoppio fortuito, ma non individuò i colpevoli anche per evitare attriti con la Jugoslavia e complicazioni internazionali. La vox populi parlò subito di attentato titino volto a fiaccare la volontà di resistere dei filo-italiani proprio quando la Conferenza della pace stava per decidere la sorte della città. Il drammatico evento indusse i filo-italiani al pessimismo e rafforzò anche nei più titubanti la convinzione che l’esodo fosse ormai l’unica garanzia di sopravvivenza, oltre che di libertà e di mantenimento della cittadinanza italiana. Le decisioni finali di Parigi confermarono tale amara determinazione, che fino all’autunno 1946 fu contrastata sia dal Gma che dal governo De Gasperi, il quale indennizzò le famiglie delle vittime e dei feriti.

Testimonianze oculari affermarono di aver sentito una detonazione subito prima dello scoppio e di aver visto in mattinata un uomo ben vestito stendere un “filo” lungo la pineta, tagliarlo con un coltello e aggiuntarlo in più punti: era un congegno elettrico a distanza. Un altro sconosciuto fu visto arrivare su una barchetta di idrovolante alla banchina di un vicino cantiere navale; disse di venire da Brioni, che era sotto occupazione jugoslava. Dopo l’esplosione furono trovati in una vicina cava tracce di apparati per l’innesco remoto uguali a quelli delle miniere dell’Arsa, anch’esse occupate dagli jugoslavi. Testimoni raccontano inoltre dei festeggiamenti titoisti in un’osteria di Monte Grande per il massacro.

Documenti di matrice italiana rinvenuti negli ultimi anni presso gli archivi britannici indicano il nome di uno degli attentatori, un agente dell’Ozna-Udba di Fiume, mentre indagini private ne hanno scoperto un secondo, di Pola, anch’egli appartenente a quell’organizzazione. Prima di Vergarolla, da parte filo-jugoslava era stata espressa la volontà di boicottare qualsiasi manifestazione, anche sportiva, filo-italiana. Non a caso a Trieste l’11 agosto una bomba fu rinvenuta sotto la tribuna della giuria di una gara internazionale di canottaggio, mentre il 14 settembre una bomba scoppiò in un ricreatorio. Nel settembre-ottobre 1946 squadre di sabotatori dell’Ozna-Udba intente a promuovere atti terroristici furono attestate dai servizi segreti inglesi e americani in tutta la Zona A.
Nel Comitato per l’esodo di Pola prevalse già il 20 luglio la posizione di chi voleva lasciare ai futuri esuli la scelta della destinazione, rispetto a chi avrebbe preferito il concentramento nel Tlt. Lo sparpagliamento in zone diverse avrebbe dovuto evitare una lunga permanenza nei campi profughi. Arrivarono offerte di ospitalità da alcuni Comuni italiani e molti auspicarono la nascita di una Nuova Pola a Cesano, vicino Roma. Si prospettò in modo più concreto l’insediamento di 5-6.000 polesani fra Monfalcone e Gorizia e di altri vicino ad Alghero, dove forse sarebbe potuta più facilmente sorgere in riva al mare l’ipotizzata Nuova Pola. Accogliendo le richieste di De Gasperi e del Gma il comitato ostacolò le partenze individuali, che pure vi furono. Il Cln polesano chiese che le partenze fossero rinviate alla primavera, ma in mancanza di assicurazioni che la firma del Trattato di pace, prevista per il 10 febbraio 1947, non avrebbe corrisposto all’immediato passaggio di sovranità e dunque all’avvicendamento tra anglo-americani e jugoslavi, il 23 dicembre, di fronte al panico che stava montando in città, dichiarò aperto l’esodo.

Nel gennaio-febbraio 1947 due motonavi condussero quotidianamente a Trieste quanti avevano già trovato dove depositare le loro masserizie o intendevano insediarsi in Trentino - Alto Adige. Ai polesani in procinto di lasciare per sempre la loro città si aggiunsero circa 5.000 istriani fuggiti dalla Zona B. L’ultimo periodo prima della partenza fu particolarmente difficile vista la progressiva chiusura di negozi e fabbriche, la mancanza di generi alimentari, i prezzi proibitivi, il freddo e la carenza di effetti personali, già imballati con le masserizie. Nella fase precedente all’esodo i disoccupati polesi ammontavano a circa 5.000. Il volto di Pola divenne ogni giorno più spettrale. Prudenzialmente furono asportati anche il monumento ad Augusto, numerose bare dai cimiteri e parte dell’archivio comunale.
Il 3 gennaio 1947 al mulino Sansa di Pola la Polizia civile sparò facendo tre morti e sedici feriti tra gli operai filo-titini che avevano occupato la fabbrica per impedire il pur legittimo trasferimento dei macchinari in Italia.
Il 9 febbraio 1947 alcuni giovani triestini di estrema destra arrivati via mare a Pola assaltarono con due bombe a mano la sede dell’Uais causando quattro feriti, uno dei quali morì il giorno successivo; un’altra bomba esplose presso la sede la redazione de “Il nostro Giornale”, mentre fu devastata anche la sede della DC.
Il 10 febbraio 1947 fu firmato a Parigi il Trattato di pace fra l’Italia e le Potenze alleate e associate, che cedette alla Jugoslavia le intere province di Zara e Fiume, quasi tutta quella di Pola salvo l’Istria nord-occidentale e gran parte delle province di Trieste e Gorizia. In realtà si trattava di un diktat scritto dai vincitori e imposto all’Italia, considerata come un ex nemico sconfitto da punire.

Quello stesso giorno a Pola Maria Pasquinelli, un insegnante lombarda dimorante in città che aveva abbracciato la causa istriana e collaborava con il Comitato per l’esodo, uccise il generale britannico Robert de Winton, comandante della 13ª Brigata di fortezza e massima autorità militare alleata dell’enclave, per protesta contro l’ingiustizia che stava colpendo gli italiani dell’Adriatico orientale con la complicità anglo-americana. La donna si lasciò arrestare. In seguito venne sottoposta a processo da uno corte anglo-americana a Trieste e condannata a morte. La pena fu però commutata in ergastolo e già nel 1964 la Pasquinelli uscì di prigione. Documenti della commissione d’inchiesta alleata rinvenuti successivamente attestano che i servizi segreti inglesi e americani conoscevano le sue intenzioni, ma la lasciarono fare, ed anzi la agevolarono. Il suo esempio comunque non fu seguito da nessun polesano.
Visto il rifiuto alleato di accogliere profughi a Trieste, dal 3 febbraio al 20 marzo quelli in attesa, compresi 5.000 provenienti dalla Zona B, furono trasportati con la motonave Toscana a Venezia o Ancona, dove militanti comunisti italiani li accolsero a fischi e insulti tacciandoli di essere criminali fascisti in fuga dal paradiso dei lavoratori. Da quelle due città la gran parte dei profughi proseguì in treno su carri merci verso decine di campi profughi dell’Italia settentrionale e centrale. Alla stazione di Bologna i ferrovieri della CGIL negarono loro cibo e soccorso. L’esodo via mare si completò poi nei mesi successivi con uno stillicidio di partenze verso Trieste e Brindisi, con il sostegno della Croce Rossa, della Pontificia Opera di Assistenza, del Ministero dell’Assistenza Postbellica e della Marina Militare.
La salma di Nazario Sauro fu dissepolta dal cimitero della Marina a Pola, dove però rimase una lapide, e portata in gran segreto (per evitare reazioni comuniste) a Venezia, prima alla Giudecca e poi definitivamente al tempietto del Lido. La pietra commemorativa, asportata anch’essa da Pola, venne murata a destra dell’entrata del municipio di Venezia a Rialto.

Da Trieste le autorità alleate dirottarono la maggioranza dei polesani verso Monfalcone, Gorizia e il Friuli, mentre da Brindisi le autorità italiane li sventagliarono in vari centri di raccolta dell’Italia meridionale. Le masserizie furono trasferite su nave o ferrovia quando i profughi erano ancora a Pola, cosicché per alcuni giorni si trovarono nelle loro case senza mobili. Fino al 15 settembre 1947 in una città svuotata continuarono il loro lavoro, oltre ai militari, 800 funzionari incaricati di garantire i servizi essenziali e gli addetti al restauro del tempio di Augusto. Entro i primi di aprile circa 300 persone, perlopiù operai dei cantieri di Monfalcone con le loro famiglie residenti nel basso Isontino o nel basso Friuli, si trasferirono in città per il cosiddetto controesodo, volto a edificare il socialismo nella nuova Jugoslavia. Ma vi cominciarono a giungere sempre più numerosi anche istriani slavi della Zona B, che si insediarono nelle case lasciate dagli esuli. Vi furono anche limitati casi di ritorno da alcuni campi profughi. Ai primi di luglio del 1947 risultavano presenti a Pola 15.500 persone.

In base a calcoli recenti, i polesani esodati nel 1947 dovettero essere 22.700, quelli sfollati o esodati fra il 1943 e il 1946 3.400 e quelli partiti dopo il 1947 4.200, per un totale di 30.200. Ma dall’enclave partirono anche circa 5.000 istriani della Zona B che vi avevano trovato rifugio. In città rimasero circa 2.600 italofoni e 6.800 croatofoni autoctoni, cui ben presto si aggiunsero slavi provenienti dall’interno dell’Istria e da tutta la Jugoslavia.


Tra Jugoslavia e Territorio Libero di Trieste (1947-1954)

Il Trattato di pace entrò in vigore fra il 15 e il 16 settembre 1947. Le truppe jugoslave presero possesso di Pola e di un’ulteriore fetta delle ex province di Trieste e Gorizia, ma non si ritirarono da quella parte del previsto Territorio Libero di Trieste che andava da Punta Grossa al Quieto, mentre la parte dal Timavo a Punta Grossa, che tentarono di occupare, restò sotto controllo anglo-americano. Il Tlt era stato concepito come soluzione di compromesso: uno staterello cuscinetto demilitarizzato, trilingue (italiano-sloveno-croato), con un porto franco internazionale e posto sotto la tutela del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che ne avrebbe scelto il governatore fra un cittadino straniero né italiano né jugoslavo. In previsione dello sgombero gli jugoslavi smontarono e trasferirono macchinari industriali nei territori che sarebbero stati ceduti. Visto però il mancato accordo sul nome di tale governatore a causa dell’incipiente Guerra fredda, gli Allegati VI, VII e VIII del Trattato di pace non furono mai applicati. Pertanto le rispettive aree di occupazione anglo-americana e jugoslava divennero le Zone A e B del Tlt, che non era più territorio italiano ma nemmeno territorio ceduto. Questa situazione di limbo si protrasse fino al 26 ottobre 1954. In Zona B l’amministrazione civile fu affidata al Comitato popolare distrettuale dell’Istria, che includeva il Distretto di Capodistria, a guida slovena, e quello di Buie, a guida croata. La maggioranza della popolazione continuò a essere italiana, sebbene perdurasse l’esodo strisciante iniziato già il 1° maggio 1945.

L’entrata in vigore del trattato non pose fine nella neo-istituita Zona B del TLT alle persecuzioni contro gli italiani riluttanti a sottomettersi. Così il 3-4 febbraio 1948 ben cinquanta cittanovesi vennero arrestati per presunta attività ostile ai Poteri Popolari. La stessa sorte toccò ad alcuni operai dei conservifici “Arrigoni” e “Ampelea” di Isola, nonché all’antifascista repubblicano Luigi Drioli e a sei componenti del Gruppo Resistenza Istriana, formatosi in clandestinità allo scopo di reagire con le armi ai soprusi titini. A Pirano le autorità jugoslave requisirono il cantiere “San Giusto”. Le commissioni di epurazione dei distretti di Capodistria e Buie esclusero alcuni sanzionati dall’esercizio dei diritti civili e politici.

Il 20 marzo 1948 i governi americano, britannico e francese con una Dichiarazione tripartita proposero all’Urss la restituzione dell’intero Tlt all’Italia, vista l’impossibilità di costituirlo per davvero e considerato il suo carattere eminentemente italiano. In realtà sapevano che i sovietici, allora “padrini” degli jugoslavi, avrebbero rifiutato e che si sarebbe perciò negoziata la spartizione. Ma gli italiani non comunisti della Zona B in grado di farlo resistettero a casa loro nella speranza di poter essere presto ricongiunti all’Italia. Il 28 giugno 1948 l’espulsione del Partito Comunista Jugoslavo dal Cominform favorì un riavvicinamento di Tito a Usa e Gran Bretagna, che lo sostennero finanziariamente e materialmente quale avamposto e antemurale dell’Occidente. Gran parte dei comunisti italiani della Zona B e dei territori ceduti, compresi i 2.800-3.000 monfalconesi giunti a Fiume e a Pola con il controesodo da varie parti d’Italia, parteggiò come Togliatti per Stalin. Per punirli le autorità titoiste ne imprigionarono molti all’Isola Calva o in altri luoghi detentivi, infliggendo loro terribili maltrattamenti. Altri invece (specie i dirigenti dell’Uiif) si allinearono alle posizioni titoiste. Ma ormai le speranze dei comunisti jugoslavi di poter recuperare alla loro causa una fetta consistente di italiani erano cessate e la prospettiva di un esodo pressoché completo apparve sempre più conveniente per “bonificare” il territorio da elementi infidi. Ne conseguì un inasprimento della repressione in concomitanza dei periodici deterioramenti dei rapporti italo-jugoslavi. Usa e Regno Unito chiesero all’Italia, che pure nel 1949 era entrata nella Nato, di fare sacrifici a vantaggio della Jugoslavia, considerata più importante sul piano strategico-militare.

Gli jugoslavi allentarono ulteriormente i legami tra Zona B e Zona A in vista della spartizione; tra il 28 settembre e il 1° ottobre 1948 processarono a Capodistria sette italiani di Isola accusati di spionaggio e terrorismo, condannandone quattro a diversi anni di carcere; nel luglio 1949 sostituirono la jugolira con il dinaro; nel marzo 1950 abolirono le barriere doganali con la Jugoslavia. Inoltre bloccarono a più riprese i transiti verso la Zona A: in tal modo quanti lavoravano a Trieste facendo i pendolari dovettero scegliere se tornare stabilmente a casa rinunciando al lavoro o trasferirsi a Trieste senza poter più vedere i propri familiari. E questo benché a Trieste comandassero quegli stessi anglo-americani che stavano foraggiando la Jugoslavia per consentirle di restare in piedi e resistere al Patto di Varsavia.

In polemica risposta alle libere elezioni amministrative svoltesi in Zona A il 12 giugno 1949 su iniziativa del GMA, dove erano uscite vittoriose le liste filo-italiane (salvo che nei Comuni a maggioranza slovena di Duino-Aurisina, San Dorligo della Valle, Sgonico e Monrupino), le autorità jugoslave della Zona B indissero per il 16 aprile 1950 le elezioni distrettuali, cui però poterono partecipare solo il Fronte Popolare Italo-Slavo e due liste satelliti. Quanti si rifiutarono di recarsi alle urne per boicottare questa farsa di regime furono prima minacciati e poi prelevati a casa con la forza e spesso anche picchiati e danneggiati nei loro beni domestici. Le squadracce aggredirono anche giornalisti inglesi e italiani affinché se ne andassero e non riferissero le violenze in corso. Un migliaio di istriani della Zona B trovarono allora rifugio in Zona A per aver salva la vita. Era l’ulteriore dimostrazione che i Poteri popolari erano in realtà anti-popolari. I vuoti lasciati dagli italiani vennero presto colmati da slavi provenienti dall’interno, che contribuirono ad alterare il volto etnico del territorio. Il 15 maggio 1952 venne estesa alla Zona B la legislazione jugoslava. Nel 1952 si tenne a Capodistria un processo politico contro sei italiani. Arresti e condanne di istro-italiani si protrassero in Zona B fino al 1955. Il 1° settembre 1955 avvenne un umiliante scambio fra cinque prigionieri politici istro-italiani e quattro sloveni di Moccò (Comune di San Dorligo della Valle), rei di assassinio, che per giunta non vollero essere trasferiti in Jugoslavia.

Continuò intanto la persecuzione del clero. I sacerdoti italiani vennero posti davanti all’alternativa tra rifiutare l’obbedienza al vescovo Santin o andarsene. Il 6 marzo 1948 il processo di Buie contro i frati benedettini di Daila terminò con una sentenza di condanna fino a quattro anni di lavori forzati e alla confisca dei beni del monastero per propaganda sovversiva, occultamento di cereali ed esportazione illegale di generi alimentari in Zona A. Il 12 novembre 1951 mons. Giorgio Bruni, parroco di Capodistria, fu assalito e percosso gravemente a Carcase.
Fra il 1950 e il 1953 numerose scuole o classi italiane furono chiuse, mentre molti allievi di quelle superstiti furono trasferiti d’imperio in scuole o classe slovene o croate se il loro cognome risultava di origine slava. In altri casi genitori italofoni preferirono iscrivere i propri figli alle sezioni slovene o croate credendo in tal modo di garantire loro un migliore trattamento e di evitare grane con i pubblici poteri. L’impatto degli alunni italofoni con la nuova realtà scolastica alloglotta di regime fu pesante, dato che i più non comprendevano la lingua e ci misero anni per impararla a un livello decente. Fra il 1951 e il 1952, 144 docenti italiani dovettero lasciare la Zona B per sottrarsi alle annunciate punizioni nel caso non si fossero sottomessi ai voleri delle autorità. Il 29 marzo 1952 due docenti furono condannati per aver ricevuto denaro dal governo italiano: era un avvertimento indiretto agli altri perché si adeguassero o se ne andassero. A Cittanova per esempio, dove fino al 1945 di croatofoni praticamente non ce n’erano, le prime classi con lingua d’insegnamento croata furono istituite nell’anno scolastico 1953-54, ma da subito accolsero più alunni di quelle con lingua d’insegnamento italiana: segno che vi era stata un’evidente forzatura per dimostrare all’esterno la “vera” identità etnica degli abitanti, oltre che per croatizzare e jugoslavizzare sul serio i giovani cittanovesi.

Nell’Istria ceduta le condizioni riservate agli italiani e in generale agli oppositori politici furono anche peggiori, soprattutto dopo la rottura Stalin-Tito. Ai sensi dell’art. 19 del Trattato di pace, tutti i cittadini italiani che, al 10 giugno 1940, erano domiciliati in territorio ceduto dall’Italia e i loro figli nati dopo quella data avrebbero avuto la facoltà di optare per la conservazione della cittadinanza italiana entro il 15 settembre 1948, a patto che la loro lingua usuale fosse l’italiano. La Jugoslavia era legittimata a costringere gli optanti a trasferirsi in Italia entro un anno, cosa che non esitò a fare. Verso la metà del 1948 le domande aumentarono di molto non solo nelle cittadine costiere, ma anche nei borghi dell’interno come Montona, Dignano, Albona, Visignano, Pinguente, Visinada o Pisino. A presentare domanda furono anche slavi mistilingui insofferenti verso le soffocanti restrizioni del regime.
Fino ai primi anni ’50 però le autorità locali posero un freno alle opzioni rifiutando di accogliere la presentazione delle domande, respingendole oppure negandole ai familiari, ostacolando il trasferimento dei beni mobili o intimidendo in vario modo gli aspiranti. E questo sia per angariare quanti in tal modo esprimevano contrarietà al regime, sia per non perdere manodopera ritenuta indispensabile nelle campagne, nelle fabbriche e nei cantieri. Ma i freni, invece di distogliere, accentuarono il desiderio di andarsene da quel regime oppressivo. Nel settembre 1948 le guardie della Difesa Popolare assassinarono a tradimento due giovani italofoni di Piemonte d’Istria che, non avendo avuta risposta alla domanda d’opzione, avevano attraversato illegalmente il confine con il TLT cercando la libertà e, catturati, erano stati ricondotti indietro. Pochi giorni dopo venne freddato anche un altro compaesano poiché testimone scomodo dell’eccidio. Nell’inverno 1949 dodici giovani croatofoni di Novacco di Pisino morirono mitragliati dalle guardie mentre tentavano di passare quello stesso confine.

I termini per la presentazione delle domande furono prorogati al 16 febbraio 1949. Ma i numerosi ricorsi contro i respingimenti portarono all’accordo italo-jugoslavo del 23 dicembre 1950, che riaprì una nuova finestra dall’11 gennaio all’11 marzo 1951 per quanti risiedevano nei territori ceduti, mentre quanti avevano già raggiunto l’Italia avevano diritto di presentare l’istanza entro il 23 marzo 1951. Ne derivarono molte nuove richieste anche da parte di mistilingui, che però furono in gran parte respinte spesso con il pretesto della mancata appartenenza etnica. A quanti invece concessero l’opzione le autorità intimarono di partire subito con la minaccia, in caso contrario, di severe punizioni.
Sempre ai sensi dell’art. 19, quanti non esercitarono il diritto d’opzione poterono rimanere nei territori ceduti, ma perdettero la cittadinanza italiana e acquisirono d’ufficio quella jugoslava.


L’Istria jugoslava (1954-1991) e la diaspora

Dopo trattative segrete, Regno Unito, Usa e Jugoslavia siglarono il 5 ottobre 1954 a Londra un Memorandum d’intesa che, senza modificare formalmente il Trattato di pace, sancì il passaggio della Zona A all’amministrazione civile italiana e della Zona B più i “Monti di Muggia” all’amministrazione civile jugoslava. Tale sistemazione pratica fu presentata come provvisoria, ma in realtà era un trucco perché britannici e americani avevano promesso agli jugoslavi che sarebbe stata definitiva. Addirittura la Jugoslavia proclamò l’annessione della Zona B, senza che né il Consiglio di sicurezza dell’Onu né alcuno degli stati firmatari del Trattato di pace protestassero per la sua violazione.
Il Memorandum sembrava fatto apposta per favorire la permanenza dei cittadini del mai nato Tlt a casa loro e il ritorno dei profughi: infatti l’art. 6 prevedeva che né l’Italia né la Jugoslavia avrebbero perseguito chi aveva condotto attività politiche inerenti la questione confinaria, l’art. 7 che Italia e Jugoslavia avrebbero dovuto facilitare il movimento terrestre e marittimo transfrontaliero dei residenti nelle due zone, e l’art. 8 che le persone già residenti in una delle due zone sarebbero state libere di farvi ritorno godendo dei rispettivi beni. Lo Statuto speciale annesso al Memorandum stabiliva inoltre norme dettagliate a tutela delle rispettive minoranze. Tuttavia Italia e Jugoslavia non sembrarono particolarmente interessate a che la gente rimanesse in Zona B, tanto che il previsto accordo sul traffico transfrontaliero fu firmato appena il 31 marzo 1955, quando ormai il grande esodo era in corso. Così entro l’agosto 1956, termine ultimo ufficialmente previsto, partì dalla Zona B e dai Monti di Muggia la maggioranza degli abitanti, potendo portare con sé ben poco. Anche in questo caso l’esodo riguardò persone di ogni ceto sociale e convinzione politica, e vi fu pure un certo numero di sloveni e croati o mistilingui delle campagne. Ulteriori partenze si verificarono negli anni successivi per motivazioni varie, specie economiche e familiari.

Si discute ancora sul numero effettivo dei profughi. Alla fine del 1956 il Ministero degli Esteri italiano ne calcolò in tutto 270.000 dai territori passati alla Federativa. I censiti fino al 1954-55 dall’Opera Assistenza Profughi furono 201.440, i quali si riteneva rappresentassero solo l’80% del totale, che ammonterebbe perciò a circa 240.000. Nel 1986 il Comitato di coordinamento tra le associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati ne indicò 350.000, aggiungendo ai 201.440 aventi la qualifica di profugo 35.300 senza assistenza, 54.000 emigrati, 50.700 presunti e 10.000 esodati dopo il 1956. Secondo l’etnografo croato Vladimir erjavić sarebbero in tutto 235.000, di cui 191.421 autoctoni e 43.579 regnicoli giunti dopo il 1918. Sbagliata per difetto è invece la cifra complessiva di 190.000 proposta da alcuni studiosi sloveni e croati. Secondo recenti stime condotte con criteri scientifici, i profughi sarebbero quasi 300.000: 250-255.000 italofoni e 45-50.000 slavofoni. Di questi: 155.000 dall’Istria ceduta nel 1947, 50.000 dalla Zona B, 41.500 dalla Provincia di Fiume, 17.500 dalla Provincia di Zara, 30.000 dalla parte ceduta delle Province di Trieste e Gorizia, 3.100 dai colli muggesani e 2.100 da altre località dalmate. Dunque i profughi istriani sarebbero circa 210.000, intendendo per Istria l’ex provincia di Parenzo (1918-1922): circa il 70% del totale.

Inizialmente l’Italia devastata dalla guerra non riconobbe ai profughi giuliano-dalmati una qualifica particolare. Viste le difficoltà di inserimento, alcuni emigrarono, specie in Nordamerica. L’organizzazione del soccorso iniziò appena con l’esodo da Pola prima tramite l’Ufficio per la Venezia Giulia e poi tramite l’Ufficio per le Zone di Confine, in collaborazione con la Croce Rossa Italiana, la Pontificia Commissione di Assistenza e la Marina Militare. Accanto a edificanti fenomeni di solidarietà, specie nelle zone “rosse” si registrarono anche episodi di intolleranza, incomprensione e insensibilità umana a causa di pregiudizi politici, ignoranza, egoismo o anche difficoltà oggettive.
In tutta Italia i campi o centri di raccolta per profughi istriano-fiumano-dalmati furono almeno 120. Quando non si trattava di ex campi di concentramento per prigionieri, erano ex caserme, fabbriche, scuole o manicomi, ma anche chiese o altri edifici. Le condizioni di vita erano spesso indecorose e offensive per la scalcinatezza delle strutture, l’angustia degli spazi, la promiscuità, la scarsa pulizia, l’assenza di riscaldamento, l’insufficienza di servizi igienici e la ridotta o inidonea alimentazione. Alcuni nuclei familiari vennero separati. Spesso accanto ai giuliano-dalmati vivevano profughi del Dodecaneso, delle colonie e di altri paesi europei o senza tetto.

Ancora più disagevole fu la situazione di quanti, di fronte a minacce o al respingimento dell’opzione, partirono coraggiosamente in barca dalle cittadine costiere dell’Istria, da Cherso o da Lussino raggiungendo l’altra sponda dell’Adriatico. Per costoro e per altri che arrivarono alla spicciolata via terra la fuga verso la libertà si rivelò spesso un’odissea, con sballottamenti da un centro di raccolta all’altro. Lo sradicamento, la disgregazione delle comunità originarie, la lontananza di amici e familiari, l’incomprensione della madrepatria per la quale avevano rinunciato alla loro “piccola patria”, le penose condizioni di vita, la forzata inattività e lo spaesamento intaccarono duramente persone che venivano da realtà micro-urbane o paesane tradizionaliste. L’aiuto materiale e morale ricevuto da quanti li accolsero fraternamente non bastarono a lenire le ferite e a cancellare l’umiliazione subita proprio in nome dell’Italia. Nel 1949 il sospettoso ministro dell’Interno Scelba, temendo infiltrazioni titoiste, stabilì che a tutti i profughi richiedenti il rinnovo della carta d’identità si prendessero le impronte digitali; fece poi marcia indietro solo per l’indignata reazione di parte ecclesiastica.

Presieduto da De Gasperi, nel febbraio 1947 sorse un Comitato Nazionale per i Rifugiati Italiani, divenuto nel 1948 Opera per l’Assistenza ai Profughi Giuliani e Dalmati, che con fondi pubblici realizzò villaggi o borghi periferici in 39 province per complessivi 7.000 alloggi, nonché case di riposo, convitti, preventori, ricreatori e chiese. Così la situazione per i profughi in Italia migliorò. A loro favore operarono anche l’Opera Pontificia, la Croce Rossa Italiana e singole associazioni locali. A soffrire di meno furono i bambini e i giovani, ai quali riuscì più facile integrarsi nelle nuove realtà. Inoltre la ripresa economica degli anni ’50 e le agevolazioni specifiche facilitarono il reperimento di un lavoro con il quale badare a se stessi senza più vivere di assistenza. Tuttavia ancora nel 1963 ben 8.493 profughi giuliano-dalmati vivevano in 15 campi profughi, gli ultimi dei quali restarono attivi addirittura fino a metà anni ’70.
A Trieste ne giunsero a decine di migliaia. Molti vi rimasero, malgrado l’iniziale contrarietà anglo-americana e pur in condizioni alloggiative critiche. Quelli arrivati prima del 15 settembre 1947 poterono addirittura votare alle elezioni amministrative del giugno 1949 nella Zona A del Tlt. Altri si trasferirono nel Goriziano, in altre parti d’Italia o all’estero. Dal luglio 1946 un Comitato per l’Assistenza agli Esuli sotto la guida del presidente di Zona e con i finanziamenti della Presidenza del Consiglio agì nella Zona A (prima della Venezia Giulia, poi del Tlt); dal luglio 1949 coordinò le varie attività per i profughi con il nome di Ufficio di Zona per l’Assistenza Postbellica. Nel giugno 1950 il Gma accettò che i profughi sempre più numerosi dalla Zona B del TLT restassero, a spese del Ministero dell’Interno italiano, in Zona A. Furono così realizzati quartieri istriani nella periferia cittadina, ma anche borghi istriani nell’area carsica del Comune di Trieste e nei Comuni di Muggia e Duino-Aurisina. Concepiti come realtà autosufficienti sul piano dei servizi, molti di questi borghi si trovavano in aree abitate in maggioranza da sloveni, ostili all’insediamento di patrioti italiani che avrebbero mutato la fisionomia etnico-politica del loro piccolo territorio. Peraltro anche a Trieste sloveni e indipendentisti vedevano negativamente questi sostenitori dell’Italia che a loro portavano via «pane e lavoro», tanto più che una legge dell’aprile 1958 obbligò le ditte con più di 50 dipendenti ad assumere fra il personale almeno il 10% di profughi.

L’afflusso sempre più massiccio dopo l’ottobre 1953 pose seri problemi di accoglienza. Malgrado il governo italiano volesse disperdere i profughi nel resto della penisola, le insistenze del Cln dell’Istria ne favorirono la permanenza a Trieste o nella vicina provincia di Gorizia, dove vennero realizzati borghi agricoli e quartieri periferici per loro. In tal modo rimasero concentrati in un’area ristretta a ridosso di quella d’origine. Trieste è tuttora il luogo con il maggior numero di istriani, fiumani e dalmati esuli o discendenti. Ma proprio da Trieste alcune migliaia emigrarono a partire dal 1954 in Australia, dove trovarono facilmente lavoro ma perdettero la cittadinanza italiana e dovettero imparare un’altra lingua. Altri specie alla fine degli anni ’50 si trasferirono negli Stati Uniti, in Canada, Argentina, Uruguay o Sudafrica, rinunciando anch’essi alla propria cittadinanza e dovendosi adattare a realtà straniere molto diverse. Con tale sventagliamento ai quattro angoli del globo, l’esodo si trasformò in una vera e propria diaspora affievolendo i contatti tra compaesani o familiari insediatisi in luoghi spesso distanti. Inoltre l’assimilazione dei più giovani e dei nati in esilio al nuovo contesto sociale, tanto più se dissimile da quello originario, si accentuò con il passare degli anni. Solo una piccola parte delle decine di migliaia di profughi emigrati tornò in Italia e in particolare a Trieste. Oggi pertanto quello in esilio è un popolo senescente e in via di progressiva estinzione sul piano linguistico-culturale.
Gli esuli riparati in Italia o in Zona A si organizzarono fin da subito in gruppi e comitati a sostegno dei propri corregionali rimasti sotto occupazione jugoslava e per il ritorno di almeno parte dell’Istria alla sua naturale madrepatria. Nel 1948 dal Comitato nazionale per la Venezia Giulia e Zara nacque l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd). Nel 1954 fu fondata a Trieste l’Unione degli Istriani - Libera provincia dell’Istria in esilio, che in breve tempo divenne l’associazione più numerosa e forte della diaspora, formata da gruppi comunali (famiglie o circoli). Nel 1963 sorsero il Libero Comune di Zara in esilio, nel 1966 il Libero Comune di Fiume in esilio e nel 1967 il Libero Comune di Pola in esilio. Sempre nel 1967 il Cln dell’Istria, con sede a Trieste, cambiò nome in Associazione delle Comunità Istriane. Tali associazioni hanno svolto un importante ruolo aggregativo, culturale e inizialmente anche assistenziale, benché i contrasti politici e personali ne abbiano indebolito la funzione “sindacale”, con ulteriore grave danno per la sopravvivenza stessa del popolo dell’esodo.

Il Trattato di pace (Allegato XIV) aveva stabilito che i beni, diritti e interessi dei cittadini italiani residenti al 15 settembre 1947 nei territori ceduti avrebbero dovuto essere rispettati come quelli dei cittadini jugoslavi, mentre i beni, diritti e interessi dei cittadini italiani non residenti avrebbero dovuto essere rispettati come quelli dei cittadini stranieri. In base all’art. 79, i beni, diritti e interessi di entrambe le categorie non avrebbero potuto essere trattenuti o liquidati in compensazione di danni di guerra, ma avrebbero dovuto essere restituiti ai legittimi proprietari senza alcuna delle misure restrittive prese fra il 3 settembre 1943 e il 15 settembre 1947. Gli jugoslavi però continuarono imperterriti espropri, confische e nazionalizzazioni. Il 23 maggio 1949, con un accordo bilaterale in violazione del Trattato di pace, l’Italia lasciò alla Jugoslavia i beni indebitamente sottratti agli esuli. Una commissione bilaterale stabilì, secondo estimi al ribasso, che la Jugoslavia avrebbe dovuto pagare all’Italia 130 miliardi di lire per il loro indennizzo. A pochi mesi di distanza una legge italiana stabilì un indennizzo per gli aventi diritto che ne avessero fatto richiesta, ma poi il governo usò 85 dei 130 miliardi per pagare sia i danni di guerra sia l’assenso di Tito al ritorno di Trieste all’Italia. Agli esuli espropriati Roma destinò solo 32 miliardi di lire. Tale tortuosa e scorretta operazione venne allora presentata come un «prestito» che lo Stato italiano avrebbe saldato agli esuli nel giro di 7 anni, cosa che però a tutt’oggi non ha ancora fatto malgrado i vari acconti.

Dopo il Memorandum di Londra, entrato in vigore il 26 ottobre 1954, la questione del Tlt rimase formalmente aperta sul piano giuridico. Alcuni giuristi e organismi giurisdizionali italiani sostennero che la sovranità dell’Italia sulla Zona B e i colli muggesani non era mai venuta meno, dal momento che il Tlt non era stato effettivamente costituito, malgrado l’articolo 21 del Trattato di pace avesse sancito che sarebbe cessata con l’entrata vigore dello stesso. Ma le speranze degli esuli di poter tornare nella loro terra natia si scontrarono con la Realpolitik dei governi italiani, sempre più concilianti verso la Jugoslavia, anche su pressione degli Usa e della Nato. Nel 1971 la visita ufficiale di Tito in Italia e in Vaticano fece presagire pericoli di definitiva cessione della Zona B e dei Monti di Muggia alla Jugoslavia. Nonostante le insincere rassicurazioni di Aldo Moro nel 1970 e 1971, di Giulio Andreotti nel 1973 e di Mariano Rumor ancora nel 1973, il 16 aprile 1974 il presidente jugoslavo Tito dichiarò che la Zona B non esisteva più. Il 1° ottobre dello stesso anno il ministro degli Esteri Rumor, smentendosi, affermò in parlamento che era necessario e inevitabile rinunciare alla sovranità formale su quel territorio.

Il 10 novembre 1975, dopo una negoziazione segreta e irrituale, venne firmato a Osimo un Trattato bilaterale che riconosceva implicitamente la sovranità italiana sulla Zona A e quella jugoslava sulla Zona B e le colline muggesane, sancendo sul piano giuridico la situazione di fatto emersa dal Memorandum, obbligava gli italofoni che risiedevano in quei territori passati definitivamente alla Jugoslavia a scegliere se trasferirsi in Italia rinunciando alla cittadinanza jugoslava o restarvi rinunciando alla cittadinanza italiana, stabiliva un confine marittimo soffocante per il porto di Trieste e prevedeva un successivo accordo per un indennizzo globale e forfettario «equo e accettabile dalle parti» dei «beni, diritti ed interessi delle persone fisiche e giuridiche italiane» situati in Zona B e sui colli muggesani «oggetto di misure di nazionalizzazione o di esproprio o di altri provvedimenti restrittivi da parte delle Autorità militari, civili e locali jugoslave», e caducava lo Statuto speciale allegato al Memorandum del 1954, prevedendo per le rispettive minoranze il mantenimento delle misure di tutela già in vigore. Scopo principale del Trattato era di eliminare una situazione di provvisorietà confinaria per consolidare ulteriormente le già migliorate relazioni tra i due paesi, contribuendo in tal modo sia alla distensione internazionale sia a un più deciso inserimento della Jugoslavia, comunista ma “non allineata”, nell’orbita occidentale anche in funzione di antemurale contro il Patto di Varsavia. Sempre a Osimo venne contestualmente firmato un Accordo sulla cooperazione economica che prevedeva la realizzazione sul Carso di una Zona franca industriale a cavallo del confine e alcune strade transfrontaliere. In risposta, a Trieste furono invano raccolte ben 65.000 firme contro l’Accordo economico e affinché l’intera provincia diventasse una Zona franca. Le associazioni degli esuli contestarono in particolare la definitiva cessione italiana sia della Zona B e dei monti di Muggia sia dei beni indebitamente espropriati (salvo indennizzo). Gli indipendentisti triestini definirono nulla la spartizione del Tlt fra Italia e Jugoslavia perché compiuta in violazione del Trattato di pace, il quale aveva sì sottratto il Tlt all’Italia, senza però cederlo alla Jugoslavia, bensì rendendolo territorio internazionale sotto il controllo dell’Onu. Ma nel marzo 1977 l’intero “pacchetto” di Osimo fu ratificato quasi in contemporanea dal parlamento jugoslavo, all’unanimità, e da quello italiano, con pochi voti contrari o astenuti. In tal modo diventò legge in ambo gli stati, senza che nessun paese firmatario del Trattato di pace sollevasse obiezioni. Poco dopo, la questione del Tlt e la nomina del relativo governatore furono tolte dall’ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Il Vaticano recepì il nuovo assetto dividendo la diocesi di Trieste da quella di Capodistria lungo il nuovo confine di stato. Risorse così a pieno titolo dopo 147 anni la diocesi di Capodistria, ma tutta in territorio sloveno e con un’estensione ben diversa da quella originaria.

Nel 1983 l’Accordo economico firmato a Roma tra Italia e Jugoslavia in attuazione dell’art. 4 del Trattato di Osimo stabilì per gli esuli della Zona B e dei colli muggesani espropriati un indennizzo di soli 110 milioni di dollari, pari a 21 centesimi di dollaro per metro quadro, da pagare in 13 rate annuali fra il 1990 e il 2002, nonché la messa in «libera disponibilità» di 179 immobili situati nell’ex Zona B e sui monti di Muggia e di 500 immobili situati nei territori delle ex Province di Pola, Fiume e Zara ceduti in base al Trattato di pace. La Jugoslavia versò all’Italia le prime due rate prima della sua dissoluzione, ma poi Slovenia e Croazia non saldarono il debito ereditato in solido, né consegnarono materialmente i 649 beni previsti in «libera disponibilità». L’Accordo rimane tuttora disatteso.
La legge 140 del 1985 stabilì una maggiorazione di 15.000 lire mensili, a richiesta, per una serie di categorie, tra cui i profughi. Ma, dopo gli ostacoli frapposti dall’Inps, la perequazione automatica agli indici Istat non è stata ancora concessa. Nel 1987 si tenne a Trieste il raduno mondiale degli esuli a 40 anni dal Trattato di pace. Nel 1989 entrò in vigore la legge 54, che proibì di definire «nato in Jugoslavia» chi aveva visto la luce prima del 15 settembre 1947 nei territori poi passati alla Jugoslavia; tuttavia la sua applicazione è stata assai scarsa per negligenze burocratiche e asseriti problemi tecnici.

In Istria l’esodo del 90% della popolazione italiana e di una certa quota di quella slava e mistilingue aggravò la situazione economica: venne infatti meno personale specializzato in vari seri produttivi e distributivi, mentre i “coloni” jugoslavi giunti per sostituire i profughi non garantirono un adeguato ricambio. La nazionalizzazione e cooperativizzazione forzate si rivelarono fallimentari e per tutti gli anni ’50 non garantirono un sufficiente rifornimento di beni di consumo. L’industria e l’agricoltura languirono, come pure le miniere di carbone e le cave di bauxite. Un miglioramento si verificò appena a metà degli anni ’60 con la cosiddetta autogestione, con la ripresa della cantieristica e soprattutto con la nascita del turismo, che riaprì l’Istria al mondo creando sviluppo edilizio (spesso di bassa qualità) e un numero crescente di posti di lavoro sulla costa. Nel 1957 cominciò a operare il porto di Capodistria, collegato dal 1967 per via ferroviaria a Lubiana e sviluppatosi rapidamente in forte concorrenza con Trieste. L’attività estrattiva dell’Albonese, sempre più anti-economica, calò dalla fine degli anni ’60 per cessare del tutto all’inizio degli anni ’70. In seguito, vicino a Fianona venne insediata una inquinante centrale termoelettrica con una ciminiera di oltre 300 metri visibile da grande distanza.

Volendo assumersi la paternità di quella che pomposamente definirono «la rivolta di Maresego» del 1921, nel 1956 le autorità jugoslave fecero del 15 maggio la Giornata del Comune di Capodistria. Tale festività continua a venir celebrata tuttora nella ricorrenza della strage.

Con l’esodo il nostro gruppo nazionale fu letteralmente decimato. In breve tempo le aree a prevalenza italiana si ritrovarono svuotate. Gli italiani rimasti furono pochi: i più motivati furono i titoisti, ma ben più numerosi risultarono anziani, malati, figli o mogli che si uniformarono alle decisioni dei genitori o dei mariti, attendisti con scarsa coscienza nazionale e tutti coloro che non poterono o non vollero lasciare terra, affetti e lavoro per un avvenire incerto in un luogo lontano e sconosciuto. Ne seguì un grave impoverimento non solo materiale e demografico, ma anche civile e culturale. Mentre però le località principali, specie della costa, si riempirono subito di persone provenienti dalle campagne vicine o dal resto della Jugoslavia, i borghi interni minori restarono semi-deserti.  Una significativa percentuale di italofoni rimase solo nel Buiese, a Dignano, Valle e Gallesano: si trattava perlopiù di contadini. La classe dirigente dell’Uiif era invece composta da insegnanti, giornalisti e intellettuali obbligatoriamente legati al partito-guida.

Quanti rimasero si ritrovarono stranieri in patria. Dal 1946 sorsero nelle principali località Circoli italiani di cultura aderenti all’Uiif e guidati da intellettuali comunisti. Il loro ruolo fu sempre limitato al campo musicale, letterario, artistico, canoro, folcloristico e teatrale. I soci venivano attentamente spiati da agenti del regime sempre a caccia di presunti nazionalisti. Negli anni ’50 le autorità chiusero i circoli di Zara, Cherso, Lussino, Abbazia, Laurana, Fianona, Arsia, Pisino, Montona, Fasana e Umago con il pretesto che gli italiani rimasti in quelle cittadine erano troppo pochi. Altri circoli furono ridimensionati nelle loro attività e decapitati nei vertici. La stessa Uiif fu fortemente limitata e condizionata.

Al trasferimento coatto di tanti alunni nelle scuole croate o slovene seguì la chiusura di molte scuole italiane. Il bilinguismo, introdotto solo pochi anni prima al posto del monolinguismo italiano, sparì in quasi tutta l’Istria a favore del monolinguismo croato o sloveno, salvo nelle principali località del Buiese e a Rovigno, per poi ricomparire a Dignano e Gallesano. A Pola cessò le pubblicazioni “Il Nostro Giornale”. Restò come unico organo di stampa in lingua italiana “La Voce del Popolo”, che le autorità comuniste croate tentarono invano di ridurre a settimanale. Il regime presentò gli italiani d’Istria come discendenti di immigrati o di colonizzatori e li marginalizzò politicamente, colpendo quanti si dimostrarono meno disposti a sacrificare la dignità nazionale. Lo scopo era l’assimilazione rapida e totale per cancellare tutto ciò che ancora sapeva di italianità in un terra che andava invece pienamente jugoslavizzata.
Un risveglio della presenza italiana si verificò a partire dal 1960, quando l’Uiif cominciò a cercare un sostegno di Roma nel settore scolastico con la fornitura di libri e corsi di perfezionamento per insegnanti. Fu il primo segno di un sia pur cauto riavvicinamento alla madrepatria, favorito dai migliorati rapporti bilaterali tra i due paesi. Nel 1963 venne eletto presidente dell’Uiif Antonio Borme, un comunista pentito che tentò di difendere quanto restava dell’italianità rafforzando sempre più i legami con la madrepatria. Così nel 1964 si arrivò a un accordo italo-jugoslavo per incrementare le attività didattiche nell’ex Zona B e all’inizio della collaborazione tra Uiif e Università popolare di Trieste (Upt) per promuovere la lingua e la cultura italiana in Istria e a Fiume. Nel 1968 venne fondato il Centro di ricerche storiche di Rovigno. Nel 1971 iniziò le trasmissioni Tv Koper-Capodistria, che si affiancò a Radio Capodistria, già attiva dal 1949. Ma il nuovo attivismo della comunità nazionale italiana in Jugoslavia non piacque ai nazional-comunisti croati, che nel 1974 imposero la defenestrazione di Borme. La nuova dirigenza dell’Uiif si dimostrò condiscendente verso Osimo, ma dal 1977 ottenne un rafforzamento dei suoi legami con l’Upt, che divenne il tramite del Ministero degli esteri italiano per l’appoggio alla nostra minoranza. Nell’anno accademico 1978/79 venne fondato presso la Facoltà di Pedagogia di Pola dell’Università di Fiume il Dipartimento di Lingua e Letteratura italiana.
Un cospicuo apporto materiale indiretto all’economia dell’Istria lo Stato italiano lo diede con il pagamento della pensione ad alcune decine di migliaia di istriani divenuti cittadini jugoslavi che durante l’amministrazione italiana avevano versato contributi anche solo figurativi, come nel caso del servizio militare. Fra questi vi erano però anche quanti avevano combattuto nelle file partigiane di Tito e perfino quanti si erano macchiati di crimini contro degli italiani, infoibamenti compresi. Tale generoso trattamento suonava beffardo per quegli esuli ai quali la Repubblica Italiana non aveva ancora saldato il debito contratto con la vendita sottocosto alla Jugoslavia dei loro beni illegittimamente espropriati.

Nel frattempo l’Istria diventava sempre più slava e balcanica sia per il continuo afflusso di immigrati dall’interno sia per la mortificazione della lingua italiana nelle scuole e nella vita pubblica. Nei censimenti gli italiani della penisola (isole quarnerine escluse) scesero dai 16.901 del 1961 ai 9.627 del 1981.
Nel 1986 la Lega dei Comunisti della Jugoslavia tacciò nuovamente l’Uiif di irredentismo. Alla fine degli anni ’80 si aprì con il Gruppo ’88 e poi con il Movimento per la costituente e il Comi una fase di riforma democratica della comunità nazionale italiana in un clima di maggiore libertà espressiva, di riscatto nazionale e di riavvicinamento tra esuli e rimasti.

Il 14 febbraio 1990, grazie alle nuove leggi sulla libertà di parola e di associazione, venne fondata a Pola la Dieta Democratica Istriana, partito regionalista che voleva ottenere uno statuto speciale di autonomia (inizialmente nell’ambito di una Euroregione Istriana), unire tutti gli istriani sulla base dell’appartenenza territoriale, recuperare la composita identità linguistico-culturale fino ad allora negata, dare il giusto peso alla componente italiana residua, instaurare buoni rapporti con l’Italia e (almeno inizialmente) avviare un dialogo con gli esuli. Vi aderirono con entusiasmo e speranza numerosi istriani sia slavofoni sia italofoni sia mistilingui. Tuttavia il partito prese piede solo nella parte croata della penisola, visti gli ostacoli frapposti dalle autorità slovene nel Capodistriano.
Nel settembre 1990 sulla stampa jugoslava trapelò che, in caso di smembramento della Federativa, il Trattato di Osimo sarebbe decaduto, ma il governo italiano non sfruttò tale irripetibile occasione per ridiscuterne e migliorarne i contenuti con l’allora debole governo di Belgrado.

All’ultimo censimento jugoslavo, quello del 1991, nell’Istria croata (senza Cherso, Lussino e la riviera abbaziana), su un totale di 204.457 residenti, i croati scesero da 134.892 a 111.596 (54,56%), gli istriani schizzarono a 37.027 (18,11%), gli italiani salirono a 15.306 (7,49%) e i serbi a 9.754 (4,77%), gli jugoslavi scesero a 7.301 (3,57%), i musulmani salirono a 6.224 (3,04%) e gli sloveni a 2.808 (1,37%), i montenegrini restarono più o meno stabili a 1.041 (0,51%), e i macedoni salirono a 555 (0,27%), mentre i non dichiarati salirono a 6.014 (2,94%) e gli sconosciuti a 3.113 (1,52%). In diversi centri la somma tra istriani e italiani superò il 50% e in alcuni gli italiani da soli oltrepassarono questa percentuale. Era il segno di un clima migliore, ma anche dell’affermazione di un’identità a lungo repressa e del rifiuto del nazionalismo croato e sloveno da parte di molti autoctoni.
Nel Capodistriano, su 75.929 residenti, gli sloveni salirono a 53.684 (70,70%), i croati scesero a 6.078 (8,00%), i serbi salirono a 3.011 (3,97%), gli italiani a 2.751 (3,62%), gli istriani a 1.854 (2,44%), i musulmani a 1.650 (2,17%), i montenegrini a 286 (0,38%), i macedoni a 202 (0,27%), gli sconosciuti a 3.936 (5,18%), i non dichiarati a 913 (1,20%) e le altre nazionalità a 538 (0,71%). Qui dunque, italiani e istriani, malgrado un miglioramento, raggiungevano insieme appena il 6,06%.


Fra Croazia e Slovenia (dal 1991 a oggi)

Il 25 giugno 1991 Slovenia e Croazia proclamarono la propria sovranità e indipendenza dalla Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia. Ma il 26 giugno il governo federale dichiarò illegali quelle dichiarazioni e mobilitò l’esercito contro i secessionisti e a tutela dei valichi di frontiera. Anche al posto di blocco di Rabuiese si verificarono momenti di tensione tra l’Armata popolare jugoslava e la Milizia territoriale slovena, ma il successivo accordo di Brioni stabilì il ritiro dei federali da tutta la Slovenia. Il precedente confine amministrativo divenne confine di stato. Così, per la prima volta dal 1797, la provincia si ritrovò nuovamente divisa politicamente. Il solco fra le sue due parti si approfondì negli anni successivi allentando in quella slovena il senso dell’istrianità, cancellando la cooperazione in campo sanitario e intaccando l’unitarietà della nostra minoranza.

Il 15 gennaio 1992 la Repubblica Italiana riconobbe entrambe le repubbliche senza contropartite territoriali e senza alcuna garanzia di rispetto sloveno-croato dell’Accordo del 1983 o di sua ridiscussione nel senso di una restituzione almeno parziale dei beni sottratti agli esuli della Zona B e dei colli muggesani. Fu contestualmente firmato un Memorandum d’intesa sulla tutela della minoranza italiana in Croazia, che riconosceva per la prima volta «l’esodo di massa della popolazione italiana da aree di storica residenza». La Slovenia invece rifiutò di fare altrettanto in mancanza di clausole di pari tutela per la sua minoranza in Italia.

Il 16 luglio 1991 dalle ceneri dell’Uiif nacque attraverso procedure finalmente democratiche l’Unione Italiana (Ui), che adottò come simbolo il tricolore senza stella rossa a simboleggiare una rottura di continuità verso il passato. Nei mesi e anni immediatamente successivi sorsero nuove Comunità degli Italiani anche laddove erano state chiuse da decenni e dove l’uso pubblico della lingua italiana era stato soppresso: Cherso, Crassiza, Grisignana, Lussino, Fasana, Momiano, Montona, Orsera, Pisino, Santa Domenica, Visignano, Visinada... Alcune fra queste svolgono un’attività davvero intensa e articolata, sempre nel pieno rispetto della sovranità del proprio Stato domiciliare. Si formarono inoltre associazioni culturali finalizzate alla ricerca storica. L’Upt ha continuato a essere un soggetto fondamentale per il finanziamento delle molteplici attività delle istituzioni italiane e nella costruzione o riatto delle loro strutture edilizie. Dal 1991 i fondi destinati dalla Farnesina a tale scopo si sono incrementati.

Nell’agosto 1992 alle elezioni politiche croate la Dieta, anche grazie a un accordo con l’Ui, ottenne il 72% dei voti in Istria e la maggioranza assoluta in tutti i Comuni, con l’elezione di alcuni sindaci o vicesindaci e di numerosi presidenti, vicepresidenti dei Consigli comunali e consiglieri italiani. Venne istituita la Regione istriana, mentre Cherso, Lussino, Veglia e la riviera abbaziana passarono alla Regione litoraneo-montana, con capoluogo Fiume.
La guerra civile del 1991-95 nell’ex Jugoslavia non coinvolse mai l’Istria, anche se diversi istriani vi parteciparono come soldati dell’esercito croato. Proprio per non esservi coinvolti, altri istriani, specie connazionali, si trasferirono in Italia o vi rimasero se già vi soggiornavano per ragioni di studio o di lavoro. Nella parte croata dell’Istria arrivarono però numerosi profughi dalla Croazia e dalla Bosnia-Erzegovina interessate dal conflitto; alcuni di questi poi non rientrarono nei rispettivi luoghi d’origine ma, spesso impregnati di una visione etnocentrica e digiuni di storia locale, rafforzarono sia demograficamente che politicamente la componente slava. Nel contempo diversi serbi lasciarono l’Istria per timore di ritorsioni. Il rifiorire dell’italianità venne contrastato sia dai nuovi afflussi sia dal nazionalismo delle istituzioni statali croate e, in misura minore, da quelle slovene. Nel frattempo si accresceva il fenomeno dei matrimoni misti. Pertanto il processo assimilatorio dei nostri connazionali riprese. A ciò si aggiunga, specie nelle nuove generazioni e fra le persone meno acculturate, la slavizzazione dell’accento e la perdita di padronanza linguistica, con l’uso sempre più frequente di termini slavi. Bisogna inoltre considerare l’esodo strisciante verso l’Italia di giovani istriani – specie italofoni – per ragioni di studio o di lavoro, che continuò anche dopo la fine della guerra infra-jugoslava. Così, al censimento del 2001 nell’Istria croata, su 206.344 residenti, risultarono 148.328 croati (71,88%), 14.284 italiani (6,92%), 6.613 serbi (3,20%), 3.077 bosniaci (1,49%); 8.865 istriani (4,30%) e 13.113 non dichiarati (6,35%). Analogamente, al censimento sloveno del 2002 nei tre Comuni del Capodistriano, su 78.846 residenti, risultò il 68,4% di sloveni, il 4,8% di croati, il 3,4% di serbi, il 2,5% di bosniaci, il 2,3% di italiani, l’1,5% di istriani, lo 0,6% di albanesi, e il 18,0% di altri. Numericamente i nostri connazionali erano scesi a 1.840. In ambo i casi i risultati erano leggermente migliori per la lingua materna.

Le scuole italiane sopravvissute alla falcidie del comunismo hanno continuato ad operare, mentre ne sono sorte di nuove anche in alcune località istriane  dove erano state soppresse. Vi si sono iscritti in percentuale crescente alunni slavofoni o figli di matrimoni misti. Scuole materne italiane esistono oggi a Capodistria, Pirano, Buie, Umago, Verteneglio, Cittanova, Parenzo, Rovigno, Pola e Fiume; scuole elementari (in realtà ottennali, comprensive cioè delle medie) a Capodistria, Isola, Pirano, Buie, Umago, Cittanova, Parenzo, Rovigno, Dignano, Pola e Fiume; scuole superiori a Capodistria, Isola, Pirano, Buie, Rovigno, Pola e Fiume. Una sezione italiana di scuola materna verrà inaugurata nel settembre 2011 a Lussinpiccolo. Terminate le superiori, il naturale sbocco per tanti studenti è stato ed è tuttora l’università in Italia (specie a Trieste), che consente di completare gli studi in lingua italiana.
Nel 1999 la Facoltà di Pedagogia di Pola dell’Università di Fiume è diventata Facoltà di Lettere e Filosofia. Nel 2000 è stato fondato a Pola un Politecnico con lingua d’insegnamento croata e nel 2006 un’Università, intitolata al vescovo istro-croato Juraj Dobrila; anche qui la lingua ufficiale è il croato, ma dal 2007 esiste il Dipartimento di studi in lingua italiana, in cui sono confluiti gli istituti che fino ad allora facevano parte dell’Università di Fiume: la Facoltà di economia “Dott. Mijo Mirkovic”, la Facoltà di Lettere e Filosofia di Pola e la Scuola superiore per la formazione di maestri ed educatori. I corsi di laurea del Dipartimento si articolano in tre curricula: pedagogico-didattico, scientifico-filologico, letterario-culturologico. Il Dipartimento collabora regolarmente con l’Università di Trieste. I docenti del Dipartimento hanno fondato la Società di studi e ricerche “Pietas Iulia” con il fine di valorizzare e preservare il patrimonio culturale istro-veneto.

 Tali importanti progressi nell’ambito dell’educazione universitaria a livello regionale hanno ridotto ma non eliminato la massiccia “fuga dei cervelli” istriani verso l’estero e in particolare verso l’Italia. Gran parte di coloro che studiano all’estero tendono infatti a rimanervi anche per lavoro e ciò depriva la penisola di molte delle sue risorse intellettuali e professionali migliori.

Gli italiani di Croazia eleggono il proprio deputato al parlamento e i propri rappresentanti nei Consigli della Nazionalità Italiana, istituiti nel 2003 quali organi pubblici consultivi a livello sia regionale che municipale. Inoltre nei Comuni bilingui dispongono di sindaci, vice-sindaci, presidenti o vice-presidenti dei Consigli e consiglieri, nonché di un vice-presidente sia della Giunta che del Consiglio e di numerosi consiglieri regionali: ciò grazie all’accordo con la Dieta, che dal 1992 ha governato la Regione e quasi tutti i Comuni da sola o in alleanza con partiti di centro-sinistra. Nell’Istria croata sono stati ripristinati tutti i Comuni storici con i relativi stemmi tradizionali soppressi in epoca jugoslava, mentre poi ne sono sorti anche di nuovi per un’esigenza di autogoverno del territorio fatta valere dai residenti. Il bilinguismo visivo e amministrativo esiste integralmente nel Buiese e, ma solo parzialmente, in alcune località dei Comuni della fascia litoranea fra Torre e Pola.

Il 30 marzo 1994 l’Assemblea della Regione istriana varò un nuovo statuto che garantì ampia tutela al gruppo nazionale italiano ma che proprio per questo venne impugnato dal Governo nazionalista di Zagabria. Il contenzioso giudiziario portò, dopo anni, al riconoscimento ufficiale delle istanze autonomiste sul multilinguismo. Nell’autunno 1994 la Regione istriana aderì all’Associazione delle Regioni d’Europa (Are). Nell’aprile 1995 si svolse a Pola il primo Congresso mondiale degli istriani, promosso dalla Dieta per avvicinare rimasti, esuli ed emigrati, ma con scarsi esiti pratici.

Il 5 novembre 1996 a Zagabria fu firmato un trattato bilaterale sulla tutela delle rispettive minoranze in base a un principio di reciprocità fra gli italiani dell’Adriatico orientale e i discendenti dei profughi croati residenti in Molise e Abruzzo già dal XV-XVI secolo. Il governo nazionalista croato tentò di comprimere i diritti nuovamente acquisiti dal gruppo etnico italiano: ad esempio nel 1998 fece rimuovere la tabella in italiano posta a lato dell’ingresso della Regione Istriana a Pisino.

La situazione migliorò dopo la morte del presidente croato Franjo Tuđman nel dicembre 1999. L’11 maggio 2000 il Sabor varò alcune misure sull’uso ufficiale dell’italiano nel Consiglio regionale e nei tribunali istriani. Una legge croata sulle unità di autogoverno locale ha poi ufficializzato la dicitura bilingue di alcune località istriane, ma l’autorità statali non hanno l’obbligo di corrispondere in italiano con gli appartenenti alla minoranza. A Cherso, Lussino, Veglia, Abbazia, Laurana e Volosca invece la tutela dei diritti minoritari è debole e non esiste alcuna forma di bilinguismo. Nel dicembre 2010 anche gli italiani di Croazia si sono visti finalmente riconoscere dal parlamento il diritto al doppio voto, cioè la facoltà di votare alle elezioni politiche sia per un partito nazionale sia per il seggio specifico della minoranza al Parlamento di Zagabria. Ma nel luglio 2011 la Corte Costituzionale ha vanificato tale diritto dichiarando incostituzionali quelle norme.

Il 30 giugno 2006 è stata istituita l’Euroregione Adriatica, di cui la Regione Istriana fa parte insieme ad altre Regioni costiere croate, italiane, bosniaco-erzegovesi, albanesi e greche, al Comune sloveno di Isola e ad alcuni Comuni costieri montenegrini. La sede di questo Gruppo Europeo di Cooperazione Transfrontaliera (Gect) volto allo sviluppo economico, culturale e ambientale è a Pola. Nel corso degli anni i rapporti tra Regione Istriana e Regione Friuli Venezia Giulia si sono intensificati, tanto che nel marzo 2011 è stato firmato un Protocollo di cooperazione bilaterale sempre in un’ottica europea. Anche i legami tra Regione Istriana e Regione Veneto hanno visto un consolidamento.
In Slovenia non si sono ancora costituite province o regioni, per cui i Comuni sono rimasti l’unico organo di autogoverno locale. Gli italiani eleggono il proprio deputato a Lubiana, le Comunità Autogestite della Nazionalità (con competenza e diritto di veto sulle tematiche riguardanti l’etnia) e i consiglieri a loro riservati dalla legge nei Comuni di Capodistria, Isola e Pirano. Negli anni ’90 Capodistria ebbe nuovamente un sindaco italiano dopo oltre 50 anni e nei Comuni di Capodistria e Pirano il bilinguismo ufficiale fu esteso ad aree della fascia costiera prima escluse, ma non sempre è pienamente rispettato nel rapporto con la pubblica amministrazione.

Nel marzo 2003 è sorta a Capodistria l’«Università della Primorska», che solo in seguito ai ricorsi dei rappresentanti della Comunità Nazionale Italiana in Slovenia ha assunto la denominazione italiana di «Università del Litorale». Anche questa definizione però tradisce uno spirito nazional-etnocentrico che omette volutamente il termine “Istria”, ritenuto pericoloso perché potenzialmente disgregatore del concetto di Litorale sloveno, il quale comprende in pratica tutta la Venezia Giulia passata sotto sovranità slovena. L’università è stata posizionata a Capodistria, e non per esempio a Nova Gorica, per evidenziare che quello è il capoluogo morale delle terre occidentali slovene “redente”. Tale operazione ha assunto dunque connotati negazionistici rispetto alla millenaria prevalenza dell’elemento italiano autoctono nella fascia costiera dell’Istria nord-occidentale. L’Università del Litorale è stata concepita ed è effettivamente nata come un bastione, come una punta avanzata della slovenità ai confini con l’Italia, che vale anche da richiamo per i giovani della minoranza slovena in Italia, i quali prima frequentavano perlopiù l’Università di Trieste o quella di Udine. Non è un caso insomma che a Capodistria tutti i corsi si tengano in lingua slovena e nessuno in lingua italiana. Ma, proprio per questa sua natura sloveno-centrica, l’Università del Litorale calamita pochi degli studenti che escono dalle scuole medio-superiori italiane del Capodistriano, malgrado ospiti un Dipartimento di Italianistica.

Negli anni ’90 Slovenia e Croazia hanno escluso i cittadini italiani dalle rispettive leggi sulla denazionalizzazione dei beni sottratti durante il comunismo, per evitare di restituire o di indennizzare anche a loro il maltolto e per scongiurarne il ritorno. Lubiana e Zagabria hanno sostenuto che la questione era già stata risolta con l’Accordo di Roma del 1983, che tuttavia né l’una né l’altra ha ottemperato. Infatti, con lo sfaldamento della Federativa cessò anche il pagamento delle rate previste dall’Accordo di Roma per l’indennizzo. La Slovenia riprese i versamenti con ritardo concludendoli poco oltre la data ultima, mentre la Croazia non ha ancora provveduto. Nel 1994 il ministro degli esteri italiano Martino e quello sloveno Peterle firmarono un accordo che prevedeva la restituzione di un piccolo numero di case sottratte agli esuli italiani nel Capodistriano, ma il governo sloveno rinnegò quanto sottoscritto. Nel 1995 il governo Dini condizionò il sì all’associazione della Slovenia all’Unione Europea alla possibilità per gli esuli di riacquistare i loro beni. Con la mediazione europea si giunse al “compromesso Solana”: dopo un’iniziale irrigidimento, la Slovenia accettò di firmare il 10 giugno 1996 il trattato di associazione all’UE a patto di consentire l’acquisto di beni immobili entro quattro anni a tutti i cittadini dell’UE e da subito a quelli che, come gli esuli dal Capodistriano, avevano risieduto per almeno tre anni nel territorio oggi sloveno.

Nel 1999 la Corte suprema croata affermò il principio che anche i cittadini stranieri avevano diritto a beneficiare della legge sulla restituzione, l’assegnazione di un bene sostitutivo o altrimenti l’indennizzo dei beni espropriati, secondo il principio europeo di non discriminazione sulla base della cittadinanza. Nel 2002 il Sabor estese i benefici della legge solo ai cittadini di quei Paesi che avessero stipulato con la Croazia un apposito accordo. In tal modo sono rimasti esclusi tutti gli optanti dai territori ceduti con il Trattato di pace e gli esuli della Zona B. Una commissione inter-governativa italo-croata non approdò ad alcun risultato pratico. Migliorati nel frattempo i rapporti bilaterali, nell’agosto 2010 la Corte suprema ribadì che i beni tolti dal regime comunista a cittadini stranieri e successivamente non regolati da trattati internazionali sono da considerare alla stessa stregua dei beni sottratti a cittadini croati. In applicazione di tale sentenza, il Sabor ha approvato nel luglio 2011 una legge che prevede l’equiparazione di questi cittadini stranieri ai cittadini croati.

Nel gennaio 2001 una legge del parlamento italiano ha deciso nuovi acconti per gli indennizzi, ma le esigue cifre sono state pagate con estrema lentezza e non ancora a tutti gli aventi diritto. Malgrado già nell’aprile 2007 il Parlamento italiano avesse abrogato la norma che limitava il diritto di acquistare beni immobili in Italia ai soli cittadini croati con permesso di soggiorno, appena il 1° febbraio 2009 il mercato immobiliare croato è stato finalmente aperto anche ai cittadini italiani (ed europei). Tuttavia pochissimi esuli ne hanno approfittato, mentre in Istria diversi edifici sono stati acquistati da stranieri, compresi italiani di altre regioni.

Nel 1992 la Foiba di Basovizza, in provincia di Trieste ma a ridosso dei vecchi confini amministrativi dell’Istria, è stata riconosciuta quale Monumento Nazionale. Il Veneto nel 1994 e il Friuli Venezia Giulia nel 2000 hanno approvato leggi regionali per il recupero, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale di origine italiana in Istria, Quarnero e Dalmazia. Nel 1997 si tenne a Trieste un raduno mondiale degli esuli nel cinquantennale del trattato di Parigi. Una legge italiana del 2001 ha stabilito un regolare finanziamento per le associazioni degli esuli, legandolo a quello dell’Unione Italiana, ben più cospicuo. Nel 2004 è stata ufficialmente istituita per legge la solennità civile del 10 febbraio come Giorno del Ricordo dell’esodo, delle foibe e delle più complesse vicende del confine orientale, che prevede anche iniziative per diffondere la conoscenza di quei tragici eventi presso gli studenti, la promozione di studi, convegni, incontri e dibattiti per conservare la memoria, valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, e preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti sia nel territorio nazionale che all’estero. La legge stabilisce inoltre il conferimento, su richiesta, di insegne metalliche onorifiche ai familiari di persone infoibate o comunque soppresse fra l’8 settembre 1943 e il 10 febbraio 1947 in Istria, in Dalmazia e nelle province dell’attuale confine orientale italiano. Malgrado i passi avanti nel frattempo compiuti, ancor oggi il mondo scolastico sembra poco disposto ad affrontare tali argomenti in maniera sistematica e obiettiva. Ma da parte di un numero crescente di insegnanti, soggetti della società civile e amministrazioni locali di vario colore politico si registrano incoraggianti segnali di interesse. A ciò si aggiunge il continuo crescere in ogni parte d’Italia di vie e piazze intitolate ai Martiri (o Vittime) delle Foibe, di monumenti eretti e di lapidi commemorative affisse. La persistenza però di uno zoccolo dure ostile è testimoniata da non rari imbrattamenti ed asportazioni. Al di fuori dei circuiti ufficiali, indubbia è stata l’utilità del Giorno del Ricordo nel favorire la realizzazione di studi e la pubblicazione di libri riguardanti l’Adriatico orientale.

Dopo decenni di oblio, nel 2002 furono recuperate dalle casse di uno scantinato di Palazzo Venezia 82 opere d’arte veneta messe in salvo a Roma nel 1943 da alcune chiese di Capodistria e Pirano. Ventiquattro di queste, riconosciute di proprietà pubblica, furono assegnate dal Ministero dei beni culturali alla Soprintendenza del Friuli Venezia Giulia, che le restaurò destinandole alla Galleria Nazionale di Arte Antica di Trieste, al fine di tenerle il più vicino possibile al luogo d’origine. Nel 2005-2006 ventuno opere vennero esposte nella mostra “Histria” tenutasi al Civico Museo Revoltella di Trieste. Quindi la Soprintendenza le concesse gratuitamente in deposito provvisorio al Comune, che le collocò al Civico Museo Sartorio. Al Museo Raffaelli di Gemona (UD) sono invece esposte le sessantun opere d’arte veneta provenienti dall’ex convento di Sant’Anna a Capodistria e di proprietà dell’ordine francescano. Il governo sloveno ne ha inizialmente rivendicato la restituzione, quasi fossero di sua proprietà, ma poi si è limitato a chiederne l’esposizione nei luoghi d’origine.

Capodistria, Isola e Pirano, insieme al resto della Slovenia, sono entrate il 1° maggio 2004 a far parte dell’Unione Europea e il 1° gennaio 2007 hanno adottato l’Euro. Una legge italiana dell’8 marzo 2006 ha esteso il diritto al riacquisto della cittadinanza a quanti, residenti nelle attuali Croazia e Slovenia, sono stati cittadini italiani fino al 1947 e ai loro discendenti: ne è derivato per costoro anche il diritto di voto alle elezioni europee, politiche, regionali e amministrative in Italia. Il 21 dicembre 2007, con l’inclusione della Slovenia nell’area europea di libera circolazione di persone e merci, è stato eliminato il confine italo-sloveno, ma rafforzato quello sloveno-croato che taglia in due l’Istria quale confine esterno dell’UE e dell’area Schengen. Sarà risolto con un arbitrato internazionale il contenzioso sloveno-croato sul confine marittimo nel golfo di Pirano e su un tratto di confine terrestre, che dal 25 giugno 1991 sono rimasti indeterminati e a lungo hanno suscitato reciproche animosità specie fra i rispettivi pescatori portando anche al temporaneo veto della Slovenia alla continuazione delle trattative per l’ingresso della Croazia nell’UE. Al termine di un lungo percorso di adattamento della propria normativa ai parametri comunitari e dopo l’accordo bilaterale con la Slovenia, la Croazia (e con essa la Regione Istriana) è entrata il 1° luglio 2013 nell’UE. Ma la soppressione delle dogane non ha comportato l’automatico inserimento nell’area Schengen, quella della libera circolazione delle persone: dunque bisognerà attendere ancora prima che il confine sloveno-croato in Istria cessi di costituire una barriera. Intanto però è stato sensibilmente fluidificato.

Dall’indipendenza delle due repubbliche la rete stradale è stata potenziata specie nella parte croata della penisola, mentre in quella slovena persiste il doppio collo di bottiglia fra Capodistria e l’autostrada istriana (la Ipsilon), che si ferma a sud del Dragogna, e fra Trieste e l’autostrada proveniente da Fiume. La rete ferroviaria nella parte croata, già scarsa e a binario unico, dal giugno 1991 risente della mancanza di collegamenti diretti con il resto del paese, raggiungibile asolo attraverso il territorio sloveno. Dal canto loro le autorità slovene si ostinano ad osteggiare la realizzazione dei pochi chilometri di rotaia che unirebbero Capodistria con Trieste. Di tale squilibrio nel sistema trasportistico a tutto vantaggio della gomma ne ha risentito l’ambiente.

Il settore turistico dopo la fine della Jugoslavia ha saputo ammodernarsi nelle strutture e migliorarsi nell’offerta, che si è andata adeguando agli standard internazionali. Oltre agli alberghi, ai ristoranti e ai campeggi, dagli anni ’90 sono cominciati a spuntare nella aree interne agriturismi che hanno contribuito alla riscoperta delle tradizioni alimentari locali e vengono apprezzati in particolare dalla clientela italiana. L’olivicoltura, fortemente bistrattata in epoca jugoslava, ha conosciuto un vero e proprio rinascimento, con la messa a dimora di piante d’olivo in ampie zone agricole e la riscoperta delle varietà autoctone nonché dei metodi tradizionali di produzione, abbinati a tecniche moderne. Ogni anno nella parte croata dell’Istria si tiene una Rassegna dell’olio extravergine d’oliva e nella piccola località di Crassiza la fiera nazionale “Oleum olivarum”. Anche la viticoltura, compromessa per decenni, è tornata a svilupparsi mescolando tradizione e innovazione; sono ormai diventate un appuntamento annuale la Rassegna dei vini della Bassa Istria e la Rassegna dei vini dell’Istria centrale. Sia in campo olivicolo che in campo vitivinicolo un contributo significativo viene dato da coltivatori connazionali.

Ogni località costiera si è dotata di marina o ha potenziato quelli già esistenti, di modo che l’Istria, specie quella occidentale, è ormai una meta di richiamo internazionale per le imbarcazioni da diporto, molte delle quali italiane. Campeggi e alberghi si sono ammodernati e ne sono sorti di nuovi di qualità superiore, mentre la riqualificazione dei centri storici di Rovigno, Parenzo, Cittanova e Pirano li ha resi ancora più attrattivi che in passato per i visitatori. Il turismo si è pertanto consolidato come la principale industria istriana, capace di dare lavoro e reddito a una quota considerevole di residenti.

Oggi per gli esuli istriani i problemi principali restano ancora irrisolti: la restituzione dei beni e il risarcimento equo e definitivo, la conservazione delle tombe nelle località d’origine, il riconoscimento dei contributi previdenziali a chi subì il carcere e il lavoro coatto in Jugoslavia, l’indicazione del solo Comune anagrafico di nascita sui documenti di quanti nacquero in Istria ai tempi dell’Italia, la perequazione automatica delle maggiorazioni pensionistiche... Intanto il naturale processo di esaurimento degli esuli, sparsi in varie parti d’Italia e del mondo, continua inesorabile in assenza di un ricambio generazionale e di un auspicabile ritorno, anche solo parziale, nella terra d’origine. Di converso, la capacità di “resistenza” dei rimasti è messa sempre più a dura prova specie nelle aree dove sono diventati un’esigua minoranza.

Determinate associazioni di esuli si recano annualmente nelle proprie località d’origine a onorare i defunti o a festeggiare altre ricorrenze tradizionali. Negli ultimi anni inoltre sono state avviate incoraggianti forme di dialogo e collaborazione fra alcune realtà di esuli e di rimasti.

Nei primi anni ’90 il Libero Comune di Fiume in Esilio ospitò a un proprio raduno una delegazione della CI di Fiume e fin da allora ogni anno i rappresentanti del Libero Comune di Fiume in Esilio e della Società di Studi Fiumani vengono ricevuti in municipio dal sindaco di Fiume in occasione della festività patronale; nel 2013 si è tenuto a Fiume il primo Incontro mondiale “Sempre fiumani” in collaborazione con le autorità cittadine e la locale CI.
Dal 1994 la Famiglia Montonese realizza annuali incontri a Montona coi propri concittadini rimasti; inoltre nel 2001 inaugurò a Cava Cise un sacrario in memoria degli infoibati e nel 2008 ha tenuto a Montona una giornata del proprio raduno mondiale, ricevendo ottima accoglienza sia dalla locale CI sia dall’amministrazione comunale.
La Famiglia Dignanese invitò nel 1997 al proprio raduno annuale di Peschiera la CI di Dignano, la quale intervenne con un centinaio di soci. Nel 1999 poi tenne il proprio raduno nella città d’origine in collaborazione sia con la CI sia con il Comune. L’iniziativa è stata ripetuta nel 2008, nel 2010, nel 2011 e nel 2012.
La Famìa Ruvignisa ha celebrato numerose volte il proprio raduno annuale a Rovigno in collaborazione con la locale CI.

Dal 2011 il Libero Comune di Pola in Esilio tiene i propri raduni annuali nella città natia, con iniziative di omaggio alle vittime italiane degli opposti totalitarismi in collaborazione con l’UI, di promozione di ricucitura fra esuli e rimasti, di recupero della memoria storica e di incontro con le CI della bassa Istria.
Gli esuli visignanesi aderenti all’Associazione delle Comunità Istriane si radunano dai primi anni ’90 ogni maggio a Visignano insieme ai propri compaesani “rimasti”.

Dal 2001 la Mailing List Histria, gruppo trasversale formato da esuli, discendenti e simpatizzanti ma anche da rimasti, diffonde via internet notizie sull’Adriatico orientale, tiene i propri raduni ogni anno in una diversa località istriana e opera per la promozione della lingua e cultura italiane in Istria, Quarnero e Dalmazia tramite un concorso rivolto agli alunni delle scuole italiane.

Tutte queste coraggiose iniziative di riavvicinamento sono importanti e fruttuose. Molto però resta ancora da fare per riunire le due parti del popolo istriano, che la storia recente ha smembrato e contrapposto per la prima volta dopo millenni.

Paolo Radivo
(testo pubblicato in: www.arenadipola.it/index.php?option=com_content&task=view&id=756&Itemid=72


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