Sabato 6 aprile 2019 - ore 18.30
Scuola secondaria B. Arnaldo da Limena
Via B. Arnaldo da Limena, 44-Limena
LA BELLA STAGIONE
Presentazione del libro di Bruno Trevellin
Accompagnamenti musicali a cura di Massimo
Favaretti, chitarra acustica
“Quando il sole si mise al tramonto, la vendemmia finì anche
per quell’anno. Il vecchio diceva che era stata un’ottima annata, che i
quintali di uva erano stati più di quelli dell’anno precedente e che lui lo
poteva dire perché per quel lavoro aveva occhio e non gli occorreva andare alla
pesa. Ci mettemmo tutti a tavola, gli adulti a quella grande, noi ragazzi a
quella piccola, usata per appoggiare le pentole e i piatti appena lavati”. (dal
racconto Il sole quieto).
Un libro della campagna veneta, impastato con la terra e con i fiumi,
che ha il sapore della stagione passata, la bella stagione, quella che non
tornerà più, perché riguarda il tempo dell'adolescenza e di un Veneto
scomparso.
A mio nonno Toni,
soldato, prigioniero
e contadino
Prefazione
Ne La bella stagione sono messi insieme otto racconti che hanno per
protagonisti ragazzi e preadolescenti di mezzo secolo fa. Ambientati in un’area
periferica e rurale che va da Limena a Villafranca a Rubano, dal Brenta al
Brentella, quasi sempre nella minuscola parrocchia di Taggì di Sopra, sullo sfondo di un Veneto in profonda
trasformazione economica e sociale, questi protagonisti sono come gli ultimi
testimoni della fine di una civiltà, quella contadina che, negli anni ’60 del
Novecento, scomparve definitivamente senza lasciare alcuna traccia della sua
millenaria esistenza. I vecchi rimanevano ancora sui campi nei loro antichi
casolari bassi e umidi con la stalla sotto il portico vicino alla porta della
cucina e il porcile subito dietro casa, ma i loro figli e anche le loro figlie
erano già a lavorare come operai, e operaie, nelle fabbriche del paese o nei
cantieri del nuovo mondo che si stava affermando.
Andare per i campi in compagnia è
il divertimento preferito di questi ragazzi nei giorni d’estate e anche nei
pomeriggi finita la scuola. Il tempo per loro non ha limiti e sembra quasi non
esistere e lo spazio delle vicende, per quanto dilatato, non va mai oltre i
poderi attorno a casa o a luoghi subito raggiungibili a piedi o in bicicletta. Una
vita, la loro, vissuta all’ombra del campanile, ma carica di avvenimenti
vissuti sempre insieme a coetanei della stessa contrada. Il calcio nei
patronati, la pesca in ogni rigagnolo d’acqua, la sagra paesana estiva, le
nuotate nei canali e nel Brenta, la maestra severa e la suora catechista, il
prete onnipresente, le madri casalinghe e i padri muratori o metalmeccanici, i
lavori agricoli col loro ritmo stagionale lento, i riti millenari della
campagna, l’amore e la morte sono i soggetti veri attorno ai quali si sviluppano
i racconti che mantengono una loro unitarietà nel tempo allora vissuto
comunitariamente e nel mondo rappresentato.
C’è in ciascuno di essi come il
presentimento della fine imminente di un’età vissuta a pieno e di un mondo che
ha nei vecchi i suoi ultimi vinti destinati all’oblio. Finisce una stagione
breve e bella della vita, finiscono i lavori di un tempo, finiscono le
camminate interminabili su carrarecce e argini, finiscono i giochi antichi,
finiscono fatalmente anche le amicizie.
La narrazione combina elementi
verosimili insieme ad altri prettamente autobiografici ed è costruita con
riferimenti a luoghi reali, a fatti accaduti e a persone esistite, anche se
quasi sempre fortemente ripensate, ricomprese o trasfigurate e, proprio per
questo, pur a distanza di decenni, sentite come ancor più vere.
Se per Fulvio Tomizza “Chi
possiede una conoscenza integrale della realtà contadina, o si lascia vivere, e
mai sentirà nulla di sublime, o è costretto a ripulirla di una parte
sconveniente, e ne avrà continua nostalgia” (F. Tomizza, La miglior vita) ne La bella
stagione, e non solo per ragioni anagrafiche (l’autore dei racconti non
poteva, da ragazzo, coglierne la ‘parte sconveniente’, che quegli adulti, in
ogni caso, raramente avrebbero lasciato trasparire), si ha come l’impressione
che chi scrive lo faccia sentendo di
appartenere proprio e solo alla seconda categoria (Bruno Trevellin).
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