giovedì 25 aprile 2019

Ben Vivere: alla ricerca della città realmente ideale


La classifica di Avvenire. Ben Vivere: alla ricerca della città realmente ideale

Francesco Riccardi venerdì 29 marzo 2019
L'Italia oltre il Pil: in testa Bolzano e Trento. Avvenire con la Scuola di economia civile e il supporto di Federcasse ha compilato una graduatoria in base a vari indicatori di qualità della vita

I soldi, si sa, non fanno la felicità così come il benessere non è solo quello materiale. Che cosa fa allora il vivere bene in una città, in un territorio?Una serie di fattori, dei quali la ricchezza pro-capite, lo sviluppo economico e le opportunità occupazionali sono una parte importante sì ma niente affatto esclusiva, che anzi, quando non ben governati, possono persino essere controproducenti.
“Avvenire” ha perciò deciso – in collaborazione con la Scuola di economia civile e con il supporto di Federcasse – di costruire una classifica del “Ben-vivere nei territori” che tenesse conto di questa complessità di fattori. Siamo partiti da un’attività di analisi, una serie di focus group per comprendere a fondo quali fattori influiscono maggiormente sulla qualità della vita delle persone e in quali ambiti gli abitanti di una città riescono meglio a esprimere se stessi, sviluppare le proprie potenzialità, essere generativi, cioè riuscire a incidere sulla vita degli altri in maniera significativa.
I domini all’interno dei quali sono stati selezionati gli indicatori specifici sono: demografia e famiglia, salute, impegno civile, ambiente turismo e cultura, servizi alla persona, legalità e sicurezza, lavoro, inclusione economica, capitale umano, accoglienza. I ricercatori della Università di Roma Tor Vergata e della Lumsa, Lorenzo Semplici e Dalila De Rosa – coordinati dai docenti Leonardo Becchetti, Luigino Bruni e Vittorio Pelligra – hanno quindi rielaborato i dati a livello provinciale di Istat e altre istituzioni.
Ne è emersa una misura tradizionale del benessere, costruita con un punteggio medio nei domini e negli indicatori selezionati dal gruppo di ricerca, che però riflette la scala di attenzioni e priorità fissate nei focus group. Privilegiando gli aspetti che i recenti studi empirici su soddisfazione e senso della vita dimostrano essere fondamentali. Ad esempio: la qualità dei servizi alla persona, la possibilità di dar vita a nuove iniziative economiche, l’offerta formativa, la salvaguardia dell’ambiente, la capacità di accogliere e tutelare la vita nelle sue varie forme.
E così siamo arrivati a stilare la classifica: dominata dalle province autonome di Bolzano e Trento, tallonate dai capoluoghi del Friuli Venezia Giulia con Pordenone al terzo posto, Gorizia e Udine al nono e al decimo, dopo il buon piazzamento di Firenze, Parma e Pisa che battono la titolata Milano e la dotta Bologna.
Sono tanti gli spunti di riflessione che possono emergere anche solo da una prima lettura della classifica. In generale, i centri medi sembrano offrire una qualità complessiva migliore, come se le grandi metropoli pur ricchissime di opportunità pagassero il prezzo della maggiore densità in termini di peggiore qualità ambientale e minore attenzione alle relazioni.
Si confermano le difficoltà del Mezzogiorno, tutto nella seconda parte della classifica, fino agli ultimi posti di Reggio Calabria, Vibo Valentia, Napoli e Crotone. Città e intere regioni che, oltre al divario economico e occupazionale (il reddito medio disponibile nella provincia di Enna, 25.700 euro, è meno della metà di quello di Milano, 55.553 euro) scontano anche peggiori servizi pubblici e un capitale umano più povero (a Bologna i giovani con laurea sono il 37,5% e i diplomati il 70%, nella provincia di Barletta-Andria i laureati sono meno della metà, il 14,5%, i diplomati appena il 40%). Certo, ci sono i paradossi del benessere che città come Trento, Bolzano, Milano pagano in termini di maggiore dipendenza dall’alcool, disagio psichico e numero di suicidi, ma anche questo non è sufficiente a dare una misura precisa del vivere bene in un territorio.
Così abbiamo provato a immergerci ancora più in profondità nella realtà del Paese, stilando altre due classifiche, assai significative per i parametri utilizzati, sulla “Generatività dei territori” e sulla “Responsabilità civile dei territori” che potete leggere alle pagine III e V di questo inserto. E se non vi bastasse, sul nostro sito (www.avvenire.it) oltre a trovare la classifica del Ben-vivere potrete interagire con essa “pesando” voi i diversi parametri per scoprire il vostro territorio ideale, la città in cui vorreste vivere.


mercoledì 24 aprile 2019

Montessori, le origini religiose del metodo


Inediti. Montessori, le origini religiose del metodo
«Il fanciullo è migliore di noi» non perché privo del peccato, ma perché dal peccato è stato liberato

Alessandro Zaccuri martedì 23 aprile 2019
In una conferenza tenuta a Londra nel 1921 e finora mai pubblicata, la grande pedagogista chiarisce la sua posizione sul peccato originale

La grande pedagogista ed educatrice marchigiana Maria Montessori (1870-1952)
Non se ne parlava da un po’, anche se da un po’ di tempo non si parla d’altro. Fateci caso: film e romanzi, serie televisive e inchieste giornalistiche non fanno altro che promettere rivelazioni sulle radici del male, eppure non menzionano mai il peccato originale. E sì che per secoli non abbiamo potuto farne a meno. Snodo cruciale per la Riforma, il peccato originale rappresentava un ingombrante ostacolo ancora per Immanuel Kant, che nella Religione entro i limiti della sola ragione cercò di cavarsela elaborando la nozione – non priva di ambiguità – di “male radicale”. È una storia solo in apparenza conosciuta, quella del peccato originale in sede speculativa e morale. A un’osservazione più ravvicinata, infatti, questa vicenda più che millenaria rivela implicazioni inattese e chiama in causa testimoni imprevedibili. Come Maria Montessori (1870-1952), la grande pedagogista le cui personali convinzioni in materia di peccato originale furono spesso criticate e fraintese, tanto da accreditare il pregiudizio di un’origine scientista e laicista del proverbiale “metodo”. Una serie di equivoci che hanno quasi del tutto messo in ombra le origini cattoliche dell’avventura montessoriana e perfino la fede tenacemente professata dalla fondatrice. Fanno chiarezza su questa dimensione – nello stesso tempo scientifica e mistica – del montessorismo gli studi di Fulvio De Giorgi, professore di Storia dell’educazione all’Università di Modena e Reggio Emilia. Autore di saggi importanti, De Giorgi è anche il curatore di molti scritti montessoriani inediti o rari, a partire dal piccolo libro su Dio e il bambino uscito nei Paesi Bassi alla vigilia della Seconda guerra mondiale e pubblicato in Italia sono nel 2013, in un volume allestito appunto da De Giorgi.

Adesso tocca a Il Peccato Originale (Scholé, pagine 208, euro 15,50), conferenza tenuta da Maria Montessori a Londra nel 1921, nel pieno di un dibattito che da teologico si sarebbe fatto da lì a breve politico, come De Giorgi puntualmente illustra nell’ampia postfazione. Oltre al testo italiano dell’intervento e alla relativa versione inglese, il volume ospita anche un breve articolo del 1931, dal titolo in parte sfuggente I reattivi psichici, nel quale la questione viene affrontata in maniera indiretta, ma non per questo meno efficace. Partiamo da qui, ossia dalle due citazioni bibliche che Maria Montessori adopera come cartina di tornasole (come “reattivo”, dunque) delle diverse sensibilità pedagogiche. La prima viene dal Libro dei Proverbi e richiama al dovere di castigare i fanciulli con la verga per salvarli dalla dannazione: in questo contesto, osserva Maria Montessori, il bambino non si differenzia in nulla dallo schiavo, non solo perché è di fatto ridotto a «proprietà » dell’adulto, ma anche e principalmente perché lo si considera irrimediabilmente assoggettato al peccato. Di tutt’altro tipo è invece la prospettiva suggerita da Paolo nella Prima lettera ai Corinzi. Paziente e benigna, «non astiosa» né «insolente», la carità detta il programma di un’educazione veramente umana e liberante. Seguire un modello diverso, avverte ancora Maria Montessori, significherebbe confinare i bambini «in un angolo senza luce nel nostro cuore». Osservazioni che oggi suonano incontestabili, ma che all’epoca risultavano in contrasto con i criteri della pedagogia tradizionale, anche in ambito cattolico. Il percorso della nuova educazione (che nel linguaggio montessoriano assume i connotati di una «nuova creazione ») si intreccia e in parte sovrappone con quello del modernismo.

Nel 1929, nella fattispecie, nell’enciclica Divini Illius Magistri Pio XI condanna il cosiddetto naturalismo pedagogico, la cui indole permissiva deriverebbe dal mancato riconoscimento della colpa che l’essere umano porta in sé dalla nascita. Il fronte è lo stesso sul quale si muoveva nel 1907 l’enciclica antimodernista di Pio X, Pascendi Dominci Gregis, solo che adesso le osservazioni sul peccato originale si sono fatte più esplicite, così da implicare ricadute pratiche tutt’altro che irrilevanti, anche per quanto riguarda l’operato delle scuole montessoriane. Un sospetto di lassismo, del resto, accompagnava da tempo l’esperienza delle Case dei Bambini. Al parziale apprezzamento del gesuita padre Mario Barbera si contrapponeva la rigidità espressa dal fondatore dell’Università Cattolica, padre Agostino Gemelli, portavoce dello schieramento – allora maggioritario – di quanti consideravano la lotta alle conseguenze del peccato originale come premessa irrinunciabile del progetto educativo cattolico. Una situazione già di per sé complessa, resa ancor più delicata dalle pretese del regime fascista, il cui programma di educazione di Stato finì per accentuare il carattere secolare della nuova pedagogia.

Pur irriducibile a ogni schematismo, il montessorismo si trovò al centro di tutte queste tensioni, che ne resero sempre meno evidente la componente religiosa. Al «Peccato Originale» (e con tanto di maisucole), però, Maria Montessori non aveva mai smesso di credere. Lo ribadisce la conferenza londinese, tenuta presso il convento delle suore dell’Assunzione. In queste pagine la libertà del bambino è messa al centro del progetto educativo e, nello stesso tempo, distinta dalla deriva dell’«abbandono» permissivo. Non si tratta di «ottimismo esagerato», afferma la pedagogista. Per superare il «grande malinteso che esiste tra l’adulto e il bambino» occorre infatti ammettere che il peccato è semmai dell’educatore, non del «fanciullo battezzato», nel quale si esprime la pienezza della grazia. «Il fanciullo è migliore di noi» non perché privo del peccato, ma perché dal peccato è stato liberato, diventando «espressione di vita umana tanto più pura di noi». Un buon motivo per testimoniare la carità, insomma, e per mettere da parte la verga.


lunedì 22 aprile 2019

ATTENTATI SRI LANKA


ATTENTATI SRI LANKA/ I miliardi e la Cina spiegano la strategia del terrore religioso
22.04.2019, agg. alle 07:58 - Mauro Bottarelli
Attentati Sri Lanka. Il paese, vittima di una strage nel giorno di Pasqua, è un crocevia fondamentale di interessi strategici

Prima che il comodo alibi del Dio buono contro il Dio cattivo, sia esso Allah o Buddha o chi altro, faccia calare il suo ipocrita mantello sugli interessi degli uomini, proprio nei giorni più sacri per i cristiani, meglio mettere in fila qualche fatto. Perché certe tragedie ci sbattono conradianamente in faccia l’Orrore, quindi o si ha il coraggio di guardarlo dritto negli occhi, dandogli un nome, o è meglio tacere. La terza ipotesi, quella di tramutare tutto in propaganda e ideologia, temo che purtroppo diverrà ancora una volta la più diffusa. Lo Sri Lanka è pacificato solo a parole, dopo anni e anni di guerra civile e di attacchi delle Tigri Tamil. È in atto uno scontro spaventoso di potere fra Presidente e Parlamento, quindi che qualcuno possa arrivare all’abominio della strategia della tensione non deve stupire. L’Orrore, in quanto tale, si nutre di questo.
Altrimenti, appare quantomeno strano che uno dei capi della polizia abbia diramato un allerta per un possibile attentato in preparazione solo dieci giorni fa e che, nonostante questo, il Paese non sia stato colpito da un singolo kamikaze, da un’autobomba, da un gesto incontrollabile. È stato bersagliato simultaneamente da otto esplosioni, un lavoro militare. Da professionisti. O da chi sa che può contare su connivenze e silenzi. Diciamo le cose come stanno: senza quinte colonne, un’operazione simile in un Paese pre-allarmato non può accadere. O, almeno, non potrebbe accadere.
E chi aveva messo sul chi va là la polizia? Si parla di un servizio segreto straniero. Come al solito, ovviamente. E in tempi di guerra di intelligence, non stupisce. Viviamo nel mondo del terrore perenne, dei continui allarmi, delle messe in guardia costanti. Alcune vengono prese sul serio, altre no. E nelle pieghe di queste ultime, si insinuano come serpenti gli atti destabilizzanti. Destinati a procurare paura, prima che morti. I quali, da quelle parti, non fanno notizia come da noi. Quante bandiere dello Sri Lanka, in segno di lutto e solidarietà, avete visto postate su Facebook o Twitter ieri? Per Notre Dame abbiamo assistito a uno stillicidio social. Lo Sri Lanka è un Paese in crisi economica, grave. Pesantemente indebitato a livello estero, come spesso accade da quelle parti.
Ecco come Bloomberg descriveva brevemente l’impatto degli attacchi di ieri: “La capacità dello Sri Lanka di attrarre investimenti esteri è destinata a diminuire dopo gli attacchi di domenica, stando a Raffaele Bertoni, capo dei debt-capital markets alla Gulf Investment Corporation di Kuwait City. Gli eventi di questa mattina, insieme alle crescenti tensioni politiche e all’indebolimento dell’attività economica, avranno un impatto a partire dalla rupia. Bertoni vede la rupia indebolirsi fino a 180 per dollaro”. Questo dopo che giovedì la stessa rupia aveva chiuso le contrattazioni a 174,11 sul biglietto verde.
Direte voi, davvero lo Sri Lanka e la sua economia sono così importanti da giustificare un atto di destabilizzazione simile, se davvero dobbiamo guardare oltre l’orticello – seppur seminato a mine – delle dispute politico-religiose meramente interne? Davvero dobbiamo pensare a qualcosa che vada oltre il mero atto terroristico di matrice religiosa? Dunque, uno dei capi della polizia dieci giorni fa aveva avvisato del pericolo. Ieri è accaduto quel che è accaduto, un’ecatombe. Un attacco senza precedenti in un Paese che di attacchi ne ha subiti per anni, per decenni. E, stranamente, quando l’ultima bomba era esplosa da un’ora, già si parlava senza dubbio di matrice religiosa e, addirittura, erano già stati compiuti degli arresti, era stato individuato e sgominato il commando. Strano recupero di efficienza, non vi pare?
Ripeto, non si è trattato di un attacco di quelli che non si possono prevedere, dell’atto del lupo solitario o del kamikaze, dell’assalto armato o dell’esplosione su un treno senza controlli: otto ordigni esplosi pressoché simultaneamente in altrettanti punti del Paese, con epicentro in chiese (nel giorno di Pasqua) e nei tre alberghi principali, notoriamente pieni di turisti occidentali. Uno dei quali addirittura si trova di fronte alla casa del primo ministro. Certo, tutto può essere. Ma una cosa appare palese: la discrepanza di atteggiamento delle forze di sicurezza. Fra prevenzione e reazione, fra prima e dopo. Quasi si trattasse di due corpi distinti, di due eserciti uno contro l’altro. In seno allo stesso Stato. Con nelle vene, lo stesso sangue di quei 200 e passa morti.
Ora, guardate queste due mappe e guardate perché lo Sri Lanka è così importante: è al centro della rotta marittima della “One Belt, One Road Initiative” cinese. È lo snodo dall’Estremo Oriente verso le rotte che porteranno al terminale finale dell’Europa, è il punto di snodo verso il gigante indiano e il Pakistan, lo stesso Paese che sta annullando un contratto dopo l’altro con Pechino, causa – ufficiale – eccessivi costi. È indebitato lo Sri Lanka e, in quanto tale, accetta aiuto da chi lo offre. Da chi costruisce ponti, ferrovie, strade. Presta magari denaro, evitando le forche caudine del Fmi. E in cambio offre logistica e strategicità geografica e geopolitica.


Signori, il gioco qui è molto più grande di quanto si possa pensare. Al mondo ci sono pazzi che, in nome del loro Dio, uccidono e distruggono? Certo. Ma al mondo c’è anche chi utilizza quegli stessi pazzi per finalità che con Dio non hanno nulla a che fare. Tanto più un Dio che non vorrebbe contaminazioni impure, come ci dicono, un Dio iconoclasta dell’altro fino al punto di chiederne lo sterminio. Purtroppo, le coincidenze di interessi del Male e dell’Orrore sono un qualcosa che dobbiamo mettere in conto, evitando però l’errore di rinchiuderle in un ghetto ideologico-religioso di buoni e cattivi, come nomi appuntati dal capo-classe a scuola durante l’assenza della maestra. Purtroppo, qui stiamo parlando di interessi miliardari. Multi-miliardari, a livello economico. E, ancor di più, strategici a livello di equilibri mondiali. E come in quella immaginaria classe, dove con il gesso si segna chi tira le palline e chi invece studia diligentemente, oggi il mondo sta patendo un periodo di vacanza di leadership consolidata: la maestra non c’è, si attende che arrivi chi la sostituisce. O, almeno, una supplente che tenga ordine.
Se riguardate bene quelle mappe, vedete come quel puntino insignificante in mezzo all’Oceano Indiano sia – di fatto – l’ombelico di un enorme mondo che si dipana lungo traiettorie che sono, a loro volta, coacervi di interessi: economici, finanziari, minerari, politici, commerciali, produttivi. Perché ora, perché in questo modo? Perché sfidare apertamente e in maniera così plateale nella sua dimostrazione di forza, un Paese che formalmente da dieci giorni era stato avvertito che qualcuno stava pianificando un attentato? Ripeto, chi è stato fermato dalla polizia magari è davvero responsabile, ma è soltanto una parte di un ingranaggio enorme che, purtroppo, non è farina del sacco del fanatismo. Non del tutto, almeno.
Certo, la manovalanza dei timer e dei detonatori ha compiuto quell’atto di macelleria di massa in nome di Allah o Buddha o chissà chi altro, magari. Ma come possiamo credere che davvero sia tutto una questione di noi contro loro? E, soprattutto, di loro in grado di uscire dal silenzio in maniera così onnipotente nell’atto vigliacco di plasmare la kora dell’Orrore, come moderno demiurgo di morte? Siamo dentro tempi pericolosi, sempre più pericolosi. Davanti a noi, oltre il Mediterraneo, un altro incubatore potenziale di violenza e destabilizzazione sta soffiando il proprio vento nelle vele di chi punta a governare il caos, le anime nere di cui vi parlo ormai da mesi e mesi. I cavalieri di ventura, quelli che sanno sempre quando entrare in scena, salvo uscirne un minuto prima che lo spettacolo finisca tra i fischi, lasciando ad altri l’onta della sconfitta o il peso del Male compiuto.
Perché adesso, il problema principale non sarà dare sepoltura a quei poveri resti, né portare alla sbarra i responsabili. Ora si apre la grande partita, l’asta per l’appalto del bene più grande, nel tempo della paura permanente: a chi affidarsi, per essere difeso, per non avere più paura? Chi offrirà allo Sri Lanka maggiori garanzie, affinché non si ripeta un’ecatombe simile? E chi lo deciderà, in un Paese in cui Presidente e Parlamento sono in guerra? Magari, quella divaricazione ora si farà più grande, la tensione fra le parti più palpabile, perché ci sono morti da piangere e parenti che vogliono giustizia. O, magari, vendetta. Chi offrirà loro il conforto che cercano e sotto quale forma?
Dalla risposta a quella domanda, si scoprirà anche chi gestirà quei punti di passaggio, quei golfi, quelle autostrade del mare, quelle infrastrutture. Ora che poi, magari, la rupia crollerà sul mercato e il debito estero diventerà ingestibile, perché il suo carico mostrerà la faccia feroce dell’insostenibilità strutturale. Qualcuno dovrà intervenire o, magari, si rischierà di ripiombare nella guerra civile, simile a quella delle Tigri Tamil che si credeva finalmente finita, insieme ai suoi lutti. O forse, l’idea è proprio quella, l’ennesimo proxy. Come lo Yemen, come la Siria, come il Venezuela, il Donbass. È un enorme Risiko, una partita a scacchi senza pietà, tutta incentrata sulla paura. Ma dietro le quinte, linde e azzimate grisaglie, indici di Borsa, costi del denaro, investimenti esteri, luccicanti infrastrutture inaugurate con tutti gli onori e foto di rito, champagne che scorre. O invece sarà davvero solo guerra di religione, sarà loro contro di noi, sarà occhio per occhio, sarà paura permanente, controlli sempre più stringenti in aeroporto per un flaconcino di collutorio. Mentre in Sri Lanka, a dieci giorni da un allarme specifico, l’Apocalisse ha trovato casa e rifugio proprio nel giorno della Resurrezione, nel suo tempio.
Rifletteteci, è troppo semplice per essere davvero vero. Come diceva Péguy, Cristo passa attraverso le ferite. L’Orrore, invece, ha il compito di provocarle. E, ancor più, quello di offrirti un responsabile pronto uso, di additarti il carnefice. Come quei sette arrestati, beffa senza pietà dopo il danno di una mattanza come tante altre, nuovo capitolo di una serie infinita che, ogni tanto, deve offrire un colpo di scena. Per tenerci incollati allo schermo.