Reportage. Così
resiste l'istrioto, "favelà" di un popolo
Lucia Bellaspiga, inviata a Sissano
(Istria, Croazia) venerdì 22 novembre 2019
Un festival a Sissano prova a conservare la lingua
romanza autoctona dell’Istria meridionale, inserita dall’Unesco nel libro rosso
degli idiomi quasi scomparsi
Un laboratorio del
Festival dell'Istrioto che si è svolto a Sissano, in Istria
Come gli ultimi dei Mohicani. Seduti
al banco con quaderni e dizionari come fossero scolari, anche se i capelli
spesso sono bianchi. Si consultano, confrontano vocaboli e pronunce, recitano
proverbi ereditati dai bisnonni, traducono poesie e canti. Sono gli ultimi a
ricordare l’istrioto, una lingua autoctona dell’Istria meridionale considerata
dall’Unesco in grave pericolo di estinzione e perciò inserita nel “Red Book of
seriously endangered languages”, il libro rosso degli idiomi quasi scomparsi.
Per questo sono stati convocati in Istria (attuale Croazia): per richiamare in
vita un idioma, prima che si spenga per sempre. Oggi resiste solo in
sei paesini – Rovigno, Valle, Dignano, Gallesano, Sissano e Fasana –, e sarebbe
affidato alla memoria degli anziani del posto... Se non fosse che alla
fine della seconda guerra mondiale l’esodo degli italiani in fuga dal nuovo
regime jugoslavo svuotò l’Istria, e nella diaspora gli esuli portarono via con
sé anche la parlata: da Torino ad Alghero, dalla Puglia alla Sicilia, da Milano
a Roma, ma anche in Australia, in Sudafrica, in Canada. Si stima che oggi nel
mondo siano in tremila a parlare istrioto, in gran parte sul territorio
italiano. «Spesso sono loro ad aver mantenuto nei decenni l’istrioto originale,
perché chi va lontano cristallizza la lingua senza più modificarla, un po’ come
succede agli emigranti», spiega Paolo Demarin, presidente della Comunità degli
Italiani di Sissano, nonché della Assemblea dell’Unione Italiana di Croazia e
Slovenia, «per questo abbiamo deciso di mettere a confronto i nostri residenti
e coloro che partirono per il mondo: tocca a noi giovani tenere in vita il
patrimonio identitario dei nostri nonni».
Così il
“Festival dell’istrioto” per la prima volta dai tempi della guerra
mondiale ha riunito i “rimasti” e il popolo della diaspora, raccolto tappa dopo
tappa da un pullman passato per Torino, Novara, Milano, Padova e approdato a
Sissano con il suo carico di anziani, ma anche di figli e nipoti che
in casa hanno imparato un istrioto rimasto inalterato dal 1945. «È una lingua
neolatina preveneta, autoctona dell’Istria», spiega Luca Covelli, 36 anni, uno
degli organizzatori del Festival, introducendo già la complessità di un idioma
in buona parte misterioso. Da non confondersi con il ben noto istroveneto,
tuttora molto diffuso in Croazia e Slovenia, «è la prova indiscutibile della
romanicità autoctona e ininterrotta nel corso dei secoli dell’Istria. Gli altri
dialetti che vi si parlano sono arrivati dopo l’istrioto, che resta quindi
l’espressione linguistica più antica ancora esistente».
Ma come mai
si è conservato solo in sei paesi? Anche nella grande città, a Pola, era
certamente in uso fino a metà ’800, «ma poi venne pesantemente influenzato da altre
parlate e infine sostituito dall’istroveneto “polesàn”, specie dopo che
l’Austria scelse Pola come base principale della Marina militare asburgica
dando forte impulso al porto e richiamando nuovi istriani da ogni dove:
tedeschi, ungheresi, veneti, friulani, sloveni, croati, italiani del
Meridione». Tre giorni di laboratorio linguistico hanno riportato alla memoria
vocaboli e proverbi del favelà (così si chiama l’istrioto in
lingua) quasi dimenticati. Tra i testimoni più attivi c’è il maestro Luigi
Donorà, 84 anni, direttore d’orchestra e compositore, arrivato da Torino. Per
decenni ha raccolto dagli anziani i canti della tradizione popolare della sua
terra e li ha armonizzati: «Sono partito esule da Dignano, ma a Torino ho
sempre parlato bumbaro (la versione dignanese
dell’istrioto, ndr), con mia figlia sto scrivendo un
dizionario dei nostri vocaboli». Sua figlia Giuliana, 46 anni, è nata a Torino
ma ha il cuore in Istria, «pensare che da piccola mi vergognavo quando papà
fuori scuola mi parlava bumbaro – sorride –. Qui al Festival
di Sissano è come mettere la macchina d’ossigeno a un malato e vedere che si
rialza. Sono felice di vedere in una sola aula tante persone appassionate e di
tutte le età: le differenze tra le sei parlate sono evidenti, è interessante».
L’ulivo a
Dignano è il vuléio, a Valle l’ulìo. L’insalatiera a Rovigno è la puòdana, a
Sissano la piàdina... Un istrioto unitario in realtà non
esiste – spiega – ma alcune caratteristiche fonetiche accomunano le sei
varianti, ad esempio la massiccia presenza di dittonghi (frouto per
frutto, preimo per primo), o il suffisso -o al posto della -e
finale ( nuoto per notte, zento per
gente, navudo per nipote). Come si vede, la similitudine con
il veneto è molto parziale e non basta certo a spiegare le origini di un idioma
che è sì romanzo (l’Istria era regione romana), ma basato su un substrato
istro, con apporti lasciati dalle varie dominazioni bizantina, longobarda,
veneziana, austriaca, italiana... Da oltre un secolo gli studiosi cercano di
dipanare la matassa, a partire dal padre della glottologia Graziadio Isaia
Ascoli, colui che coniò per il favelà il nome “istrioto”, nato
a tavolino. Lo ha di recente adottato anche il vocabolario Zingarelli tra le
mille parole aggiunte alla nuova edizione: «Ovviamente non è un neologismo»,
sottolinea Mario Cannella, storico curatore dell’opera edita da
Zanichelli. Che alla fine ha scelto di definirlo 'dialetto neolatinoveneto',
tenendo così conto dell’origine preveneta ma da secoli profondamente
venetizzata. La querelle non è di poco conto e persino la politica ha
orientato il dibattito tra i linguisti del primo Novecento, da una parte
propensi a sottolineare la matrice veneta, dall’altra (gli studiosi jugoslavi)
l’originalità rispetto ai dialetti italiani. Il linguista Matteo Bartoli
riteneva che l’istrioto affonda le radici nella decisione di Ottaviano Augusto
di lasciare sul posto i veterani del suo esercito dopo la vittoria, legionari
provenienti da Abruzzo e Puglia che si mescolarono agli Istri autoctoni. E
numerosi contatti linguistici con l’abruzzese e il tarantino, d’altra parte,
erano notati anche dallo storico Bernardo Benussi (teoria suffragata dalla
presenza in Istria delle “casite”, uguali ai trulli pugliesi).
Quel che è
certo è che per secoli la lingua è stata solo orale e curiosamente la prima
testimonianza scritta, del 1835, si deve al canonico Pietro Stancovich, che tradusse la parabola del
“Figliol prodigo”: «Oûn omo al viva du fiuòi. El pioûn peîcio da luri ga deîs a
su padre: misàr pare, dime la parto de la ruoba ca ma tuca», dammi la parte di
patrimonio che mi spetta... E ora? «Il prossimo obiettivo – spiega Demarin – è
far dichiarare ufficialmente l’istrioto “Patrimonio culturale immateriale” da
parte della Repubblica di Croazia, della Regione Istriana, dei sei comuni in
cui è parlato e della intera realtà italofona, quindi della Repubblica
italiana, così che venga tutelato ». Il tempo – aggiunge Covelli – non è a
nostro favore, lo dimostra il caso di Fasana, dei sei paesi il più colpito
dall’esodo, scelto dal maresciallo Tito come luogo di villeggiatura dunque
“jugoslavizzato”: «Per questa edizione non abbiamo trovato alcun fasanese
madrelingua in vita. La nostra speranza è che ne rimanga ancora qualcuno nella
diaspora, là fuori in qualche angolo del mondo...».
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