in libreria dal 5 ottobre
Grande guerra: finite le ostilità,
non terminarono stragi e sofferenze
In un saggio di Robert Gerwarth (Laterza), le terre straziate dalle lotte cruente
che seguirono l’armistizio del 1918, tra cui Russia, Germania, Finlandia, Ungheria
C’è
una considerevole parte d’Europa (e non solo) per la quale gli anni
successivi alla Prima guerra mondiale hanno contato molto di più — anche
in termini di sofferenze — di quelli tra il 1914 e il 1918. In primo
luogo la Russia, la cui storia nel Novecento inizia — per così dire —
con le due rivoluzioni del 1917. Ma anche l’Ucraina, la Polonia, la
Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Finlandia, la Serbia, l’Irlanda. E,
dall’altra parte del Mediterraneo, l’intero Medio Oriente. Lì il ricordo
della Grande guerra è quasi sfocato rispetto a quello ben più nitido
degli anni successivi al conflitto. Proprio perché per molti Paesi
europei la Prima guerra mondiale non finì affatto nel 1918 e anzi, per
alcuni, il periodo che seguì fu più sanguinoso del precedente. Se ne
accorse già nel maggio del 1919, un quotidiano austriaco ad ampia
diffusione, «Innsbrucker Nachrichten», che pubblicò un editoriale, dal
titolo La guerra in tempo di pace,
nel quale si constatava con un certo allarme che la violenza
postbellica aveva investito un arco territoriale che andava dalla
Finlandia e dagli Stati baltici, alla Russia, all’Ucraina, alla Polonia,
all’Ungheria, alla Germania e all’Austria stessa. Per estendersi,
attraversati i Balcani, all’Anatolia e al Caucaso. Forse per una
distrazione l’articolo non menzionava l’Irlanda, che pure durante la
guerra d’Indipendenza (1919-21) e il successivo conflitto civile
(1922-23) avrebbe conosciuto drammi assai simili a quelli che
allarmavano il giornale austriaco. Drammi che avrebbero trovato il loro
apogeo nelle due settimane del settembre 1922 in cui i turchi
rientrarono in possesso di Smirne, diedero ai loro uomini licenza di
saccheggiare nonché di uccidere e i morti, tra greci e armeni, furono
trentamila.
Nel 1919, su impulso del primo ministro britannico David Lloyd George,
un esercito di invasione greco era sbarcato a Smirne. Adesso, dopo tre
anni di feroci scontri armati, i soldati di Mustafa Kemal
riconquistavano la città e per prima cosa catturavano l’arcivescovo
ortodosso Chrysostomos, reo ai loro occhi di aver, a suo tempo,
sostenuto l’invasione greca. Il metropolita fu consegnato ad una folla
inferocita che lo rinchiuse nel negozio di un barbiere ebreo. E fu il
proprietario della bottega a descrivere ciò che accadde in seguito:
«Qualcuno afferrò un telo bianco, lo mise attorno al collo dell’uomo e
urlò: “Dagli una rasata!”. Al prelato strapparono poi la barba, gli
cavarono gli occhi con dei coltelli, gli amputarono le orecchie, il naso
e le mani. Il corpo martoriato venne quindi trascinato in un vicolo,
scaraventato in un angolo dove avrebbe conosciuto la morte dopo ore e
ore di inumane sofferenze». Fu anche questa l’Europa del primo
dopoguerra. Un continente descritto adesso con grande efficacia da
Robert Gerwarth nel libro La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923 che, nell’eccellente traduzione di David Scaffei, Laterza manderà a giorni in libreria.
Per coloro che nel 1919 vivevano a Riga, Kiev, Smirne o in molte altre località dell’Europa orientale,
centrale e sud-orientale, scrive Gerwarth, non ci fu pace in quegli
anni, «ma solo una continua scia di violenze». La guerra mondiale, notò
già allora il filosofo russo Pëtr Struve — che aveva militato dapprima
con i socialisti e successivamente dalla parte dei «russi bianchi» —
«terminò formalmente con la firma dell’armistizio, ma di fatto tutto ciò
che da quel momento in poi abbiamo vissuto e continuiamo a vivere, non è
che una continuazione e una trasformazione della guerra mondiale». Solo
fra il 1917 e il 1920, nota lo storico, in Europa si ebbero ben 27
mutamenti politici violenti, molti dei quali accompagnati da guerre
civili latenti o conclamate. Il caso più estremo fu quello della Russia
dove «l’ostilità fra i sostenitori del colpo di Stato attuato dai
bolscevichi di Lenin nel 1917 e i loro oppositori degenerò rapidamente
in una guerra civile di proporzioni senza precedenti, che alla fine
avrebbe provocato ben più di tre milioni di vittime». Tre milioni di
vittime.
I Paesi europei sconfitti nella Grande guerra, scrive lo studioso,
«spesso sono stati descritti o attraverso il prisma della propaganda o
assumendo il punto di vista del 1918, quando la legittimazione dei nuovi
Stati nazionali dell’Europa centro-orientale esigeva la demonizzazione
degli imperi dai quali si erano distaccati». Un genere di lettura che
indusse alcuni storici occidentali ad «interpretare la Prima guerra
mondiale nei termini di un’epica lotta tra gli Alleati democratici da
una parte e gli Imperi centrali autocratici dall’altra (tralasciando il
fatto che l’impero più autocratico in assoluto, la Russia di Nicola II,
aveva fatto parte della Triplice Intesa)». In anni più recenti però,
riconosce l’autore, un numero crescente di ricerche sugli ex imperi
ottomano, tedesco e austriaco ha messo in discussione la leggenda nera
secondo la quale gli Imperi centrali «erano più o meno degli Stati
canaglia e delle anacronistiche prigioni dei popoli». La
«riabilitazione» è stata relativamente agevole per la Germania e
l’Impero asburgico, che oggi appaiono agli storici «in una luce molto
più benevola (o quantomeno più sfumata)» di quanto non fosse stato fino
alla fine del Novecento. Ma anche riguardo all’Impero ottomano, dove il
genocidio degli armeni avvenuto durante la guerra sembrava confermare la
«natura malvagia» di quell’impero stesso che avrebbe usato «la violenza
per sopprimere le minoranze», bene, rispetto a questa lettura sta
adesso gradualmente venendo alla luce un quadro che viene presentato
come assai più complesso.
E anche se si considerano eccessive queste «riabilitazioni» degli imperi prebellici, aggiunge Gerwarth,
«sarebbe difficile sostenere che l’Europa postimperiale fosse un luogo
migliore e più sicuro rispetto a quella del 1914». Era dai tempi della
guerra dei Trent’anni (1618-1648) che nel nostro continente non si
assisteva a un intreccio di conflitti, «ma soprattutto di guerre civili
dai confini così indefiniti e dal carattere così cruento come quelle
degli anni successivi al 1917-18». Con scontri armati che si
sovrapponevano alle rivoluzioni, alle controrivoluzioni, e alle ostilità
di confine fra Stati in formazione, privi di frontiere chiaramente
definite e di governi riconosciuti dalla comunità internazionale, con
tutte queste esplosioni di odio «l’Europa postbellica degli anni che
vanno dalla conclusione ufficiale della Grande guerra nel 1918 al
trattato di Losanna del luglio 1923, fu il luogo più violento del
pianeta». Anche a non voler calcolare i milioni di decessi provocati fra
il 1918 e il 1920 dalla pandemia di influenza spagnola o le centinaia
di migliaia di civili che da Beirut a Berlino perirono di fame in
conseguenza della decisione alleata di mantenere il blocco economico
anche dopo la fine delle ostilità, scrive Gerwarth, le vittime dei
conflitti armati dell’Europa in quei cinque anni furono «più delle
perdite subite complessivamente dalla Gran Bretagna, dalla Francia e
dagli Stati Uniti nel corso della Grande guerra». Milioni e milioni di
morti. Ai quali vanno aggiunti altri milioni di profughi impoveriti
provenienti dall’Europa centrale, orientale e meridionale, che vagarono
negli scenari stravolti dalla guerra dell’Europa occidentale, alla
ricerca di sicurezza e di una vita migliore. Talché secondo l’autore de La rabbia dei vinti
non si può dar torto a quegli storici dell’Europa orientale (tipo Peter
Holquist) che hanno definito la stagione successiva al 1918 come
un’epoca di «prolungata guerra civile europea».
Se questo tema per decenni ha scarsamente attirato l’attenzione degli storici,
la colpa è probabilmente della cultura anglosassone. Winston Churchill,
ad esempio, liquidò i conflitti postbellici di cui stiamo parlando
definendoli «guerre di pigmei». Secondo Gerwarth parole così sprezzanti
riflettono «quell’atteggiamento intriso di pregiudizi antiorientali (e
d’impronta implicitamente coloniale) nei confronti dell’Europa dell’Est
che, dopo il 1918, prevalse per decenni nei libri di testo occidentali».
Un derivato dell’idea sviluppatasi tra la crisi balcanica (1875-78) e
le due guerre balcaniche (1912-13) che i Balcani, appunto, e con essi
l’intera Europa orientale «fossero in un certo senso intrinsecamente
violenti, al contrario dell’Occidente civilizzato e pacifico». Di un
Occidente quantomeno caratterizzato, secondo questa visione culturale,
da una radicata vocazione alla pace.
Si può dire che la stagione di cui stiamo parlando iniziò con la rivoluzione d’Ottobre.
La Grande guerra cambiò natura quando la rivoluzione bolscevica
determinò l’uscita della Russia dal conflitto e gli Alleati, rafforzati
dalla discesa in campo degli Stati Uniti al loro fianco, «perseguirono
sempre di più lo smantellamento degli imperi europei come un obiettivo
della guerra». Anzi: come se fosse stato fin da principio il reale
obiettivo della guerra stessa. Gli eventi russi ebbero un «duplice
effetto»: l’ammissione della sconfitta da parte di Pietrogrado aumentò
le aspettative di vittoria imminente da parte degli Imperi centrali
(«solo qualche mese prima che la loro definitiva sconfitta li portasse a
cercare quei nemici “interni” a cui attribuivano la causa del crollo»),
infondendo allo stesso tempo «nuove possenti energie in un continente
lacerato dalla guerra e, dopo quattro anni di combattimenti, maturo per
la rivoluzione».
Fu proprio in questo periodo, secondo Gerwarth, «che un conflitto fra Stati particolarmente cruento
ma in definitiva convenzionale come era stata la Prima guerra mondiale»
lasciò il posto «a una serie di conflitti interconnessi la cui logica e
il cui scopo erano molto più pericolosi». Rispetto alla Grande guerra,
che venne combattuta con l’obiettivo di «costringere il nemico ad
accettare determinate condizioni di pace (per quanto severe esse
fossero)», la violenza successiva al 1917-18 fu infinitamente più
«ingovernabile». Si trattava di «conflitti per la vita o la morte,
combattuti per annientare il nemico, etnico o di classe, secondo una
logica genocida che in seguito sarebbe diventata dominante in gran parte
dell’Europa fra il 1939 e il 1945».
La rabbia dei vinti fa notare poi che «un altro aspetto rilevante dei conflitti successivi al 1917-18
sta nella circostanza che essi esplosero dopo un secolo nel corso del
quale gli Stati europei erano in vario grado riusciti a imporre il loro
monopolio sulla violenza legittima: gli eserciti regolari erano
diventati la norma, e la distinzione fondamentale fra combattenti e non
combattenti era stata codificata (anche se poi spesso violata in
pratica)». I conflitti del dopoguerra, nota l’autore, invertirono questa
tendenza. Nei territori degli ex imperi europei, dove erano assenti
organizzazioni statali in grado di funzionare efficacemente, «il ruolo
degli eserciti nazionali venne assunto da milizie di vario orientamento
politico e la linea di demarcazione fra amici e nemici, fra combattenti e
civili, divenne terribilmente incerta». La rabbia dei vinti
propone l’ipotesi che «per comprendere i violenti percorsi che l’Europa
— Russia ed ex territori ottomani in Medio Oriente compresi — seguì
durante il XX secolo, è necessario prendere in considerazione non tanto
le esperienze belliche degli anni tra il 1914 e il 1917, quanto il modo
con cui la guerra si concluse per gli Stati che la persero: disfatta,
crollo degli imperi, agitazione rivoluzionaria».
A questo punto Gerwarth punta l’indice contro le ricerche storiche tradizionali:
«Nella letteratura internazionale manca un volume che analizzi in una
prospettiva d’insieme le esperienze di tutti gli Stati europei sconfitti
nella Grande guerra». Se ci fosse, ne verrebbe fuori un grande affresco
del «potere mobilitante della sconfitta». Da notare che negli Stati
europei che avevano vinto la guerra (con l’eccezione quasi irrilevante
in questo contesto dell’Italia e della parte irlandese del Regno Unito)
dopo il 1918 «non si registrò un sostanziale aumento della violenza
politica, anche perché la vittoria militare aveva giustificato i
sacrifici degli anni di guerra e legittimato ulteriormente le
istituzioni». Non si può dire lo stesso per i Paesi sconfitti: «Nessuno
di essi riuscì a ritornare a livelli di stabilità e di pace interna
paragonabili a quelli dell’anteguerra». Con l’aggravante che, causa la
disgregazione degli imperi di cui si è detto, milioni di persone furono
arbitrariamente affidati a Stati di nuova formazione o modificati
rispetto al loro assetto precedente alla guerra: tedeschi alla
Cecoslovacchia, all’Italia e alla Polonia, magiari alla Cecoslovacchia,
alla Jugoslavia e alla Romania, bulgari alla Romania e alla Grecia.
Cosicché Polonia, Cecoslovacchia e Jugoslavia, più che Stati nazionali,
si trovarono ad essere imperi in miniatura. Differenti dal precedente
grande Impero asburgico non già per la purezza etnica bensì, come s’è
detto, per dimensioni e, a sorpresa, per il «capovolgimento delle
gerarchie etniche interne». Ciò che avrebbe contribuito non poco ad
innescare la Seconda guerra mondiale.
Bibliografia
Esce in libreria il 5 ottobre il saggio di Robert Gerwarth La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923
(pagine 448, euro 28). Alle vicende che, dopo la caduta dell’Impero
ottomano, portarono alla nascita della Turchia repubblicana è dedicato
il libro di Charles King Mezzanotte a Istanbul (traduzione di Luigi Giacone, Einaudi, 2015). Da segnalare anche: Erik J. Zurcher, Storia della Turchia. Dalla fine dell’impero ottomano ai giorni nostri (traduzione di Stefania Micheli e Andrea Piccoli, Donzelli, 2007); Antonello Biagini, Storia della Turchia contemporanea (Bompiani, 2002). Utile inoltre la biografia Kemal Atatürk, scritta da Fabio L. Grassi (Salerno, 2008). Sul versante ellenico si sofferma il libro di Thanos Veremis e Ioannis Koliopulos La Grecia moderna. Una storia che inizia nel 1821 (traduzione di Massimo Cazzulo, Argo, 2014)
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