Jorge Luis Borges:
un’intervista
Lucrecia
Beatriz Porto Bucciarelli
Intervista a cura di Lucrecia Beatriz Porto Bucciarelli
Nel mio ricordo rivedo Borges sempre dietro la
cattedra come professore di Letteratura inglese alla Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università di Buenos Aires. Docente strano e distratto durante
gli esami che si superavano con molta facilità, alcuni studenti lo chiamavano
“l’unicorno” per questo motivo e in confronto ai suoi severissimi colleghi.
Erano i suoi ultimi anni di insegnamento.
Dopo molto tempo, al telefono, riascoltavo quella voce inconfondibile, un po’ monotona forse. Ora mi presento a lui evocando quel lontano periodo. Concordiamo l’incontro a casa sua, si affretta ad avvertirmi che l’ascensore non funziona.
Arrivo con un certo anticipo alla calle Maipu e salgo le scale piuttosto buie fino ad arrivare di fronte ad una porta con la targhetta di bronzo con il cognome Borges; saprò poi che è la targhetta che avevano nell’appartamento ginevrino. Mi riceve la classica domestica delle famiglie borghesi argentine circospetta e distante, chiede il mio nome e mi indica una poltrona dove poter attendere; ovattati arrivano i rumori della strada. L’attesa mi permette di osservare l’ambiente che mi circonda. L’ampio spazio rettangolare dopo il piccolo ingresso è adibito a camera da pranzo e a salotto. Ci sono molti mobili inglesi ottocenteschi in mogano, un tavolo dove, mi dirà, lavora e dove mangia da solo, una biblioteca ad angolo che dalle scaffalature aperte mostra le sue abituali letture, una credenza con delle argenterie e sopra un quadro della sorella Norah e varie fotografie di famiglia, per la maggior parte ingiallite dal tempo. Accanto alle finestre un divano e due poltrone, un piccolo armadio col piano di marmo e uno scrittoio che fu della madre, formano l’arredo del salotto.
Fa caldo; guidato dalla domestica arriva Borges, un poco dimesso nel vestire, appoggiato ad un bastone nero e robusto. Si accomoda sul divano lentamente. Il fisico non è stato risparmiato dall’età, ma il volto riesce ancora ad esprimere sorpresa; ha un sorriso candido, gli occhi celesti ormai quasi spenti si muovono appena, la voce è più fioca, ma si rianima nel corso dell’intervista.
Dopo molto tempo, al telefono, riascoltavo quella voce inconfondibile, un po’ monotona forse. Ora mi presento a lui evocando quel lontano periodo. Concordiamo l’incontro a casa sua, si affretta ad avvertirmi che l’ascensore non funziona.
Arrivo con un certo anticipo alla calle Maipu e salgo le scale piuttosto buie fino ad arrivare di fronte ad una porta con la targhetta di bronzo con il cognome Borges; saprò poi che è la targhetta che avevano nell’appartamento ginevrino. Mi riceve la classica domestica delle famiglie borghesi argentine circospetta e distante, chiede il mio nome e mi indica una poltrona dove poter attendere; ovattati arrivano i rumori della strada. L’attesa mi permette di osservare l’ambiente che mi circonda. L’ampio spazio rettangolare dopo il piccolo ingresso è adibito a camera da pranzo e a salotto. Ci sono molti mobili inglesi ottocenteschi in mogano, un tavolo dove, mi dirà, lavora e dove mangia da solo, una biblioteca ad angolo che dalle scaffalature aperte mostra le sue abituali letture, una credenza con delle argenterie e sopra un quadro della sorella Norah e varie fotografie di famiglia, per la maggior parte ingiallite dal tempo. Accanto alle finestre un divano e due poltrone, un piccolo armadio col piano di marmo e uno scrittoio che fu della madre, formano l’arredo del salotto.
Fa caldo; guidato dalla domestica arriva Borges, un poco dimesso nel vestire, appoggiato ad un bastone nero e robusto. Si accomoda sul divano lentamente. Il fisico non è stato risparmiato dall’età, ma il volto riesce ancora ad esprimere sorpresa; ha un sorriso candido, gli occhi celesti ormai quasi spenti si muovono appena, la voce è più fioca, ma si rianima nel corso dell’intervista.
Jorge L. Borges Un dialogo? Mi ricordo delle parole che
disse George Bernard Shaw – avrei dato qualunque cosa per alcune ore di
dialogo con Oscar Wilde e che in quel dialogo, contrariamente alla sua
abitudine, avrebbe parlato poco e avrebbe ascoltato molto.
Porto Bucciarelli Le sarebbe piaciuto un dialogo con Dante?
B. Forse sì, sarebbe stato piacevole un dialogo con Dante ma forse con
Ariosto sarebbe stato ancora più piacevole.
Il nome di Ariosto non sorprende in bocca a Borges che
ammira la capacità del ferrarese di evadere dal suo mondo quotidiano per mezzo
dei sogni poetici; anche Borges, immerso nella lettura dell’Orlando Furioso,
sfuggirà dalla vita monotona del bibliotecario. La lettura dell’Ariosto è stata
per lui la strada aperta verso il fantastico e il sogno, un’avventura non più
abbandonata.
P.B. Lei si è avvicinato tardi a Dante,
perché?
B. Io pensavo, come tanta gente, che la lingua italiana fosse una barriera;
se uno non la conosce non può leggere Dante. Cominciai così con una piccola
edizione bilingue. Leggevo una pagina in italiano e una pagina in inglese, leggevo
molto attentamente in inglese e dopo leggevo lentamente in italiano e
confrontavo ogni linea del testo con il testo inglese: più o meno quando
eravamo arrivati alla cima del Purgatorio mi sono reso conto che già potevo
fare a meno del testo inglese e leggere direttamente in italiano. Ho avuto
anche una esperienza che ha ritardato l’incontro con l’italiano. Siamo andati
con Bioy Casares e Silvina Ocampo a vedere un’opera di teatro di Pirandello;
dopo il primo atto ci siamo guardati in faccia e ce ne siamo andati perché non
si capiva niente; il giorno dopo cercai l’opera che avevo in casa e la lessi,
mi resi conto che se non capivo una parola, potevo capire una frase e perfino
una pagina, è un errore tradurre l’italiano. Pochi anni fa è stata fatta una
nuova traduzione della Divina Commedia, ma è una brutta versione. Un
mio amico mi diceva che ha scoperto più di cento versi con la metrica errata
nel primo canto dell’Inferno. Io non capisco come una persona che non ha buon
orecchio si metta a tradurre Dante.
P.B. Allora la traduzione di un poeta deve essere fatta da un altro poeta?
B. Non c’è bisogno. Deve essere fatta perlomeno da una persona che abbia
orecchio musicale. La prima traduzione di Mitre era orribile, ma già è molto
che un generale abbia tradotto la Divina Commedia, che è difficilissima.
Parlando di generali, sa quanti generali ci sono in servizio attivo in
Argentina? ottantadue, io non so se nella Seconda Guerra Mondiale ce ne fossero
tanti.
P.B. Questo è uno dei problemi del nostro
paese?
B. Sì, però adesso credo che abbiamo diritto, per lo meno, alla fiducia, no?
Ed è già molto. Ero a Madison in Wisconsin. Era il halloween, “il
giorno delle streghe”, che lì è come un carnevale e la gente si maschera da
scheletri, animali, esseri extraterrestri, vampiri, e poiché avevo ricevuto un
premio all’Università, e tutti, studenti e professori, si erano mascherati,
pensai che se non mi fossi mascherato avrei fatto la figura del guastafeste,
anche se debbo dire che ho paura delle maschere e del carnevale. Comperai
così per due dollari una grande testa di lupo, molto irsuta, di gomma
maleodorante, me la infilai come un cappuccio ed entrai nella sala che era
piena di teschi, di animali reali e fantastici, gridando e urlando “homo
homini lupus”. Qualcuno mi prese per il braccio e disse, “ha vinto
Alfonsin”. Questo fu un lunedì e Alfonsin aveva vinto la domenica. Pensai che
se si era verificato il curioso miracolo che mi aveva visto travestirmi da
lupo perché non doveva verificarsi un altro miracolo ben più grande a favore
della mia patria. Due cose meravigliose, una senza nessuna importanza come la
mia testa di lupo, l’altra, che può essere una data importante della storia
argentina; quest’ultima significava il trionfo del buon senso, della saggezza,
della volontà, della morale dopo un governo irresponsabile.
Un tempo il peso argentino era una moneta forte, nel 1897 mio padre comperò una casa, era molto lontana, in un borgo spopolato, Palermo, in periferia, dove c’erano poche case. Mio padre, racconta mia sorella, comperò una casa con ingresso, sala da pranzo, salotto, biblioteca, varie camere da letto e stanze di servizio, due patios (cortile interno), una parra (pergolato), un giardino, un mulino, una palma, molti rosai, il tutto per 13.000 pesos, pagati in tredici mensilità. Oggi con 13.000 pesos antichi o attuali non si fa niente. Quello che prima era una piccola fortuna, oggi si spende in tre o quattro giorni.
Un tempo il peso argentino era una moneta forte, nel 1897 mio padre comperò una casa, era molto lontana, in un borgo spopolato, Palermo, in periferia, dove c’erano poche case. Mio padre, racconta mia sorella, comperò una casa con ingresso, sala da pranzo, salotto, biblioteca, varie camere da letto e stanze di servizio, due patios (cortile interno), una parra (pergolato), un giardino, un mulino, una palma, molti rosai, il tutto per 13.000 pesos, pagati in tredici mensilità. Oggi con 13.000 pesos antichi o attuali non si fa niente. Quello che prima era una piccola fortuna, oggi si spende in tre o quattro giorni.
P.B. Come vede l’immediato futuro della narrativa argentina?
B. La letteratura non ha niente a che vedere con le situazioni di crisi. La
poesia è qualcosa di eterno, la politica è qualcosa in continuo cambiamento.
P.B. Ha rapporti con i giovani scrittori?
B. Bene, io sono nato nel 1899 e c’è molta gente giovane che non perdona la
mia vecchiaia.
P.B. Ma lei ha una vecchiaia attiva. direi quasi
meravigliosa…
B. Nessuna vecchiaia è meravigliosa, la longevità è la più lunga delle
malattie. Mia madre morì a 99 anni con il terrore di arrivare a 100. Io le
dicevo che il sistema metrico decimale è una convenzione, in un altro sistema
non avrebbe compiuto 100 anni ma 6, ad ogni modo le restava la paura. Lei
credeva io no, e tutte le notti chiedeva a Dio che se la portasse mentre
dormiva e di mattina. quando si svegliava piangeva perché durante la notte non
era morta, fino a quando una mattina non si svegliò. Era arrivata a 99 anni.
P.B. In Europa si parla molto della letteratura latinoamericana.
Lei che ne pensa?
B. Io credo che se ne parli troppo, e non so se valga la pena di parlare in
genere di letteratura latinoamericana perché credo che siamo ancora poveri sul
piano letterario. Invece gli Stati Uniti hanno dato molto, hanno dato un Poe,
un Emerson, un Melville, tutti del New England che è uno stato relativamente
piccolo ma che ha dato tanti uomini di genio, Henry James, William James,
mentre altri stati non hanno dato quasi niente. Io sono cittadino onorario del
Texas e non ricordo nemmeno uno scrittore texano, credo che non ce ne sia
alcuno.
Forse, delle letterature latinoamericane quella argentina è la più ricca, soprattutto nel secolo scorso, Almafuerte, Lugones, pure altri meno conosciuti come Banchs, Ezequiel Martinez Estrada. Il fatto è che questa città è una città cosmopolita, ha questa fortuna. Invece se lei percorre il Sudamerica, ci sono paesi molto queribles come Il Perù, la Colombia, ma sono paesi molto provinciali. Buenos Aires invece è una città aperta all’Europa; altri paesi sono più spagnoli o indigeni, invece qui ci sono state molte emigrazioni, pure una forte emigrazione ebraica; la metà della popolazione di Buenos Aires è d’origine italiana; io, che come dicevo non ho sangue italiano, da poco ho saputo che sono discendente di un capitano mercenario italiano, che si chiamava Gibeo o Cibeo o Chibeo, che militò sotto il comando di Mendoza nella seconda fondazione di Buenos Aires. Quindi una lontana goccia di sangue italiano dovrei avercela pure io oltre ad un’altra di sangue guarani perché discendo da una delle concubine di Irala che fondò Asuncion.
Forse, delle letterature latinoamericane quella argentina è la più ricca, soprattutto nel secolo scorso, Almafuerte, Lugones, pure altri meno conosciuti come Banchs, Ezequiel Martinez Estrada. Il fatto è che questa città è una città cosmopolita, ha questa fortuna. Invece se lei percorre il Sudamerica, ci sono paesi molto queribles come Il Perù, la Colombia, ma sono paesi molto provinciali. Buenos Aires invece è una città aperta all’Europa; altri paesi sono più spagnoli o indigeni, invece qui ci sono state molte emigrazioni, pure una forte emigrazione ebraica; la metà della popolazione di Buenos Aires è d’origine italiana; io, che come dicevo non ho sangue italiano, da poco ho saputo che sono discendente di un capitano mercenario italiano, che si chiamava Gibeo o Cibeo o Chibeo, che militò sotto il comando di Mendoza nella seconda fondazione di Buenos Aires. Quindi una lontana goccia di sangue italiano dovrei avercela pure io oltre ad un’altra di sangue guarani perché discendo da una delle concubine di Irala che fondò Asuncion.
Non mancano mai, in Borges, i riferimenti agli antenati,
cognomi che popolano i suoi racconti e che invadono come ostinati fantasmi le
sue riflessioni. Come uomo di pensiero non nasconde l’ammirazione per gli
uomini d’azione, decisi e di valore, veri protagonisti della storia.
B. La storia argentina è stata molto travagliata e questa situazione si
riflette nell’opera di molti scrittori come Sarmiento nel Facundo, Ascasubi
ed Hernandez. Ma io non credo che questa sia la funzione della letteratura.
Credo che la vera funzione sia inventare e io che altro posso fare, vivo solo,
conosco poca gente, non mi piacciono le riunioni molto numerose. A me invece
piace il dialogo, ad esempio, adesso sto parlando con lei e mi sembra un modo
molto piacevole di trascorrere la mattina; ma nelle riunioni con trenta o quaranta
persone mi stordisco un po’ perché si hanno dialoghi di tre o quattro minuti e
subito l’interlocutore si trasforma in un’altra persona come Proteo. Lei vive
in Italia?
P.B. Sì, perché?
B. Sa io conosco il nord e conosco Roma; disse Chesterton, scrittore che
ammiro molto, che se si va a Roma e non si è convinti di essere in qualche modo
“ritornati a Roma” il viaggio è inutile. Chiunque va a Roma deve pensare “torno
a Roma”, ego romanus sum. La cultura uscì da lì.
P.B. È una città che non si finisce mai di
conoscere, qualcuno ha detto che è come una cipolla, uno non fa che togliere
le foglie senza mai arrivare alla fine, al cuore…
B. Questo mi ricorda Peer Gynt di Ibsen, quando lui cerca se stesso e
si paragona ad una cipolla.
P.B. Giorgio Bassani quando è venuto in Argentina per la Fiera
del Libro disse che a suo avviso in questo paese c’è una crisi di
identità e che Borges è il poeta di quella crisi. Che ne pensa?
B. Forse ma non so se sono veramente così importante.
P.B. C’è una crisi di identità in Argentina?
B. No, non credo perché abbiamo il vantaggio di avere meno colore locale di
altri paesi.
P.B. Ma non è forse il nostro cosmopolitismo che ci
dà una caratteristica particolare?
B. Sì. è questo il vantaggio, un politico ha detto che si deve evitare
l’intromissione straniera. Ma se qui tutto è straniero, intanto parliamo lo
spagnolo che è un dialetto del latino, e non siamo certamente indios. Tutti
gli americani, e dicendo americano penso anche agli Stati Uniti, al Canada e
non soltanto alla Colombia o all’Uruguay o all’Argentina, credo che tutti
siamo europei in esilio. Io, per esempio, ho la maggior parte di sangue
spagnolo ma non sono spagnolo, a volte penso che comprendere l’Europa è più
facile per noi che per gli europei. Noi qui possiamo accettare tutto il passato
dell’Europa e pure l’oriente, giacché nella cultura occidentale intervengono
Grecia, Roma e Israele.
Il passato torna sempre nella sua conversazione, il
presente scorre come un attimo fuggitivo, e tra queste pareti continuano a
vivere le presenze più care.
P .B. Quale è il suo concetto di Poesia?
B. La poesia è atemporale, lei legge Ariosto e lo sente attuale, la poesia è
eterna. Io credevo che la possibilità di metafore si fosse esaurita ma poi ne
ho trovate alcune che mi hanno sorpreso ed erano antiche. Senza dubbio quando
Shakespeare parla del latte della bontà umana, non è una metafora ma sta bene
no? Un poeta persiano disse “la luna specchio del tempo”: che bello no? La
luna, quella cosa fragile e invece eterna e inoltre ha la forma di uno
specchio, è uno specchio. Adesso sto leggendo un libro sull’India dove ho
trovato una metafora che mi ha lasciato sorpreso. Lei sa che gli indù venerano
quel dio terribile, Shiva, che è il dio della morte e della creazione. In quel
libro c’è scritto che “l’Himalaya è il sorriso di Shiva”: che bello no? Le terribili
montagne rappresentano il sorriso di un dio terribile, l’allegria di un dio
terribile; è splendida questa metafora e non ha alcuna importanza se è stata
scritta in questo secolo o dieci secoli fa.
P.B. Quando uno scrittore può chiamarsi tale?
B. Qualcuno ha detto che bisognerebbe scrivere tre o quattro libri prima di
dire: bene adesso posso pubblicare ed io ho fatto così. Mio padre era solito
dirmi di non aver fretta. Così scrissi e stracciai almeno quattro libri, alcuni
contenevano poemi ultraisti, cose molto brutte. Un giorno, quando avevo
24 anni, dissi a mio padre che ne avevo scritto uno che mi sarebbe piaciuto
pubblicare, ma avrei voluto che lo leggesse apportando qualche correzione: “No
– mi disse – nessuno può salvare nessuno, senza dubbio ci saranno cose che io
potrei correggere, ma sei tu che devi farlo, devi commettere tu stesso i tuoi
errori”. Lo pubblicai così, in 300 copie che non andarono in vendita e questo
costò 300 pesos.
P.B. Che ricordo ha oggi di quel libro?
B. Lo regalai agli amici e non me ne rimase alcun esemplare; mio padre
invece ne conservò uno senza dirmi niente, che scoprii con commozione molto
tempo dopo. Non credo che gli sia piaciuto molto, perché trovai che aveva
pagine interamente cancellate e molti aggettivi e verbi modificati. Il libro
si intitolava Fervor de Buenos Aires e ho rispettato quelle correzioni
nella riedizione delle mie opere.
P.B. Si è pentito di qualcosa che ha pubblicato?
B. Sì, di quasi tutto, io credo di aver pubblicato in verità un solo libro El
libro de arena (II libro di sabbia, Rizzoli, Milano 1977), e un
altro El informe de Brodie (II manoscritto di Brodie, Rizzoli,
Milano 1971 e 1984) che si potrebbero salvare, e anche un altro La cifra. Gli
altri si possono dimenticare e si dimenticheranno.
P.B. Quale dei suoi racconti lo soddisfa di più?
B. C’è il racconto “Il rito” e un altro “El congreso” che si trova nel El
libro de arena. “El sur” di El informe de Brodie che
mi piace ancora come “Funes el memorioso” e pure “Juan Murana”.
P.B. E “Venticinque agosto 1983”?
B. Le racconterò la storia di questo racconto; lo scrissi diversi anni fa
prima forse nel 1977, lo portai a “La Nacion” e non lo pubblicarono. Non deve
valere molto, pensai, e mandai un altro racconto e questo fu accettato. L’anno
scorso, poiché aveva una certa attualità, lo pubblicarono e la gente pensò che
lo avessi scritto in quel momento, invece avevo messo quella data a caso solo
perché mi sembrava molto lontana e quando lo pubblicarono stentai a riconoscerlo.
P.B. Perché salva El libro de arena?
B. Perché è scritto in un modo semplice, perché le favole che racconta sono
interessanti, perché si può leggere in un’ora, perché non ci sono parole
difficili. Quando cominciai a scrivere tutti eravamo influenzati da Lugones,
scrivevamo tutti in un modo molto barocco, con molte metafore, ci sembrava che
scrivere bene era scrivere come Lugones, invece oggi si preferisce la
scrittura più semplice, meno artificiosa, e dire cose più semplici, quella era
una possibilità splendida dello spagnolo, ma ce ne erano ancora delle altre.
P.B. Che ricordo ha di Lugones?
B. Personalmente sgradevole, era un uomo molto autoritario, ma la mia
memoria è piena di versi di Lugones:
Ligeros suenos de los crepusculos suaves
el jardin con sus intimos retiros
darà a tu alado ensueno fàcil jaula
donde la luna te abrirà su aula
[Sogni leggeri dei soavi crepuscoli / il giardino con i suoi intimi
angoli / darà ai tuoi sogni .alati facile gabbia / dove la
luna ti aprirà la sua aula][1]
La lenta musica di Lugones:
el cerro azul estaba fragante de romero
y en los profundos campos silbaba la perdiz
[il colle azzurro profumava di rosmarino / e pei profondi campi fischiava
la pernice][2]
Adesso si sente un certo rifiuto per lo stile di
Lugones.
P.B. Secondo lei quale è il momento più
importante di Lugones?
B. Il momento modernista è il meno personale, mentre credo che sia più
importante il periodo successivo, meno influenzato da Rubén Dario.
Il rapporto di Borges con lo scrittore Leopoldo
Lugones, la figura più rappresentativa del modernismo in Argentina, fu sempre
conflittuale, fatto di lodi e di ampie riserve verso l’indiscutibile maestro
che amava i vaghi paesaggi e la musicalità del verso. Come tutti i giovani ultraisti
della sua generazione, Borges reagiva in tal modo contro il modernismo e i
suoi stilemi, i suoi esotismi; si dichiarò apertamente “anti-modernista”.
Forse la sua ribellione ha radici più naturali e psicologiche: sua madre
ammirava, quasi incondizionatamente Lugones, e l’atteggiamento del giovane
scrittore è pure un modo di affermare nell’ambiente familiare la sua
indipendenza, l’autonomia del suo pensiero intellettuale; con il tempo questa
posizione fu rivista, un·velato accostamento a certe proposte moderniste, per
esempio i temi orientali di alcuni suoi racconti sono indicativi. Non può stupire,
d’altra parte, la polemica contro Rubén Dario e il modernismo se lo si
interpreta come scuola infrancesata. La nota anglofilia di Borges lo
teneva lontano da quella sensibilità.
P.B. Che cosa è per lei la parola?
B. Io credo che la parola sia molte cose, prima di tutto è un mezzo di
comunicazione, sono simboli che corrispondono a certe immagini convenzionali,
inoltre le parole hanno una virtù magica, quella che io cerco nella mia poesia
e che dipende forse meno dalle parole che dalla cadenza: cioè dalla musica
delle parole.
P.B. Si logorano le parole?
B. Non credo. Non so se le parole hanno importanza: direi
che un verso è non il suo significato ma il suono, per esempio, nel I canto del
Purgatorio:
dolce color di oriental zaffiro / che s’accoglieva nel sereno
aspetto / del mezzo puro infino al primo giro
credo che sia più importante il suono, quella lenta
musica e non il paragone tra l’oriente una gemma preziosa. La poesia prima di
tutto è musicalità, per questo non so se la poesia sia traducibile. Si
traducono i concetti, il senso delle parole e forse si devono tradurre i suoni
come fece Ezra Pound con alcuni poemi del IX secolo; quando io lessi la
traduzione non li trovai belli, ma poi, studiando l’anglosassone, mi resi
conto che Pound traduceva i suoni.
In queste risposte troviamo un Borges
inconsapevolmente modernista e più vicino a Lugones, a cui dedicherà uno Studio
e il suo libro El hacedor [L’artefice, Rizzoli, Milano 1963]. Non
sarà tanto la trama narrativa ad interessarlo nelle poesie quanto la loro
musicalità. In questo scarto l’esistenza trascorsa nell’ombra deve pur avere
avuto la sua parte.
P.B. E quando traducono una sua poesia?
B. A volte la modificano e la migliorano, altre volte non la migliorano e
quando la traducono letteralmente non rimane niente. Nella poesia ha meno
senso il significato che nella prosa, la poesia è suono.
P.B. Scrive attualmente?
B. Sì , continuo a scrivere racconti e poesie. Che altro rimane? Ho pochi
amici, sono cieco, ho libri che non posso leggere, devo dettare quello che
scrivo, faccio più poesia perché la prosa è più difficile da ricordare, il
sonetto è più portatile e per questo sono tornato al verso regolare,
perché posso ricordarlo meglio.
P.B. Che le sarebbe piaciuto scrivere che non ha
scritto?
B. Mi sarebbe piaciuto vivere quello che ho scritto: quale altro destino mi
rimane adesso se non quello letterario: ho 84 anni, non posso cercare un altro
destino e inoltre penso che il destino letterario non è più povero degli altri,
no? Soprattutto per quanto riguarda la lettura, scrivere può essere un errore
ma leggere è un piacere, una felicità… e scrivere pure… anche se dopo non piace
quello che si è scritto.
Si può pensare a un destino letterario come destino di
vita, vivere la vita attraverso le creature create, portatrici dei sogni e
delle fantasie dell’autore. Borges non è cambiato, ha lasciato il giardino
della vecchia casa di Palermo per quest’altro spazio più raccolto del suo
appartamento, dove riceve insieme ai visitatori le notizie del mondo, avido di
particolari con cui alimentare le sue fantasie. Nonostante l’età viaggia molto
e ricorda i suoi viaggi con entusiasmo, ma nella lettura solitaria l’uomo entra
in altre dimensioni, coglie altre sembianze e nella conoscenza ritrova la
piena felicità del pensiero. È così che egli supera o dimentica la sofferenza
e si muove in un regno d’incontaminata felicità.
P.B. Che relazione ha con il libro?
B. Il libro è molto importante.
P.B. Più importante che la relazione con gli esseri umani?
B. No, ma forse uguale: leggere è come parlare, Emerson disse che una
biblioteca era una specie di gabinetto magico pieno di morti, ma quando uno
apre un libro, questi morti si svegliano e ci parlano. Inoltre esiste la
possibilità di rileggere ed evocare altre sensazioni.
Io ho scritto un racconto su una biblioteca infinita, “La biblioteca di Babele”, ma si potrebbe fare un altro racconto, e io l’ho fatto, su una parola soltanto che va cambiando il suo senso e che pure è infinita: si chiama Undr che in islandese significa meraviglia, ha relazione con wonder in inglese e Wunder in tedesco, ma Undr come parola è più bella, non le pare? Ora vorrei dettarle una poesia che ho cominciato l’altro ieri e volevo continuare oggi, se lei ha dieci minuti per me.
Io ho scritto un racconto su una biblioteca infinita, “La biblioteca di Babele”, ma si potrebbe fare un altro racconto, e io l’ho fatto, su una parola soltanto che va cambiando il suo senso e che pure è infinita: si chiama Undr che in islandese significa meraviglia, ha relazione con wonder in inglese e Wunder in tedesco, ma Undr come parola è più bella, non le pare? Ora vorrei dettarle una poesia che ho cominciato l’altro ieri e volevo continuare oggi, se lei ha dieci minuti per me.
Il rispetto per il maestro mi spinge a chiudere il
registratore, ma di questi momenti non dimenticherò le sensazioni. Mi chiede
di accompagnarlo nella sua stanza, piccola con un letto stretto di ferro, un
comodino, una vetrinetta con libri vari e una scrivania ingombra. Vedo poi dei
ricordi di viaggio, un bronzetto che riproduce la statua equestre di Bartolomeo
Colleoni, ricordo di un viaggio a Venezia, e un orologio di sabbia copia di uno
che aveva Kipling nel suo studio. Poi mi mostra la sagoma di una tigre
fantastica con uno strano mantello fatto di nuvole e di palme, credo di ceramica.
Dove meglio che nella stanza di Borges poteva stare questa tigre blu, bianca e
verde? A proposito mi dice che da sempre gli sono piaciute le tigri e ancora
oggi le sogna.
Da un cassetto prende un foglio scritto a macchina, me lo consegna e si fa portare dalla domestica la macchina da scrivere. Mi preparo per scrivere e nel frattempo Borges si siede accanto a me, il bastone fra le gambe, le mani appoggiate sulle ginocchia.
Devo leggere lentamente, una riga dopo l’altra.
Già dal primo verso mi accorgo che Borges è nel suo mondo, io resto fuori a riceverne i segni. Ripete alcuni versi con tono soave e declamatorio senza modificarli; altri, dopo alcuni momenti di silenzio, in cui il suo volto ha l’espressione assorta di un assente, vengono cambiati. Finito il breve rito della dettatura, lieve tirannia alla quale sottopone tutti i suoi ospiti, mi accompagna all’ingresso per il saluto, la mano tesa è tremula.
Da un cassetto prende un foglio scritto a macchina, me lo consegna e si fa portare dalla domestica la macchina da scrivere. Mi preparo per scrivere e nel frattempo Borges si siede accanto a me, il bastone fra le gambe, le mani appoggiate sulle ginocchia.
Devo leggere lentamente, una riga dopo l’altra.
Già dal primo verso mi accorgo che Borges è nel suo mondo, io resto fuori a riceverne i segni. Ripete alcuni versi con tono soave e declamatorio senza modificarli; altri, dopo alcuni momenti di silenzio, in cui il suo volto ha l’espressione assorta di un assente, vengono cambiati. Finito il breve rito della dettatura, lieve tirannia alla quale sottopone tutti i suoi ospiti, mi accompagna all’ingresso per il saluto, la mano tesa è tremula.
Buenos Aires, 14 gennaio 1984
Lucrecia Porto Bucciarelli, è nata a Buenos Aires,
dove ha insegnato italiano. Da molti anni trasferita in Italia, ha poi
insegnato lingua e letteratura spagnola presso l’Università di Perugia.
Attualmente è lettrice di Lingua spagnola presso l’Università di Macerata. è
autrice di numerosi articoli didattici, nonché di libri scolastici per
bambini. L’intervista che pubblichiamo è comparsa una prima volta in “Uomini e
libri”, n° 99, giu/lug 1984.
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