Non si imparano più poesie a memoria, abbandonata la
pratica del riassunto, trascurata la lettura
La lingua italiana è in pericolo?
La nostra lingua, parlata e scritta, si sta impoverendo e riempiendo di
strafalcioni. L’espressione si fa sempre più semplificata e povera di
argomentazioni. Sotto accusa internet e l’abbandono di alcuni capisaldi della
nostra tradizione didattica.
12 Settembre 2018
Parlare e scrivere
correttamente in italiano è la condizione necessaria per vivere appieno il
nostro ruolo di cittadini consapevoli a scuola, nel lavoro e nell’esercizio
stesso dei diritti civili.
© KBEIS/ Getty Images
© KBEIS/ Getty Images
Se oggi dovessimo tornare sui banchi di scuola,
nessuno si augurerebbe di cominciare un nuovo anno scolastico con una già grave
insufficienza in italiano. Eppure lo
stato di salute della nostra lingua – non solo tra i banchi – è piuttosto
precario, e non a causa della lingua in sé che, suo malgrado,
è già duramente impegnata a rivaleggiare con quelle più diffuse e pervasive al
mondo, dovendosi misurare con ingiustificati neologismi e stucchevoli idiomi
digitali, ma piuttosto per colpa di chi parla e scrive (male) l’italiano.
L’allarme è stato ripetutamente lanciato da
insegnanti, educatori e linguisti. È opinione diffusa che si stia assistendo a
un deterioramento
progressivo dell’uso della nostra lingua, sia orale che scritta. Un
impoverimento che si estende anche al lessico, al vocabolario e alla
comprensione del significato delle parole. Gli italiani, soprattutto i giovani,
sembrano sempre più incapaci di articolare concetti complessi e approfonditi.
E, quel che è peggio, non trovano – o non conoscono – le parole adeguate e
corrette per esprimerli.
Il professor
Gian Luigi Beccaria ha pubblicato con Einaudi il libro L’italiano che resta. Le parole e le storie. A
lungo professore di Storia della Lingua italiana all’Università di Torino,
membro dell’Accademia della Crusca e dell’Accademia dei Lincei, Beccaria non ha
dubbi sulle origini dell’impoverimento dell’italiano. «Una perdita si deve sicuramente al fatto di non
imparare più a memoria brani di poesie, un tempo ottimo
esercizio mentale e culturale; o di
abbandonare la vecchia buona abitudine del riassunto: un altro esercizio
utilissimo in grado di sollecitare alla concisione e alla ricerca di parole
precise ed efficaci». E poi c’è la questione
della lettura. «Per imparare una lingua in profondità, e saper argomentare
un pensiero, occorre dotarsi di un ricco vocabolario. Per costruire una
sintassi che stia in piedi, bisogna
leggere sia a scuola che a casa».
A rincarare la dose ci pensa il professor Vittorio Coletti,
autore per Il Mulino del libro Grammatica
dell’italiano adulto. Membro dell’Accademia della
Crusca, e già professore di Storia della lingua italiana all’Università di
Genova, Coletti è co-autore, con Francesco Sabatini, del celeberrimo Dizionario
della lingua Italiana Sabatini Coletti. Il suo è un atto d’accusa: «Questa è
una pedagogia che viene dall’America, e che ha finito per scalzare alcuni
validi capisaldi del nostro sistema d’insegnamento. La mancata familiarità dei giovani e dei ragazzi con poesie
e con testi letterari ha impoverito il loro linguaggio». E
questo gap si trascina spesso fino all’Università, con esiti disastrosi.
È davvero sconcertante quello che segnala il professor Giorgio Ragazzini,
docente di Lettere e co-fondatore del «Gruppo di Firenze» nato con l’obiettivo di «rivalutare il merito, la
responsabilità e il rispetto delle regole come cornice indispensabile per la
vita della scuola», e che dal 2005 ha raccolto centinaia di adesioni
alle proprie iniziative, e altrettante inquietanti segnalazioni da colleghi
docenti di tutta Italia.
Il Gruppo è stato promotore di appelli, dichiarazioni
e lettere aperte, tra cui, nel 2017, l’Appello dei 600 docenti universitari
contro il declino dell’italiano a scuola. «Circa tre quarti degli studenti
delle lauree triennali sono, di fatto, semi-analfabeti – esordisce Ragazzini
riferendo il contenuto della missiva di un suo collega –. È una tragedia nazionale non percepita dall’opinione pubblica,
né dalla stampa né dalla classe politica». «Dedico ormai una
buona parte della mia attività di docente a correggere l’italiano delle tesi di
laurea», gli ha scritto un professore universitario. Un altro docente lamenta
il fatto che ogni giorno riscontra «lacune sempre più gravi tra gli
studenti, incapaci ormai di scrivere o analizzare le frasi più semplici».
Ad ascoltare la professoressa
Annalisa Andreoni, docente di Letteratura italiana all’Università IULM
di Milano, e autrice del libro Ama
l’italiano, segreti e meraviglie della lingua più bella per
Piemme, si spalanca il cuore: «Rousseau
diceva che l’italiano è una lingua molto adatta alla musica, molto più del
francese. John
Keats sperava che l’italiano sostituisse il francese nel sistema scolastico
inglese perché la trovava una lingua più bella e più musicale. Per Goethe
l’italiano era la lingua amata. Nelle Confessioni del Cavaliere d’Industria Felix Krull di
Thomas Mann, il protagonista dice
che l’italiano è la lingua parlata dagli
angeli in cielo, perché non può immaginare che essi parlino una lingua meno
bella».
Probabilmente senza l’italiano non esisterebbe l’opera
lirica, anzi è proprio l’opera a essere la prima e la migliore ambasciatrice
dell’italiano in tutto il mondo. Sebbene il più acerrimo nemico dell’italiano
sia internet, anche a causa di un «cortocircuito» del nostro cervello. C’è, infatti, un rapporto strettissimo tra la lingua e
il pensiero «il quale deve essere, prima di tutto, nella
nostra testa – osserva Coletti –. Tutti crediamo di pensare a cose profonde e
intelligenti. Ma poi se ci mettiamo a scriverle o anche solo a esprimerle a
parole, abbiamo delle difficoltà. Questo è normale, perché il linguaggio
pensato lo padroneggiamo meglio del linguaggio comunicato. In passato non
c’erano distanze enormi tra questi due “momenti” dell’uso della lingua. Oggi,
invece, proprio a causa di questa consuetudine con un linguaggio rapido,
essenziale e troppo semplificato, lo
stesso nostro pensiero rischia di esprimersi attraverso slogan, tweet, ecc. Una
generazione che si abitua a questa modalità di comunicazione – penso ai giovani
– perde anche l’abitudine ad argomentare, cioè a sostenere discorsi complessi e
profondi».
«La semplificazione, di per sé, può anche portare a un
linguaggio chiaro e diretto – aggiunge Beccaria –, ma l’“istupidimento” delle persone fa sì che le si possa
manipolare meglio. Internet è uno strumento che ti porta il mondo
in casa, e ti consente di consultare qualsiasi tipo di documento. Ma lo si usa
spesso solo per twittare, per lanciare insulti e invettive, per scrivere
stupidaggini, per ingannare il tempo invece di navigare in maniera intelligente
e arricchire la nostra conoscenza».
Quella della formazione e dell’educazione appare,
dunque, come una questione decisiva. «La
scuola, insieme alla sanità e alla ricerca, dovrebbe essere il settore in cui
lo Stato investe maggiori risorse– rimarca Beccaria –.
Invece nel nostro Paese, e non solo, questo non avviene». Così a recitare la
parte di Cenerentola finisce la scuola dove, sempre più spesso, spadroneggiano
genitori con una vivace propensione per il pugilato. «Non ci sono solo quelli
che menano gli insegnanti, ma anche altri che si rendono protagonisti di
continue ingerenze come se, in fatto di insegnamento, ne sapessero più dei
professori».
L’attitudine alla semplificazione, la tendenza
all’impoverimento della lingua e al suo improprio o scorretto utilizzo
comportano un rischio anche per la democrazia. Tra lingua e potere il passo è
breve e molto insidioso. A
furia di interagire con apparecchiature elettroniche, app e software di ogni
tipo, la nostra mente ha assunto le stesse modalità valutative di un computer. Ormai
le persone tendono a ragionare secondo categorie logiche binarie: bianco o
nero, giusto o sbagliato, 0 oppure 1, cioè, appunto, la dicotomia del
linguaggio informatico. A evidenziarlo è ancora Andreoni: «Non ci sono più le
sfumature della complessità. Qui non è in ballo solo la lingua italiana, ma
qualcosa che sta sotto la lingua: il pensiero».
«Il “conoscere per deliberare” di Einaudi – incalza
Ragazzini – stabilisce una condizione essenziale per l’esercizio della
sovranità popolare e per il successivo controllo dal basso, da parte di
un’opinione pubblica sufficientemente informata. Su questo, un ruolo decisivo potrebbero averlo i giornalisti se
sottolineassero sistematicamente, nei discorsi di molti politici, affermazioni
prive di basi, caricature delle idee degli avversari, nonché vere e proprie
menzogne. Ma questo avviene di rado. Eppure la democrazia è, in essenza, “il
metodo di governo attraverso la discussione”, secondo la bella definizione di
Amartya Sen».
«La forza della scuola italiana è stata, per
decenni, quella di contestualizzare ciò che insegnava nella cornice della
storia – rammenta Coletti –. Ma non dobbiamo rinunciare all’italiano anche per
un altro motivo: la lingua materna è quella con cui noi pensiamo. Se non ne
siamo consapevoli, noi non sfruttiamo fino in fondo il nostro cervello. Le neuroscienze dimostrano, con la diagnostica per
immagini, il ruolo esistente tra l’uso della lingua e il funzionamento del
cervello». Come dire che una corretta proprietà di
linguaggio può produrre un successo non solo individuale ma anche del Paese in
cui vivono i cittadini che condividono la stessa lingua.
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