Vecchiaia, saggezza,
eternità in Romano Guardini
di Bruno Trevellin
Romano
Guardini (1885-1968), filosofo e teologo cattolico tra
i più significativi del ‘900, pubblica
Le
età della vita nel 1957, quando di anni ne ha 72. È un’età che gli consente
di sostenere per esperienza quanto scrive a proposito della vecchiaia.
Beninteso, il suo studio parla anche delle altre età della vita, non
esclusivamente di quella che per ciascuno sarà l’ultima. La sua riflessione infatti
inizia considerando la vita fin dal grembo materno, passando per la giovinezza,
per l’età adulta, per finire appunto con la vecchiaia.
Soffermiamo
la nostra attenzione proprio su questo momento della vita umana, momento in
cui, dice Guardini, “si avverte il senso della caducità delle cose”, “si fa un
bilancio delle proprie possibilità”, si vede “venir meno il senso dell’attesa”,
per il fatto che “quanto più l’uomo invecchia, tanto meno si aspetta qualcosa e
tanto più intensamente avverte la fine” e sente la vita scivolargli via sempre
più velocemente.
In
quell’età ha la sensazione che qualcosa sia continuamente alla fine, è sempre
più consapevole “che quanto si fa ora lo
si è fatto anche ieri, che l’esperienza fatta oggi è quella di otto giorni fa”.
A questo si aggiunge anche un altro elemento, non legato al tempo che passa, ma
al modo in cui vengono vissuti gli avvenimenti, e cioè che essi si fanno
labili, nel senso che “chi li vive ne è meno toccato e non li considera più
così seriamente”. L’uomo che invecchia, anzi, dimentica con facilità quanto
accade e ai suoi occhi acquistano invece sempre più importanza “gli avvenimenti
di un tempo”, il passato, la vita trascorsa.
Risultano
essere queste le caratteristiche della crisi di questa età e il modo per
superarle, avverte Guardini, dipende da come viene accettata la prospettiva
della morte, al punto che sarà vecchio, ma in senso negativo, colui che vecchio
non vuole proprio diventare.
Gurdini
a tal proposito osserva, e siamo nel lontano ’57, come uno dei fenomeni più
inquietanti dell’epoca moderna sia l’opinione che il vero valore della vita
coincida con la giovinezza, generatore di quella sorta di “materialismo senile”
che mira solo a cose tangibili, quali “il mangiare e il bere, il conto in
banca, la poltrona comoda”. Per Guardini ne deriverà quella che egli chiama
“testardaggine senile”, fatta di smania di mettersi in mostra, voglia di
tiranneggiare gli altri solo per la convinzione “di essere ancora qualcuno”,
quando invece bisognerebbe “accettare il fatto che si diventa vecchi”.
Solo
così infatti si potrà superare positivamente la crisi di questa età, solo così
si realizzeranno comportamenti e valori fondamentali per la totalità della
vita, come il discernimento, il coraggio, la pacatezza, il superamento
dell’invidia verso i giovani, il risentimento verso le novità che si presentano
nella storia. Solo così, cioè, si forma quella figura del vecchio inteso come
saggio, da caratterizzare come “colui che è conscio della fine e l’accetta”,
perché si trova sempre più preparato a ciò che gli dovrà succedere.
È
accettando la fine infatti che il comportamento dell’uomo “acquista pacatezza e
superiorità”, superiorità da intendere come “superamento dell’angoscia, del
desiderio di gustare il piacere, della fretta di vivere quanto resta da vivere,
dell’ansia con cui si sfrutta all’estremo ogni attimo del tempo che si va
accorciando”.
E
sarà proprio il senso di caducità che si manifesta nella vecchiaia a produrre
la coscienza “di ciò che non passa, di ciò che è eterno”. Guardini però ci
avvisa subito che eterno non è ciò che continua come quantità incommensurabile,
“ma qualcosa di qualitativamente Altro, libero, incondizionato”, non essendo in
rapporto con la vita biologica, ma con la persona che nell’eterno non è
conservata e perpetuata, ma “realizzata in senso assoluto”.
È
l’esperienza -che consente di distinguere ciò che importa da ciò che risulta
irrilevante, ciò che è autentico- a farci comprendere “l’unità della vita e il
significato che in essa hanno i singoli momenti”. Questo è la saggezza, da
intendere come “ ciò che si viene a creare quando l’assoluto e l’eterno
penetrano nella coscienza contingente e finita, e da questa gettano luce sulla
vita”.
Purtroppo
l’uomo di oggi ha dimenticato del tutto il significato della vecchiaia. La norma
è il giovane e “il vecchio non sarebbe altro che un giovane sminuito”. Di
conseguenza sono venuti meno i valori propri della vecchiaia quali la saggezza
nelle sue varie forme, la capacità di discernimento e di giudizio.
Orbene,
“solo colui che diventa vecchio nel modo giusto diventa capace di comprendere
la totalità della vita”, non avendo egli più un futuro, ma solo un passato cui
rivolgere lo sguardo, ma sarà proprio con quello sguardo che potrà vedere “i
fatti nel loro contesto” (conquiste, rinunce, gioie, dolori). E poi “l’uomo che
invecchia si avvicina non alla fine ma all’eterno”, cioè a Dio e al suo “regno
senza tempo”.
Nella
vecchiaia “gli avvenimenti della vita immediata perdono la loro urgenza”,
mentre invece acquistano importanza ciò che prima era considerato irrilevante.
“Si tratta di un’anticipazione di ciò che il linguaggio religioso chiama
giudizio”. “Giudizio -dice Guardini-
significa che le cose sono liberate dai camuffamenti delle chiacchiere e dalle
confusioni operate dalla menzogna e dalla violenza, e vengono portate nella
pura potenza della verità di Dio, che non può essere né corrotta né ingannata.
Di questo giudizio, che avrà luogo dopo la morte al cospetto di Dio, si attua,
nella vecchiaia giusta, una specie di preparazione”. Questo giudizio “dà alla
vecchiaia un senso che non ha nessun’altra fase della vita”.