«Se qualcuno domanda perché siamo
morti, / ditegli perché i nostri padri hanno mentito» (R. Kipling)
Storia. Le lapidi della Grande guerra rivivono su Twitter
Riccardo Micheluccimercoledì 27 settembre 2017 (Avvenire)
Un progetto pubblica ogni giorno sul social network un
diverso epitaffio dei caduti dell'impero britannico. Riportando alla
luce sofferenze e polemiche
«Vittima della menzogna / che la guerra possa fermare la
guerra»; «Quante speranze sono sepolte qua / con il nostro unico
figlio»; «Riposa nel Signore e attendi pazientemente la Sua venuta
»; «I tuoi passi lontani risuonano nel corridoio del tempo». Centinaia di epitaffi per i caduti della Grande Guerra,
pubblicati uno al giorno per oltre quattro anni. Iscrizioni cariche di
sofferenza e amore, di disperazione e orgoglio, alcune con riferimenti
alla Bibbia e ai classici della letteratura, altre che raccontano un
particolare della vita di un soldato o di un’infermiera morta negli anni
del conflitto.
È Twitter a far rivivere la memoria dei caduti britannici della Prima guerra mondiale con l’ambizioso progetto Great War Inscriptionsideato
dalla storica inglese Sarah Wearne. Tre anni fa la studiosa ha
iniziato a pubblicare giornalmente le iscrizioni tratte dalle tombe dei
cimiteri di guerra sul profilo @WWInscriptions
con l’intenzione di proseguire fino all’11 novembre 2018, solcando
così il centenario dell’armistizio che pose fine alla brutale mattanza
d’inizio Novecento.
Ciascun tweet rimanda a una pagina del sito epitaphsofthegreatwar.com che indica il nome, l’età, la data di morte, il corpo di appartenenza e il cimitero dove si trova la lapide. Nella stessa pagina la storica spiega ogni singolo epitaffio citando gli eventuali riferimenti letterari
– alcuni tratti da Orazio, Shakespeare, Kipling e Tennyson – e
riporta, laddove possibile, anche una breve biografia del caduto.
La
fase di ricerca del progetto (che ha già superato ampiamente il
migliaio di tweet) è durata molti anni, durante i quali Wearne ha
studiato negli archivi e ha visitato i più remoti cimiteri di guerra europei
riuscendo a riportare in vita le iscrizioni scelte all’epoca dai
genitori o dalle mogli dei caduti. Frasi che non ricordano soltanto il sacrificio dei soldati ma anche l’eroismo delle infermiere che seguendo le orme di Florence Nightingale persero la vita nelle trincee, sui campi di battaglia o negli ospedali.
Le lapidi riportano epitaffi in più lingue che rispecchiano la patria d’origine del caduto, dal gallese al gaelico scozzese, dall’Afrikaans al Maori.
Alcuni sono stati raccolti in due libri dedicati ai momenti cruciali
del primo conflitto mondiale: la battaglia della Somme del 1916 e quella
di Ypres dell’anno successivo ( Epitaphs of the Great War: The Somme e Epitaphs of the Great War: Passchendaele).
Ma il cuore del progetto resta la rievocazione quotidiana delle
iscrizioni attraverso Twitter, dove il limite dei 140 caratteri appare
persino ampio, considerando che all’epoca ai familiari ne furono
concessi meno della metà – appena 66 – per ricordare i loro cari.
Cimitero di guerra britannico a Mons, in Belgio (WikiCommons)
Oggi
la geografia di quella memoria bellica lontana un secolo è parte del
nostro paesaggio e i cimiteri della Prima guerra mondiale, sparsi per
l’Europa, sono ammirati per la loro silenziosa e sobria dignità, ma all’epoca le regole imposte dal governo britannico innescarono non poche controversie. Nel 1915, al culmine del conflitto, Londra proibì infatti il rimpatrio delle salme dalle
zone di guerra ignorando le richieste delle famiglie, che non volevano
vedere le spoglie dei loro cari inumate in un remoto angolo di un paese
straniero. Molti si illusero che sarebbe stato sufficiente attendere
la fine delle ostilità per poter dare una degna sepoltura ai propri
cari ma il divieto sarebbe rimasto in vigore anche in seguito. A
nessuno, neanche a chi aveva i mezzi per farlo, fu consentito di
riportare a casa i resti dei propri cari, per evitare che nei cimiteri
di guerra restassero soltanto le tombe dei più poveri.
«Contrariamente a quanto si può pensare – ha spiegato Wearne – i cimiteri non intendevano riflettere l’uguaglianza dei morti di fronte a Dio, bensì di fronte all’Impero. Che arrivassero dall’Inghilterra, dal Canada o dall’Australia, i soldati dovevano essere tutti sepolti insieme». Un’apposita commissione governativa stabilì poi che le lapidi dovevano essere uniformate e
quindi le famiglie, quale che fosse il grado del soldato caduto, non
ebbero neanche la possibilità di sceglierne la forma o le dimensioni. Fu
la Chiesa cattolica a far notare che poiché non vi era stata quasi mai
la possibilità di amministrare gli ultimi riti, sarebbe stato
indispensabile dedicare una preghiera a ciascun morto per favorire
il passaggio dell’anima nell’aldilà. Ma in presenza di caduti
appartenenti a diverse confessioni religiose fu necessario trovare un
compromesso. La commissione concesse che su ciascuna lapide fosse apposta una breve iscrizione lunga non più di 66 caratteri, fissando
un costo di 3 pence e mezzo per ciascuna lettera. Una decisione che
scatenò non poche proteste, considerando che nel Dopoguerra non tutti
potevano permettersi una spesa del genere e furono costretti a
rinunciare a quello che di fatto era rimasto l’unico modo per ricordare
i propri cari. Ecco perché soltanto sul quaranta per cento di quelle
lapidi è stata apposta un’iscrizione. Per tutti gli altri, per i quali
l’assenza di un’epigrafe ha inevitabilmente favorito l’oblio, può
valere quanto scrisse Rudyard Kipling sotto forma di poesia, pensando a
suo figlio John, arruolatosi volontario e ucciso a pochi mesi
dall’inizio della Grande guerra: «Se qualcuno domanda perché siamo
morti, / ditegli perché i nostri padri hanno mentito».
Grande guerra: finite le ostilità, non terminarono stragi e sofferenze
In un saggio di Robert Gerwarth (Laterza), le terre straziate dalle lotte cruente che seguirono l’armistizio del 1918, tra cui Russia, Germania, Finlandia, Ungheria
La battaglia che si svolse nel 1921 presso il fiume Sakarya o Sangarios, una delle più importanti di quel duro conflitto
shadow
C’è
una considerevole parte d’Europa (e non solo) per la quale gli anni
successivi alla Prima guerra mondiale hanno contato molto di più — anche
in termini di sofferenze — di quelli tra il 1914 e il 1918. In primo
luogo la Russia, la cui storia nel Novecento inizia — per così dire —
con le due rivoluzioni del 1917. Ma anche l’Ucraina, la Polonia, la
Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Finlandia, la Serbia, l’Irlanda. E,
dall’altra parte del Mediterraneo, l’intero Medio Oriente. Lì il ricordo
della Grande guerra è quasi sfocato rispetto a quello ben più nitido
degli anni successivi al conflitto. Proprio perché per molti Paesi
europei la Prima guerra mondiale non finì affatto nel 1918 e anzi, per
alcuni, il periodo che seguì fu più sanguinoso del precedente. Se ne
accorse già nel maggio del 1919, un quotidiano austriaco ad ampia
diffusione, «Innsbrucker Nachrichten», che pubblicò un editoriale, dal
titolo La guerra in tempo di pace,
nel quale si constatava con un certo allarme che la violenza
postbellica aveva investito un arco territoriale che andava dalla
Finlandia e dagli Stati baltici, alla Russia, all’Ucraina, alla Polonia,
all’Ungheria, alla Germania e all’Austria stessa. Per estendersi,
attraversati i Balcani, all’Anatolia e al Caucaso. Forse per una
distrazione l’articolo non menzionava l’Irlanda, che pure durante la
guerra d’Indipendenza (1919-21) e il successivo conflitto civile
(1922-23) avrebbe conosciuto drammi assai simili a quelli che
allarmavano il giornale austriaco. Drammi che avrebbero trovato il loro
apogeo nelle due settimane del settembre 1922 in cui i turchi
rientrarono in possesso di Smirne, diedero ai loro uomini licenza di
saccheggiare nonché di uccidere e i morti, tra greci e armeni, furono
trentamila.
Pëtr
Struve (1870-1944) nel 1898 fu tra i fondatori del Partito socialista
democratico russo, la cui corrente bolscevica avrebbe preso le redini
della rivoluzione
Nel 1919, su impulso del primo ministro britannico David Lloyd George,
un esercito di invasione greco era sbarcato a Smirne. Adesso, dopo tre
anni di feroci scontri armati, i soldati di Mustafa Kemal
riconquistavano la città e per prima cosa catturavano l’arcivescovo
ortodosso Chrysostomos, reo ai loro occhi di aver, a suo tempo,
sostenuto l’invasione greca. Il metropolita fu consegnato ad una folla
inferocita che lo rinchiuse nel negozio di un barbiere ebreo. E fu il
proprietario della bottega a descrivere ciò che accadde in seguito:
«Qualcuno afferrò un telo bianco, lo mise attorno al collo dell’uomo e
urlò: “Dagli una rasata!”. Al prelato strapparono poi la barba, gli
cavarono gli occhi con dei coltelli, gli amputarono le orecchie, il naso
e le mani. Il corpo martoriato venne quindi trascinato in un vicolo,
scaraventato in un angolo dove avrebbe conosciuto la morte dopo ore e
ore di inumane sofferenze». Fu anche questa l’Europa del primo
dopoguerra. Un continente descritto adesso con grande efficacia da
Robert Gerwarth nel libro La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923 che, nell’eccellente traduzione di David Scaffei, Laterza manderà a giorni in libreria.
Mustafa Kemal, poi detto Atatürk (1881-1938), guidò le forze turche nella guerra vittoriosa contro i greci
Per coloro che nel 1919 vivevano a Riga, Kiev, Smirne o in molte altre località dell’Europa orientale,
centrale e sud-orientale, scrive Gerwarth, non ci fu pace in quegli
anni, «ma solo una continua scia di violenze». La guerra mondiale, notò
già allora il filosofo russo Pëtr Struve — che aveva militato dapprima
con i socialisti e successivamente dalla parte dei «russi bianchi» —
«terminò formalmente con la firma dell’armistizio, ma di fatto tutto ciò
che da quel momento in poi abbiamo vissuto e continuiamo a vivere, non è
che una continuazione e una trasformazione della guerra mondiale». Solo
fra il 1917 e il 1920, nota lo storico, in Europa si ebbero ben 27
mutamenti politici violenti, molti dei quali accompagnati da guerre
civili latenti o conclamate. Il caso più estremo fu quello della Russia
dove «l’ostilità fra i sostenitori del colpo di Stato attuato dai
bolscevichi di Lenin nel 1917 e i loro oppositori degenerò rapidamente
in una guerra civile di proporzioni senza precedenti, che alla fine
avrebbe provocato ben più di tre milioni di vittime». Tre milioni di
vittime.
I Paesi europei sconfitti nella Grande guerra, scrive lo studioso,
«spesso sono stati descritti o attraverso il prisma della propaganda o
assumendo il punto di vista del 1918, quando la legittimazione dei nuovi
Stati nazionali dell’Europa centro-orientale esigeva la demonizzazione
degli imperi dai quali si erano distaccati». Un genere di lettura che
indusse alcuni storici occidentali ad «interpretare la Prima guerra
mondiale nei termini di un’epica lotta tra gli Alleati democratici da
una parte e gli Imperi centrali autocratici dall’altra (tralasciando il
fatto che l’impero più autocratico in assoluto, la Russia di Nicola II,
aveva fatto parte della Triplice Intesa)». In anni più recenti però,
riconosce l’autore, un numero crescente di ricerche sugli ex imperi
ottomano, tedesco e austriaco ha messo in discussione la leggenda nera
secondo la quale gli Imperi centrali «erano più o meno degli Stati
canaglia e delle anacronistiche prigioni dei popoli». La
«riabilitazione» è stata relativamente agevole per la Germania e
l’Impero asburgico, che oggi appaiono agli storici «in una luce molto
più benevola (o quantomeno più sfumata)» di quanto non fosse stato fino
alla fine del Novecento. Ma anche riguardo all’Impero ottomano, dove il
genocidio degli armeni avvenuto durante la guerra sembrava confermare la
«natura malvagia» di quell’impero stesso che avrebbe usato «la violenza
per sopprimere le minoranze», bene, rispetto a questa lettura sta
adesso gradualmente venendo alla luce un quadro che viene presentato
come assai più complesso.
E anche se si considerano eccessive queste «riabilitazioni» degli imperi prebellici, aggiunge Gerwarth,
«sarebbe difficile sostenere che l’Europa postimperiale fosse un luogo
migliore e più sicuro rispetto a quella del 1914». Era dai tempi della
guerra dei Trent’anni (1618-1648) che nel nostro continente non si
assisteva a un intreccio di conflitti, «ma soprattutto di guerre civili
dai confini così indefiniti e dal carattere così cruento come quelle
degli anni successivi al 1917-18». Con scontri armati che si
sovrapponevano alle rivoluzioni, alle controrivoluzioni, e alle ostilità
di confine fra Stati in formazione, privi di frontiere chiaramente
definite e di governi riconosciuti dalla comunità internazionale, con
tutte queste esplosioni di odio «l’Europa postbellica degli anni che
vanno dalla conclusione ufficiale della Grande guerra nel 1918 al
trattato di Losanna del luglio 1923, fu il luogo più violento del
pianeta». Anche a non voler calcolare i milioni di decessi provocati fra
il 1918 e il 1920 dalla pandemia di influenza spagnola o le centinaia
di migliaia di civili che da Beirut a Berlino perirono di fame in
conseguenza della decisione alleata di mantenere il blocco economico
anche dopo la fine delle ostilità, scrive Gerwarth, le vittime dei
conflitti armati dell’Europa in quei cinque anni furono «più delle
perdite subite complessivamente dalla Gran Bretagna, dalla Francia e
dagli Stati Uniti nel corso della Grande guerra». Milioni e milioni di
morti. Ai quali vanno aggiunti altri milioni di profughi impoveriti
provenienti dall’Europa centrale, orientale e meridionale, che vagarono
negli scenari stravolti dalla guerra dell’Europa occidentale, alla
ricerca di sicurezza e di una vita migliore. Talché secondo l’autore de La rabbia dei vinti
non si può dar torto a quegli storici dell’Europa orientale (tipo Peter
Holquist) che hanno definito la stagione successiva al 1918 come
un’epoca di «prolungata guerra civile europea».
Se questo tema per decenni ha scarsamente attirato l’attenzione degli storici,
la colpa è probabilmente della cultura anglosassone. Winston Churchill,
ad esempio, liquidò i conflitti postbellici di cui stiamo parlando
definendoli «guerre di pigmei». Secondo Gerwarth parole così sprezzanti
riflettono «quell’atteggiamento intriso di pregiudizi antiorientali (e
d’impronta implicitamente coloniale) nei confronti dell’Europa dell’Est
che, dopo il 1918, prevalse per decenni nei libri di testo occidentali».
Un derivato dell’idea sviluppatasi tra la crisi balcanica (1875-78) e
le due guerre balcaniche (1912-13) che i Balcani, appunto, e con essi
l’intera Europa orientale «fossero in un certo senso intrinsecamente
violenti, al contrario dell’Occidente civilizzato e pacifico». Di un
Occidente quantomeno caratterizzato, secondo questa visione culturale,
da una radicata vocazione alla pace.
Si può dire che la stagione di cui stiamo parlando iniziò con la rivoluzione d’Ottobre.
La Grande guerra cambiò natura quando la rivoluzione bolscevica
determinò l’uscita della Russia dal conflitto e gli Alleati, rafforzati
dalla discesa in campo degli Stati Uniti al loro fianco, «perseguirono
sempre di più lo smantellamento degli imperi europei come un obiettivo
della guerra». Anzi: come se fosse stato fin da principio il reale
obiettivo della guerra stessa. Gli eventi russi ebbero un «duplice
effetto»: l’ammissione della sconfitta da parte di Pietrogrado aumentò
le aspettative di vittoria imminente da parte degli Imperi centrali
(«solo qualche mese prima che la loro definitiva sconfitta li portasse a
cercare quei nemici “interni” a cui attribuivano la causa del crollo»),
infondendo allo stesso tempo «nuove possenti energie in un continente
lacerato dalla guerra e, dopo quattro anni di combattimenti, maturo per
la rivoluzione».
Fu proprio in questo periodo, secondo Gerwarth, «che un conflitto fra Stati particolarmente cruento
ma in definitiva convenzionale come era stata la Prima guerra mondiale»
lasciò il posto «a una serie di conflitti interconnessi la cui logica e
il cui scopo erano molto più pericolosi». Rispetto alla Grande guerra,
che venne combattuta con l’obiettivo di «costringere il nemico ad
accettare determinate condizioni di pace (per quanto severe esse
fossero)», la violenza successiva al 1917-18 fu infinitamente più
«ingovernabile». Si trattava di «conflitti per la vita o la morte,
combattuti per annientare il nemico, etnico o di classe, secondo una
logica genocida che in seguito sarebbe diventata dominante in gran parte
dell’Europa fra il 1939 e il 1945».
La rabbia dei vinti fa notare poi che «un altro aspetto rilevante dei conflitti successivi al 1917-18
sta nella circostanza che essi esplosero dopo un secolo nel corso del
quale gli Stati europei erano in vario grado riusciti a imporre il loro
monopolio sulla violenza legittima: gli eserciti regolari erano
diventati la norma, e la distinzione fondamentale fra combattenti e non
combattenti era stata codificata (anche se poi spesso violata in
pratica)». I conflitti del dopoguerra, nota l’autore, invertirono questa
tendenza. Nei territori degli ex imperi europei, dove erano assenti
organizzazioni statali in grado di funzionare efficacemente, «il ruolo
degli eserciti nazionali venne assunto da milizie di vario orientamento
politico e la linea di demarcazione fra amici e nemici, fra combattenti e
civili, divenne terribilmente incerta». La rabbia dei vinti
propone l’ipotesi che «per comprendere i violenti percorsi che l’Europa
— Russia ed ex territori ottomani in Medio Oriente compresi — seguì
durante il XX secolo, è necessario prendere in considerazione non tanto
le esperienze belliche degli anni tra il 1914 e il 1917, quanto il modo
con cui la guerra si concluse per gli Stati che la persero: disfatta,
crollo degli imperi, agitazione rivoluzionaria».
A questo punto Gerwarth punta l’indice contro le ricerche storiche tradizionali:
«Nella letteratura internazionale manca un volume che analizzi in una
prospettiva d’insieme le esperienze di tutti gli Stati europei sconfitti
nella Grande guerra». Se ci fosse, ne verrebbe fuori un grande affresco
del «potere mobilitante della sconfitta». Da notare che negli Stati
europei che avevano vinto la guerra (con l’eccezione quasi irrilevante
in questo contesto dell’Italia e della parte irlandese del Regno Unito)
dopo il 1918 «non si registrò un sostanziale aumento della violenza
politica, anche perché la vittoria militare aveva giustificato i
sacrifici degli anni di guerra e legittimato ulteriormente le
istituzioni». Non si può dire lo stesso per i Paesi sconfitti: «Nessuno
di essi riuscì a ritornare a livelli di stabilità e di pace interna
paragonabili a quelli dell’anteguerra». Con l’aggravante che, causa la
disgregazione degli imperi di cui si è detto, milioni di persone furono
arbitrariamente affidati a Stati di nuova formazione o modificati
rispetto al loro assetto precedente alla guerra: tedeschi alla
Cecoslovacchia, all’Italia e alla Polonia, magiari alla Cecoslovacchia,
alla Jugoslavia e alla Romania, bulgari alla Romania e alla Grecia.
Cosicché Polonia, Cecoslovacchia e Jugoslavia, più che Stati nazionali,
si trovarono ad essere imperi in miniatura. Differenti dal precedente
grande Impero asburgico non già per la purezza etnica bensì, come s’è
detto, per dimensioni e, a sorpresa, per il «capovolgimento delle
gerarchie etniche interne». Ciò che avrebbe contribuito non poco ad
innescare la Seconda guerra mondiale.
Bibliografia
Esce in libreria il 5 ottobre il saggio di Robert Gerwarth La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923
(pagine 448, euro 28). Alle vicende che, dopo la caduta dell’Impero
ottomano, portarono alla nascita della Turchia repubblicana è dedicato
il libro di Charles King Mezzanotte a Istanbul (traduzione di Luigi Giacone, Einaudi, 2015). Da segnalare anche: Erik J. Zurcher, Storia della Turchia. Dalla fine dell’impero ottomano ai giorni nostri (traduzione di Stefania Micheli e Andrea Piccoli, Donzelli, 2007); Antonello Biagini, Storia della Turchia contemporanea (Bompiani, 2002). Utile inoltre la biografia Kemal Atatürk, scritta da Fabio L. Grassi (Salerno, 2008). Sul versante ellenico si sofferma il libro di Thanos Veremis e Ioannis Koliopulos La Grecia moderna. Una storia che inizia nel 1821 (traduzione di Massimo Cazzulo, Argo, 2014)
Attività
realizzata nella classe 3 A, (settembre 2017)
Parte
prima: tre poesie su settembre
Gabriele
D’Annunzio, I PASTORI
Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natìa
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora lungh’esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l’aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquìo, calpestìo, dolci romori.
Il bene che
ci siamo voluti noi due
è un taxi e si ferma qui
io stavo bene nelle tue mani
non avrei chiesto mai niente di più
ma in questo giorno che comincia a Settembre
ti abbraccio e mi manchi.
Arrivederci allora ragazza più forte di me
tenera è la notte ma la vita è anche meglio
di questo momento che te ne vai
tu non parlare che si calma il dolore
dopo è solo tempo.
Questa è la pioggia che deve cadere
sulle piccole scene di addio
siamo solo noi fra milioni e milioni
benvenuto anche il tuo nome
fra le future nostalgie.
Se questo può farti felice
più confuso di così non sarò
tutto andrà bene ci possiamo fidare
chiamami ogni tanto se vuoi.
Da questo giorno che comincia a Settembre
chiamami quando vuoi.
Quante gocce
di rugiada intorno a me
Cerco il sole ma non c'è
Dorme ancora la campagna, forse no
è sveglia, mi guarda, non so
Già l'odore della terra odor di grano
Sale adagio verso me
E la vita nel mio petto batte piano
Respiro la nebbia, penso a te
Quanto verde tutto intorno e ancor piú in là
Sembra quasi un mare l'erba
E leggero il mio pensiero vola e va
Ho quasi paura che si perda
Un cavallo tende il collo verso il prato
Resta fermo come me
Faccio un passo, lui mi vede, è già fuggito
Respiro la nebbia, penso a te
No, cosa sono adesso non lo so
Sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso
No, cosa sono adesso non lo so
Sono solo, solo il suono del mio passo
Ma intanto il sole tra la nebbia filtra già
Il giorno come sempre sarà
Parte terza: un esempio di commento
(da: doc.studenti.it/appunti/italiano/pastori-annunzio.html) I PASTORI, DI G. D’ANNUNZIO I pastori è stata scritta da D’Annunzio ed
appartiene al genere lirico, attraverso il quale il poeta esprime la nostalgia
che prova nei confronti della sua terra natale. Nel complesso la lirica è
composta da 4 strofe e un verso sciolto dai 5 versi endecasillabi.
Nella prima strofa il poeta si immedesima in uno dei tanti pastori che con
l’arrivo di settembre scendono dai monti per trovare pascoli sulla costa
adriatica: il fenomeno della transumanza.
La similitudine ai versi 4-5 paragona il colore verde dei
pascoli della montagna al colore che assume il mare nella stagione autunnale.
L’autore utilizza l’espressione “i miei pastori” o “andiamo”
per evidenziare la consapevolezza di far parte di tale categoria, lasciando
trapelare anche un senso di nostalgia provocato dall’abbandono di tali
abitudini, e un gran coinvolgimento. Nella seconda strofa c’è continuità tra
acqua e terra: i pastori trovano coraggio dall’acqua che sgorga direttamente
dai monti e che si trasforma in sangue.
Nell’ultima strofa il poeta riesce a descrivere nei particolari la natura che
circonda questi uomini; tutto è in continuo mutamento nonostante le azioni e i
gesti dei pastorisiano ormai quasi abitudinari, solo
l’aria cambia. Al verso 18 è un’altra metafora che paragona il sole che si accende di un giallo,
simile a quello della lana delle pecore che quasi non si distinguono dalla
sabbia delle coste adriatiche.
In questo silenzio naturale si percepiscono solo i passi sulla terra e nel mare
“i sciacquio e calpestio”, suoni onomatopeici che vogliono permettere al
lettore di ascoltarli e renderlo partecipe facendolo immedesimare nella scena.
Con l’espressione “dolci romori” e “ah, perché non son io co’ miei pastori”
vengono esaltati ancora una volta la nostalgia e il rimpianto del poeta per le abitudini degli
abruzzesi, uniti ad un desiderio di mutar vita. Il ritmo è aulico e lento, dovuto ai versi
composti di 11 sillabe, ai frequenti segni d’interpunzione e all’uso di
innumerevoli enjambement (ai versi 2,4,6,7,14,16,18) che esprimono a livello
metrico le inquietudini del poeta.
Parte quarta: espansione del lessico
(vocabolario ed espressioni ricercate)
attònito agg. [dal lat. attonĭtus,
der. di tonare «tuonare», propr. «stordito dal fragore del tuono»]. –
Sbalordito, senza parole, per qualche forte impressione che colpisca l’animo: essere
a. per lo stupore, per lo spavento; con occhi a.,
col volto a.; percossa, attonita La terra al nunzio sta
(Manzoni); rimase a. per qualche secondo, poi si scosse come un
cane uscito dall’acqua (Primo Levi). Nella critica delle arti figurative,
anche di cosa: paesaggio a., atmosfera a., immobile come per
stupore.
(da:
http://www.treccani.it/vocabolario)
malinconìa (o melanconìa;
ant. maninconìa, melancolìa) s. f. [lat.
tardo melancholĭa, gr. μελαγχολία,
comp. di μέλας «nero» e χολή «bile», propr. «bile nera»; cfr. atrabile].
– 1.a. ant. Nella medicina ippocratica, uno
dei quattro umori (umor nero) che costituiscono la natura del corpo
umano e ne determinano l’equilibrio organico (dottrina accolta da tutta la
medicina antica e trasmessa fino al Rinascimento): quando quello omore che
si chiama melanconia sovrastà agli altri, il quale è freddo e secco
come la terra, allora si sognano cose paurose e triste
(Passavanti). b. Stato d’animo tetro, depresso e accidioso e
insieme meditativo e contemplativo, occasionale o abituale, che era attribuito
al prevalere di quell’umore rispetto agli altri nella struttura organica
dell’individuo (anche dopo abbandonata la teoria fisiologica dei quattro umori
il termine ha conservato il suo sign. originario): lasciarsi prendere dalla
m.; cupa, nera m.; anche, intimo e profondo dispiacere
per desiderio inappagato: o per m. che il falcone aver non potea o
per la ’nfermità ... di questa vita passò (Boccaccio). c.
In epoca più recente, spec. per influsso romantico, mestizia vaga e rassegnata,
dolore raccolto e intimo: dolce, soave m.; M.,
ninfa gentile (Pindemonte); La mia Vita si gonfia di m. (Penna); la
contenuta m. della poesia leopardiana. d. Noia,
fastidio, uggia: che m. questa pioggia!; era proprio una
m. starlo a sentire. 2. Pensiero, avvenimento,
ricordo che rende tristi, depressi e sim.: via queste malinconie!; talvolta
mi passano per il capo certe malinconie ... 3. Nel
linguaggio medico, è forma meno com. di melancolia o melanconia,
come malattia psichica.
(da:
http://www.treccani.it/vocabolario)
nostalgìa s. f. [comp. del
gr. νόστος «ritorno» e -algia (v. algia)]. – Desiderio acuto di tornare a vivere in un luogo che
è stato di soggiorno abituale e che ora è lontano: soffrire di n.;
in quei ballabili remoti, scritti su vecchi rigidi dischi,
s’annida il grumo indistinto della n. e della gelosia: di quanto si vorrebbe
richiamare in vita e non si può, e di quanto invano si vorrebbe non
fosse stato (Salvatore Mannuzzu); avere, sentire, provare
la n. (una grande, profonda, intensa, acuta,
struggente n.) del proprio paese, della patria, della
casa, della famiglia. Quando assume forma patologica si chiama nostomania
(v.). Per estens., stato d’animo melanconico, causato dal desiderio di persona
lontana (o non più in vita) o di cosa non più posseduta, dal rimpianto di
condizioni ormai passate, dall’aspirazione a uno stato diverso dall’attuale che
si configura comunque lontano: n. degli amici, dell’affetto
materno; n. della giovinezza lontana; n. dei
tempi passati.
sarchiatura s. f. [der. di sarchiare].
– In agraria, l’operazione del sarchiare, consistente nel lavorare
superficialmente la terra per 3-4 cm di profondità, con il sarchio, le zappe o
le sarchiatrici, in modo da sminuzzare il terreno e attivare così la
respirazione delle radici, attenuare l’evaporazione per capillarità e
distruggere le malerbe; è utile soprattutto nei climi aridi e nei terreni più o
meno sabbiosi, sia nelle colture erbacee sia in quelle legnose come vite,
olivo, alberi da frutto.
smòrto agg. [part. pass.
di smorire]. – 1. Che ha perduto il normale colorito
del viso, acquistando per malattia, malessere, meraviglia o paura un pallore di
morte: farsi, diventare smorto; avere il viso s. o essere
s. in viso; Tutto di pièta e di paura smorto (Petrarca); per
estens., riferito agli occhi, privo di vitalità o di vita, spento: avere
l’occhio smorto. 2.a. estens. Di colori
e di cose, che non hanno o non hanno più luminosità, vivacità e definitezza di
tono: una tinta troppo s.; un rosso s.; questa stoffa,
per un vestito primaverile, è un po’ troppo s.; un gran
silenzio per la pianura s. e sassosa (Verga); la luna s. cala sul
cielo velato (Deledda); un sole s., debole, che illumina e
riscalda poco; ant., di metalli, non lucido, lavorato a superficie opaca: oro,
argento smorto. b. fig. Privo di espressività, di
vivacità; scolorito, scialbo: figure s., in un quadro o in un’opera
letteraria; i paesaggi di quel pittore sono sempre un po’ s.; uno
stile smorto. ◆ Dim. smortìccio,
sempre con valore spreg. o riferito a cose sgradevoli: colore smorticcio.
(da:
http://www.treccani.it/vocabolario)
stazzo s. m. [lat. statio
«lo stare, dimora»]. – 1. Nella consuetudine della
transumanza, lo spazio all’aperto dove si riunisce il bestiame durante la
notte, costituito, per i bovini, da un recinto ovoidale o quadrangolare
delimitato da un muricciolo di pietre a secco, per gli ovini da un recinto
formato da reti di corde, diviso a volte in diversi scompartimenti secondo le
categorie di animali: Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori Lascian gli s.
e vanno verso il mare (D’Annunzio). 2. ant. Luogo di
sosta o di dimora, in genere.
(da:
http://www.treccani.it/vocabolario)
transumanza s. f. [dal fr. transhumance,
der. di transhumer «transumare»]. – Complesso delle migrazioni
stagionali su largo raggio territoriale, e con accentuato dislivello verticale,
con cui animali di grossa o media taglia si spostano dalle regioni di pianura
alle regioni di montagna e viceversa, spontaneamente o condottivi dall’uomo,
percorrendo particolari vie naturali (tratturi) nelle regioni a
economia poco sviluppata, trasportate su strade ordinarie con appositi
autocarri nelle regioni più sviluppate.
(da:
http://www.treccani.it/vocabolario)
Tremolar della marina
Il verso ‘conosce il tremolar della marina’ di
D’Annunzio è già in Dante, Purgatorio,
I, 117:
L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina
Parte quinta: attività assegnate
-ascoltare
testi poetici e canzoni per coglierne il significato, i temi, l’intenzione
comunicativa
-leggere
testi poetici
-riconoscere
figure poetiche
-imparare a
memoria poesie
-saper
parafrasare testi poetici e canzoni
-saper
commentare oralmente
-scrivere una
parafrasi, un commento
-confrontare
testi diversi
-produrre
testi poetici simili
-cercare
informazioni biografiche sugli autori
-stendere una
relazione sul lavoro svolto
(foto: Pecore in transumanza a Limena, Limena,
da via Ceresara, dicembre 2016)
(foto: Pecore in transumanza a Limena, Limena,
da via Sabbadin, dicembre 2016)