domenica 27 dicembre 2020

JEAN BASTAIRE, Prefazione a Il portico del mistero della seconda virtù di C. Peguy

 

JEAN BASTAIRE, Prefazione a Il portico del mistero della seconda virtù di C. Peguy, ed. Gallimard (1986)

(traduzione di B. Trevellin)

 


All’anemia dell’essere Peguy oppone una terapeutica spirituale radicale che ha come strumento il poema il cui compito più alto non è di abbellimento, ma di conversione, di morte-resurrezione.

Con una stupefacente intuizione Peguy fa della dannazione un esilio e un fallimento di Dio che, per evitarlo, si riduce a sperare nel peccatore, prendendo Lui l’iniziativa, contando sul peccatore, trepidando per lui nell’attesa che si ravveda.

Il mistero centrale del cristianesimo è l’incarnazione e perciò ogni disprezzo per la carne, ogni disprezzo del temporale è un abominio, perchè Dio ha tanto amato il mondo, non solamente le anime, ma anche i corpi, la terra, la creazione, al punto che per essi ha donato suo Figlio.

Una creatura, Maria, è il prototipo della nuova umanità resuscitata in Cristo, superiore agli uomini e agli angeli, perché lei sola totalmente terrestre e totalmente divinizzata.

Peguy inoltre stabilisce un accostamento fondamentale tra infanzia e resurrezione. L’innocenza dei bambini è esplosiva, loro non conoscono il dubbio, corrono per correre e non per arrivare, sono puro slancio, irresistibili, hanno la freschezza di una terra parusiaca.

 

 

Un gran testo non è solamente bello. Crea della vita, ha un’influenza seminale. Così per i Miserabili o le Illuminazioni. Tra le opere di Peguy nessuna ha meglio giocato questo ruolo fecondante quanto Il portico del mistero della seconda virtù. Innumerevoli lettori ne sono stati beneficiati. Certamente ne hanno attinto la forza di una resurrezione intima.

Si tratta di ben altra cosa che di una fortuna temporanea, legata al clima di una generazione. Il punto d’impatto del Portico è la ferita dalla quale sgorga, in ogni uomo, il sangue dell’anima. All’anemia dell’essere, quando non ha che voglia di dormire e di morire, Peguy oppone una cura radicale. Egli non ne fa un motivo di ragionamento, ancor meno con ammonimenti o consigli. Egli ha orrore della morale e si fa beffe della psicologia. La sua terapeutica è spirituale. Ha come strumento il poema.

Non c’è poeta veritiero che non sia un avventuriero dello spirito. Peguy illustra questa definizione che esclude gli edonisti della penna e i pettegoli pieni di miasmi. Non si entra sotto il suo portico, dall’aspetto piccolo, senza mettere tutto a rischio. O piuttosto ci si sente spinti dal rischio supremo di perdere il coraggio e di cadere nel vuoto.

Peguy si è assunto questo impegno, in un campo di rovine. A parte i propri figli, non c’era niente altro di sicuro in grado di dare senso alla sua vita. La tradizione dreyfusiana e l’avvilimento del socialismo avevano minato la sua fede rivoluzionaria, avvelenato la sua gestione dei Cahiers, distrutto la sua famiglia. A colmare la disgrazia, lo consumò un amore impossibile.

L’inno alla speranza che il Portico è, ha origine dalla disperazione più profonda. Non è un caso se un tale seguito di pagine candide si chiude sulla notte del Venerdì Santo e la sepoltura di Gesù: non con l’angoscia, ma con la pacificazione di un riposo misterioso, che non sappiamo ancora se terminerà con la Pasqua, anche se lo fa pensare. Come se lo sfinimento dell’autore, dopo questa lotta invisibile con l’angelo, alla fine devolasse, doloroso segno in fondo al quadro.

L’opera deve senza dubbio a queste circostanze una tensione esistenziale che le permette di evitare bene le insidie. Essa è stata troppo spesso asservita a una lettura semplicistica, a pezzi scelti, che svuota quello che la sua tenerezza ha di sofferenza purificatrice, di amarezza trasfigurante. In realtà il Portico incarna alla lettera quello che il testo stesso dice dell’acqua cattiva divenuta sorgente viva. Sostenuta dalla speranza, la poesia svolge il suo compito più alto che non è di abbellimento, ma di conversione, di morte-resurrezione, tirando fuori dal male la luce.

 

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Di colpo, essa ritrova una funzione teologica e mistica che il cristianesimo occidentale ha trascurato in lei da lunghi secoli, abbandonando a veggenti incerti, più o meno eretici, ciò che si lascia sfuggire l’ortodossia delle speculazioni dialettiche: la carne dell’esperienza religiosa, il soffio del contatto ontologico.

La poesia teologica torna alla grande tradizione simbolica, così vivida fino al XII secolo e che il cristianesimo orientale ha mantenuto fino ai nostri giorni. Non diciamo che pensi per miti, queste vaste immagini materne nelle quali si concentra un’esperienza decisiva. Pensa per segni. Ma anziché essere prese dall’universo astratto del concetto, questi segni provengono dalla realtà concreta, fenomenica, storica. Il mito stesso, senza dubbio privilegiato, non è altro che un segno.

Il poeta teologo, come il teologo simbolico, procede a una lettura della Creazione. Il mondo per lui è una santa Scrittura in cui si trova narrato un evento sublime: lo stesso che racconta nell’altro Libro e che è fissato nelle parole dei patriarchi, dei profeti e degli evangelisti. Ci sono così due vie per la Rivelazione. Anziché fare due esempi, esse si fanno eco, come se fin dall’inizio la Parola divina, nello stesso tempo che prende forma nei testi sacri, avesse voluto incarnarsi in una carne cosmica.

Quando Peguy evoca l’anima-cavallo e il corpo-aratro, contempla la pioggia dei giorni peggiori per la buona terra delle anime, trasmette la speranza come su una sepoltura  si passa l’acqua benedetta, non si comporta come un creatore di immagini venute bene, tanto più efficaci quanto limpide. È molto più di tutto ciò: un lettore fedele che, attraverso la realtà umana, decifra la realtà divina.

Col suo tono furbo e coi suoi zoccoli grossi, egli comprende il linguaggio di Dio. Così non è sorprendente che faccia parlare Dio.

Lungi dall’essere un procedimento letterario, questo audace obbedisce a una logica intima. Nessuno meglio di Dio potrà offrire la parola essenziale che prima di incarnarsi in Gesù ha inscritto in ogni creatura. Se maneggia con una scioltezza sovrana il linguaggio delle creature e delle cose, è perché ne è l’autore. E se Peguy ne è lo scriba miracoloso, è perché svanisce davanti al Padre del Verbo. “Dice Dio”, nota egli semplicemente. “Parola di Yaweh”, affermano i profeti. Nell’uno e nell’altro caso, Dio annuncia se stesso nell’annunciare il mondo.

Così si spiega uno degli aspetti più sconcertanti del Portico: il lato terra terra, banale di questa visione. Il segno scelto pare insignificante e si accende improvvisamente di un significato segreto. Non è distrutto ma magnificato per lo spiegamento dei sensi. Il muto parla tutto d’un tratto. Il silenzio dei giorni quotidianamente si scioglie. Una lode insolita s’innalza da un universo qualsiasi, dal quale non ci si attende che dell’ordinario.

Così il poema sposa un fiume di immagini famigliari e domestiche: i figli, il padre, la madre, lo zio, a una folla di citazioni evangeliche e liturgiche: Matteo, Luca, Giovanni, l’Ave Maria, il Salve Regina, senza dimenticare Villon, La Fontaine e Hugo. “Tutto fa ventre”, direbbe la saggezza popolare alla quale Peguy egualmente ricorre. Tutto serve a investigare l’amore e al chiarimento mistico.  

 

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L’ammirevole nel portico è che con parole terrene, con immagini carnali che non hanno nulla di filosofico, con movimenti del cuore che sono quelli di ogni creatura, Peguy rivoluziona il cristianesimo nel senso che, come dice altrove, “una rivoluzione è un appello di una tradizione meno perfetta a una tradizione più perfetta”. La sua teologia della speranza distrugge definitivamente il giansenismo e sgombra la strada regale del vangelo, troppo lungamente ingombrata da paure che si fanno beffe della croce di Cristo.

Non solo l’autore del Portico ritorna all’interiore suo dramma personale dell’esilio e della sconfitta, convertendo la disperazione in tenerezza e la derelizione in abbandono creativo. Ma inverte parallelamente un dramma ontologico più generale che lo perseguita fin dalla sua giovinezza e che è al cuore della sua meditazione di Giovanna d’Arco: l’esilio e la sconfitta dei dannati. Con una stupefacente intuizione, egli fa della dannazione un esilio e un fallimento di Dio.

Per evitarlo, Dio si riduce a sperare nel peccatore come il peccatore spera in Dio. Dio prende l’iniziativa. Là come in amore e come in tutte le cose, egli prende l’iniziativa, egli dà l’esempio. Ciò non spiega del resto il più perfetto amore, dove colui che ama si sottomette all’amato, conta sull’amato? Dio conta sul peccatore, trepida per lui nell’attesa che si ravveda e, come il figliol prodigo, venga a cadere tra le sue braccia.

Non meno feconda è un’antropologia che scarta ogni tentazione manichea e fa dell’uomo un insieme nel quale il corpo e l’anima “simbolizzano” (si uniscono) e non “demonizzano” (si dividono). Con un’immagine sorprendente, alla quale in Eva altre di così belle fanno eco, Peguy paragona il corpo e l’anima a due mani giunte nella preghiera o a due polsi legati dal peccato. Corrono la stessa avventura. E il poeta ha l’audacia di rovesciare una proposizione ahimè troppo usuale, benché non cristiana, secondo la quale gli angeli sono fortunati a non avere un corpo. Per Peguy, è una mancanza, poiché non possono imitare Gesù, dal momento che non hanno “lo stesso corpo di Gesù”.

Il mistero centrale del cristianesimo è l’incarnazione. Dio si è veramente fatto uomo perché l’uomo si faccia veramente Dio, secondo l’adagio tradizionale dei Padri della Chiesa. Ogni disprezzo per la carne, ogni disprezzo del temporale è un abominio, perchè è un disprezzare e detestare la condizione reale che il Verbo ha assunto per salvarla. Dio ha tanto amato il mondo: non solamente le anime, ma anche i corpi, la terra, la creazione, al punto che per essi ha donato suo Figlio.

Una creatura è il prototipo della nuova umanità resuscitata in Cristo: Maria madre di Gesù. Lei è superiore agli uomini e agli angeli, senza ombra di peccato. Lei sola è una perfetta imitazione di Gesù, perché lei sola è totalmente terrestre e totalmente divinizzata. Lungi dall’essere un pietismo devoto, il culto di Peguy per Maria è un’esaltazione del temporale per l’eterno, una glorificazione della carne per lo spirito.

Parimenti il ruolo attribuito all’infanzia dall’autore del Portico è agli antipodi di ogni puerilità. Sono solo gli adulti a essere infantili. I bambini sono nuovi, baldanzosi. Con la freschezza di una terra parusiaca, la loro innocenza è esplosiva. Loro non conoscono il dubbio. Secondo la loro gratuità, corrono per correre e non per arrivare. Sono puro slancio. Ecco perché sono irresistibili.

Tra le sue due sorelle maggiori la fede e la carità, la speranza è una figlia piccola che tutto trascina. L’immagine trovata da Peguy è talmente giusta che ha fatto il giro del mondo. Essa riassume il Portico, perché così come esprime  il “puer eternus” dell’inconscio collettivo, esiste un accostamento fondamentale tra l’infanzia e la resurrezione, e la speranza apporta la grazia anticipata della Pasqua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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