giovedì 18 giugno 2020

Bruno Trevellin, L’amore al tempo della peste (e del Coronavirus)


Bruno Trevellin, L’amore al tempo della peste (e del Coronavirus)
Lettura parafrastica dal romanzo di Albert Camus, La peste



Raimond Rambert è uno dei protagonisti minori del romanzo La peste di A. Camus, ma è quello che meglio di ogni altro ci fa cogliere cosa avvenga, cosa è possibile che avvenga e cosa possa restare del sentimento amoroso quando si passa attraverso l’esperienza diretta di un flagello terribile come la peste.
Rambert fa il giornalista ed è finito a Orano, la città algerina della peste, per chiedere al dottor Bernard Rieux, il protagonista principale del romanzo, in cui dobbiamo riconoscere per molti aspetti lo stesso Camus, “ragguagli sulla condizione di vita degli arabi”.
Ebbene, una sera Rambert si rivolge proprio a Rieux anche per un aiuto concreto, per un favore personale, urgente: vuole che il dottore, proprio perché molto stimato negli ambienti amministrativi, lo aiuti ad andarsene dalla città, chiusa a causa della peste, per ricongiungersi alla sua donna che si trova a Parigi e della quale è perdutamente innamorato.
Sì, si era già rivolto alla prefettura, ma per sentirsi dire sempre e solamente che non era proprio possibile andarsene da Orano, che “non si poteva fare eccezione” e anzi era stato invitato a sfruttare la situazione per un reportage che poteva essere veramente interessante, perchè una città colpita dalla peste è sempre un buon argomento giornalistico. Rambert, però, non ne vuole sapere di rimanere e lo confessa sinceramente al dottore che lui non è stato “messo al mondo per fare dei reportages”, ma “per vivere con una donna”. Per questo gli chiede di sottoscrivergli un certificato medico che attesti che lui non ha la peste e che potrebbe servirgli per andarsene “legalmente”. Il dottore però gli fa subito notare che non può fargli quel certificato perché lui, medico, non potrà mai attestare che tra il momento in cui uscirà dal suo studio e quello in cui entrerà in prefettura non sarà contagiato. Gli fa inoltre notare che in città ci sono migliaia di uomini nella sua stessa situazione che non si possono proprio lasciare uscire.  
“Ma io non sono di qui!” protesta con forza Rambert, come se non essere del posto potesse assicurargli una partenza privilegiata e immediata. Il dottore però lo riporta subito con i piedi per terra, facendogli capire che a cominciare da quell’esatto istante anche lui, Rambert, deve considerarsi di Orano, come tutti gli altri abitanti costretti a rimanervi chiusi dentro come in una prigione, come dei reclusi.
“E’ una questione di umanità, (…) lei non si rende conto di cosa significa una separazione come questa per due persone che si intendono bene”,
continua a protestare Rambert. Rieux certo non è insensibile e anzi gli fa capire che desidera che tutti quelli che si amano e che la peste aveva separato, possano ricongiungersi, ma proprio non si può. Anche per quel suo caso, come per tutti gli altri simili, ci sono leggi, decreti, c’è la peste e lui, dottore, poteva fare solo il suo dovere.
A quel punto Rambert, seccato, gli risponde che farà in modo di sbrigarsela diversamente, perché in ogni caso lui vuole lasciare la città, costi quel che costi.
Non si dà per vinto e con ostinazione e astuzia si rivolge a un gran numero di funzionari. Con loro il suo ragionamento è sempre lo stesso: lui è estraneo alla città di Orano, non è uno del posto, per cui il suo caso deve essere considerato diversamente. Ma niente, gli rispondono sempre che non si può creare con lui un precedente. Oppure gli dicono di portare un po’ di pazienza perché tanto la peste sarebbe stata solo un fenomeno passeggero, una noia momentanea. Altri lo illudono, facendosi dare una nota scritta sulla sua richiesta, assicurandogli che se ne sarebbero occupati; altri, come succede spesso, se la cavano semplicemente indicandogli un altro ufficio a cui rivolgersi.
Insomma, ad un certo punto si rende conto che non potrà mai uscire dalla città in maniera legale e così, tramite un amico, Cottard, entra in contatto con una organizzazione di contrabbandieri che si occupa della rivendita di sigarette e alcool, i cui prezzi crescevano ogni giorno di più, traffico che stava consentendo proprio a Cottard di farsi una piccola fortuna nel bel mezzo della peste, proprio a lui che era diventato uno squattrinato perché spendeva più di quanto guadagnava. L’affare infatti sarebbe costato al giornalista diecimila franchi, anche perché bisogna corrompere delle guardie, ma gli rimane quello e solo quello come unico modo per andarsene.
La cosa a un certo punto sembra ormai fatta, quando una sera in un bar Tarrou, amico del dottor Rieux, dice a Rambert che gli dispiaceva per quella sua partenza perché avrebbe potuto essere utile nelle formazioni sanitarie di volontari, organizzate per portare soccorso e organizzare al meglio quanto richiedeva la situazione venutasi a creare in città con la peste. Questo invito non lascerà infatti indifferente il giornalista.
Comunque i ripetuti tentativi non vanno mai in porto, anche perché sempre un qualcosa impedisce a Rambert di fuggire dalla città e così ogni volta si ritrova a dover ricominciare tutto da capo, ricominciare a riorganizzare la sua fuga tramite i contrabbandieri. Alla fine quasi si rassegna. Una sera, con in casa Rieux e Tarrou, avendo ormai compreso che la peste “consiste nel ricominciare”, chiede a Rieux spiegazioni proprio sulle formazioni sanitarie. Lui, che aveva fatto la guerra civile di Spagna dalla parte dei vinti, pensando ai gesti di coraggio che aveva visto, afferma di sapere che l’uomo è sì capace di grandi azioni, ma che a lui interessa solo se è capace di un grande sentimento e dichiara di averne abbastanza delle persone “che muoiono per un’idea”, perché lui non crede all’eroismo: sa infatti che è facile e, soprattutto, sa che è omicida. Quello che solamente gli interessa è invece, e se ne rende conto esattamente in quel frangente,
“che si viva e che si muoia di quello che si ama”.
“L’uomo non è un’idea, Rambert”, gli fa notare Rieux e lui, prontamente e come infiammato dalla passione, gli risponde: “E’ un’idea, e un’idea corta, dal momento in cui ci distoglie dall’amore”, constatando che appunto “noi non siamo più capaci d’amore”.
Per Rambert darsi da fare in mezzo alla peste è cioè come un giocare agli eroi. Rieux gli dà ragione, gli dice anzi che ciò che sta per fare, fuggire, gli sembra pure “giusto e buono”, ma gli fa anche notare che non si tratta di eroismo, ma semmai di onestà: unica e sola maniera di lottare contro la peste. E per lui l’onestà è unicamente fare il suo mestiere di medico lì a Orano con il flagello imperante.
“Ma io non so –disse Rambert con ira- quale sia il mio mestiere! Forse io sono davvero nel torto scegliendo l’amore”.
Comincia ad avere dubbi Rambert, non solo sul suo mestiere di giornalista, ma pure sul significato del suo amore. In ogni caso loro, Rieux e Tarrou, non lo possono capire, perché loro due non hanno nulla da perdere e quindi per loro è più facile “essere dalla parte giusta”, quella cioè che consiste nel rimanere e combattere la peste, mentre lui, rimanendo, rischia il contagio, rischia di morire, rischia di perdere l’amore: rischia di perdere tutto.
A quel punto Rieux vuota il bicchiere ed esce, seguito da Tarrou, perché ha “da fare”. Proprio mentre sta per uscire, Tarrou informa il giornalista del fatto che la moglie di Rieux si trova in una casa di salute a qualche centinaio di chilometri da Orano. Rambert ne rimane colpito, coglie che anche il dottore ha qualcosa da perdere proprio come lui e infatti il giorno dopo telefona a Rieux per chiedergli di prenderlo come volontario nelle formazioni sanitarie. Gli è cioè bastata una notte per cambiare idea. Anche Rieux aveva da perdere, anche Rieux era nella sua stessa situazione, diversa solo perché peggiore, nel senso che sua moglie è non solo lontana e irraggiungibile, ma anche gravemente malata.
Allora cosa è giusto fare: scappare comunque, anche illegalmente, o rimanere?
Soprattutto, si può ancora essere liberi durante la peste? Si può cioè poter scegliere? La risposta di Camus è no! No perchè la peste cancella i destini individuali per lasciare posto solo a sentimenti condivisi da tutti. E il più forte è quello della separazione e dell’esilio, che toglie ogni futuro, e quindi l’amore e l’amicizia.
“La peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche dell’amicizia; l’amore, infatti, richiede un po’ di futuro, e per noi non c’erano più che attimi”.
Sarà questa la riflessione di Rieux. Beninteso, Rambert lavora sodo nelle formazioni, non lascia tramontare il sogno della fuga, dell’evasione, solo che non vive più pensando esclusivamente a quella; intanto si dà da fare, lottando anche lui contro il contagio. Una notte, però, ha una crisi. Uscito da un bar ubriaco e avendo come l’impressione di essersi preso la peste, si mette a correre verso la città alta e, arrivato a una piazzetta, “chiamò la sua donna con un altissimo grido, al di sopra delle mura”.
Tornato a casa e non vedendosi addosso alcun segno del contagio, quasi si vergognò di quel suo momento di crisi. “Può capitare che se ne abbia voglia”, gli spiegò Rieux, che forse era stato tentato anch’egli da quello stesso gesto. Gli consiglia pure di non frequentare più gli ambienti del contrabbando, perché stava diventando rischioso. Il suo è un invito a Rambert perché faccia presto a fuggire.

Finalmente tutto sembra pronto, la fuga è organizzata per la mezzanotte, ma Rambert ha un ultimo ripensamento e va a incontrare Rieux. Per dirgli cosa? Per dirgli che non sarebbe più partito, anzi per dirgli che voleva restare con loro, nelle squadre sanitarie.
 “E sua moglie?” gli chiede Rieux. Restare significa non solo rinunciare a lei, ma continuare a esporsi al contagio.
“Rambert disse che aveva ancora riflettuto, che continuava a credere in quello che credeva, ma che se fosse partito ne avrebbe avuto vergogna; e questo avrebbe guastato il suo amore per colei che aveva lasciato”.
A Rieux, che gli fa presente che è una cosa stupida, perché non c’è nessuna vergogna a preferire la felicità, Rambert risponde, convinto che sì, non c’è vergogna a preferire la felicità, ma che “ci può essere vergogna nell’essere felici da soli”. No, essere felici da soli non può più bastare a Rambert, dopo tutto quello che ha visto e fatto.
“Tarrou, che sino ad allora aveva taciuto, senza voltare la testa verso loro fece notare che se Rambert voleva condividere le sventure degli uomini non avrebbe mai più avuto tempo per la felicità. Bisognava scegliere”.
Rambert gli risponde che non è stata quella la sua riflessione, ma un’altra e ben diversa, maturata in quei giorni estenuanti di servizio sanitario.
“Ho sempre pensato di essere estraneo a questa città e di non aver nulla a che fare con voi. Ma adesso che ho veduto quello che ho veduto, so che io sono qui, che io lo voglia o no. Questa storia riguarda tutti”.
Del resto neanche per gli altri due si trattava di scelta. Neanche loro avevano scelto, neanche Rieux.
“Nulla al mondo vale che ci distolga da quello che si ama. E tuttavia me ne distolgo anch’io, senza poterne sapere la causa (…). È un fatto, ecco tutto (…). Registriamolo e ricaviamone le conseguenze (…). Non posso nello stesso tempo guarire e sapere (…). E allora guariamo il più presto possibile: è la cosa che più importa”.
È con queste parole che il dottore chiude quella loro concitata discussione.
La natura vera dell’amore è dunque quella di una continua mancanza e incompletezza. Rieux, ad esempio, sapeva che sua madre lo amava, ma sapeva anche
“che non è gran cosa amare una creatura o almeno che un amore non è mai sì forte da trovare la propria espressione. Di modo che sua madre e lui si sarebbero sempre amati in silenzio. E lei sarebbe morta –o lui- senza che, durante la loro vita, fossero potuti andare oltre, nella confessione del loro affetto. Nello stesso modo egli era vissuto accanto a Tarrou, e questi era morto, quella sera, senza che la loro amicizia avesse il tempo di essere veramente vissuta”.
Cosa si guadagna allora? Si guadagna ciò che resta, cioè il ricordo, dell’amore e dell’amicizia, anche se è duro vivere solo di quello che si ricorda e privati di ogni speranza, senza la quale non c’è pace.

Verso la fine del romanzo Rieux viene informato della morte della moglie per telegramma. Accoglie la notizia con calma. Era una cosa penosa, ma se l’aspettava, perché sapeva
“che la sua pena era senza sorpresa. Da mesi e da due giorni (da due giorni gli era morto l’amico Tarrou), era lo stesso dolore che continuava”.

Una bella mattina di febbraio le porte della città vennero aperte. La peste finalmente se ne era andata, ma aveva fatto il suo lavoro, quello di mutare il cuore degli uomini. Un senso vago faceva loro desiderare che, dopo tanti mesi perduti nella lontananza, nel distacco forzato, “il tempo della gioia avrebbe dovuto trascorrere due volte meno in fretta del tempo dell’attesa”, ma non sarà così e a quegli uomini, come Rambert, non restavano ora che l’impazienza e lo smarrimento del ricongiungimento.
“L’amore o l’affetto che i mesi di peste avevano ridotto all’astratto, Rambert ora aspettava, in un tremito, di confrontarlo con la creatura di carne che n’era stata il sostegno.
Avrebbe desiderato diventare colui che al principio della peste voleva correre con un solo slancio fuori della città, e slanciarsi incontro a colei che amava; ma sapeva che non era più possibile. Egli era mutato, la peste aveva messo in lui una distrazione che con tutte le sue forze egli cercava di negare e tuttavia continuava in lui come una sorda angoscia. In un certo senso, aveva il sentimento che la peste era finita troppo all’improvviso (…). La felicità arrivava di gran carriera, l’evento andava più presto dell’attesa. Rambert capiva che tutto gli sarebbe stato restituito d’un colpo, e la gioia è una bruciatura che non si assapora”.
Arriva la sua donna, arriva col treno, gli corre subito incontro e gli si butta sul petto, proprio come avrebbe voluto e desiderato.
“Tenendola ben abbracciata, stringendo a sé una testa di cui non vedeva se non i capelli conosciuti, egli lasciò sgorgare le lacrime senza sapere se venissero dalla gioia presente o da un dolore troppo a lungo represso, sicuro almeno che gli avrebbero impedito di verificare se il viso affondato nella sua spalla era quello di cui aveva tanto sognato o invece quello di una estranea. Più tardi avrebbe saputo s’era vero il sospetto. Per il momento egli voleva fare come tutti coloro che avevano l’aria di credere, intorno a lui, che la peste può venire e andarsene senza che il cuore dell’uomo ne sia modificato”.
Il sospetto era fondato. Dal momento in cui la peste aveva di fatto chiuso le porte della città, tutti quelli come Rambert erano vissuti nella separazione, “erano stati tagliati fuori dal calore umano che fa tutto dimenticare".
Certo, Rambert aveva ritrovato l’assente che credeva perduto, ma aveva anche colto che quelli come lui “sarebbero stati felici” per qualche tempo, ma sapendo ormai
“che se una cosa si può desiderare sempre e ottenere talvolta, essa è l’affetto umano”.  
    


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