Esilio, sofferenza
dell’innocente e silenzio di Dio ne La
peste di A. Camus (di BRUNO TREVELLIN)
Albert
Camus (1913-1960), premio Nobel per la Letteratura nel 1957, ambienta il suo
romanzo La peste (pubblicato nel
1947) a Orano, cittadina sulla costa algerina che non ha nulla di
straordianario e che, anzi, definisce fin dall’inizio decisamente “brutta”. È
stata costruita avendo addirittura il mare alle spalle anziché in fronte. I
cittadini non pensano ad altro che a lavorare per far soldi, interessandosi
soprattutto di commerci e di concludere affari. Certo anche loro amano le
donne, il cinema, i bagni al mare, ma riservano questi piaceri solo al sabato
sera e alla domenica perché in tutti gli altri giorni della settimana non hanno
altro in mente che fare soldi, “molti soldi”. I giovani hanno desideri violenti
e brevi, mentre gli anziani hanno per vizi le associazioni bocciofile o i
giochi d’azzardo.
Fin
dall’inizio Camus sottolinea che per conoscere una città, ogni città, è
necessario capire come “vi si lavora, come vi si ama e come vi si muore”.
Ebbene, a Orano come altrove gli uomini e le donne o si divorano “nell’atto
d’amore o s’impegnano in una lunga abitudine a due” e così “in mancanza di
tempo e di riflessione”, si ritrovano costretti ad amarsi senza saperlo. Ma di più
originale a Orano c’è la difficoltà o meglio la scomodità del morire. In una
città in cui si dà così tanto peso agli affari, in cui anche il clima si
caratterizza per i suoi eccessi, bisogna trovarsi sempre in buona salute,
perché a Orano “un malato si trova proprio solo” e ancor peggio viene a
trovarsi un moribondo.
Proprio
una città con queste caratteristiche viene colpita da una terribile peste in un
non meglio precisato 194… La moria di
sorci cui si assiste nelle prime pagine ne è il segnale evidente e temuto.
Protagonista
del romanzo è il dottor Bernard Rieux che, prudente all’inizio, non ha poi più dubbi
che si tratti proprio della peste, anche se poteva essere poco credibile, visto
che in Occidente era scomparsa ormai da tempo. La sua reazione cioè fu la
stessa dei suoi concittadini, perché i flagelli sono sì una cosa comune, “ma si
crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa” e i flagelli,
guerre o pestilenze che siano, colgono sempre impreparati gli uomini e così
questi continuano a concludere i loro affari e a progettare i loro viaggi,
sentendosi ancora liberi, quando invece “nessuno sarà mai libero sino a tanto
che ci saranno i flagelli”. Anche per lui cioè il pericolo è agli inizi irreale,
pur essendo già morto di peste un primo gruppo di malati, anche perché per un
dottore “pochi casi non fanno un’epidemia” e poi, se è solo all’inizio, un
flagello come la peste lo si può ancora fermare e “tutto sarebbe andato bene.
Le stesse misure adottate dalle autorità all’inizio non sono proprio draconiane.
Mirando a non preoccupare più di tanto l’opinione pubblica, annunciano che si
tratta solo di “una febbre perniciosa” e che non si può ancora dire che sia
infettiva. Ma poi il flagello si afferma decisamente, spazzando via ogni
perplessità. Viene dichiarato lo stato di peste e Orano viene chiusa. Una volta
serrate le sue porte, tutti gli abitanti sono come presi nello stesso sacco e
un sentimento così individuale come la separazione da una persona cara diventa
di tutto un popolo e “insieme alla paura, la principale sofferenza” di quello
che si presenterà come un lungo periodo d’esilio”. Madri figli sposi amanti si
videro di colpo allontanati e senza rimedio alcuno, rimanendo solo i telegrammi
per comunicare tra di loro e anche questi ridotti in breve a banali formule del
tipo: “Sto bene. Penso a te” e null’altro. Anche chi si fosse messo d’impegno a
scrivere lettere, dopo le prime sanguinanti parole uscite dal cuore, si ritrovò
a ricopiare le stesse lettere che dopo un certo tempo si svuotarono così di
significato, al punto che si finì per preferire “il convenzionale appello del
telegramma”. Anche la piccola soddisfazione dello scrivere fu cioè negata.
La
prima cosa che portò con sé la peste fu l’esilio, il sentimento dell’esilio
inteso come quel vuoto che ci si porta dentro e che si traduce nel “il
desiderio irragionevole di tornare indietro” o di “affrettare il cammino del
tempo”, cercando di venire a patti con lui, col tempo, in una condizione che si
rivela essere la stessa del prigioniero, di colui che è ridotto solo al proprio
passato. Gli abitanti di Orano finiscono perciò proprio per provare “la
profonda sofferenza di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati, che è
vivere con una memoria che non serve a nulla”. Ed è un esilio ancora più amaro
perché si tratta di un esilio in patria.
Anche
le autorità religiose sono chiamate a fare la loro parte. Organizzano una
settimana di preghiere collettive, che terminano la domenica con una messa in
onore di san Rocco, patrono degli appestati. L’omelia viene affidata a padre
Paneluox, gesuita di “natura focosa e appassionata”, studioso di sant’Agostino
(Camus si laureò proprio con una tesi sul santo africano). A un uditorio
accorso numerosissimo si rivolge “con una sola frase veemente e martellata:
‘Fratelli
miei, voi siete nella sventura, fratelli miei, voi lo avete meritato’.
È
questo l’incipit della prima predica di Paneluox, cui ne seguirà una seconda,
dai risvolti completamente diversi, e ne vedremo il perché. In questa prima ricorda
la peste che Dio manda in Egitto per colpire i suoi nemici, per colpire il
Faraone che si oppone ai disegni di Dio e che finirà con l’inginocchiarsi
davanti a Lui. La peste che ora stanno patendo a Orano non è che la conseguenza
dei peccati di chi vi abita. Ma non vuole privare i suoi uditori di ogni sorta
di consolazione e ricorda ai fedeli che in fondo a ogni sofferenza c’è un
bagliore di eternità che manifesta la volontà divina, che trasforma il male in
bene. Insomma, il padre Paneluox vuole spiegare l’origine divina della peste e
il carattere punitivo del flagello. Per lui anzi la peste, si dirà più avanti
nel testo, non nella predica, “porta un suo beneficio, che apre gli occhi, che
costringe a pensare”.
È
proprio Paneloux, almeno in questa parte centrale della narrazione, l’altro
vero protagonista del romanzo assieme al dottor Rieux. Solo che per Rieux
“bisogna essere pazzi, ciechi o vili per rassegnarsi alla peste” e lui non è
credente. All’amico Tarrou che gli chiede espressamente se crede in Dio,
risponde infatti senza esitazioni:
“No,
ma che vuol dire questo? Sono nella notte, e cerco di vederci chiaro. Da molto
tempo ho finito di trovare originale la cosa”.
Da
molto tempo ormai Rieux ha a che fare con la morte per lasciarsi ancora
prendere da quella domanda e pensando a Paneloux, uomo di studio, dice che lui,
Paneloux,
“non
ha veduto morire abbastanza: per questo parla in nome d’una verità. Ma il
minimo prete di campagna, che amministra i suoi parrocchiani e che ha sentito
il respiro dei moribondi la pensa come me. Curerebbe la miseria prima di
volerne dimostrare la perfezione”.
Ma
allora perché un medico come Rieux dimostra così tanta devozione nel seguire
gli appestati se non crede in Dio? Rispondendo all’amico Tarrou, disse, in modo
quasi irriverente e blasfemo, che:
“se
avesse creduto in un Dio onnipotente avrebbe trascurato di guarire gli uomini,
lasciandone la cura a lui. Ma che nessuno al mondo, no, nemmeno Paneloux, che
credeva di credervi, credeva in un Dio di tal genere; nessuno infatti si
abbandonava del tutto, e in questo almeno, lui, Rieux, credeva di essere sulla
via della verità, lottando contro la creazione com’essa è”.
È
anzi convinto che
“se
l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si
creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza
levare gli occhi verso il cielo dove lui tace”.
Questo
considera il suo compito nella vita, questa la sua sfida, condurre pur nella
consapevolezza che porterà a vittorie solo e sempre provvisorie. Anche la peste
per lui, per Rieux, è infatti solo “un’interminabile sconfitta”, come gli ha
ben insegnato la miseria, quella miseria che Camus stesso ben conosce perché
vissuta concretamente nella fanciullezza e nella giovinezza. Per lui dunque,
diversamente da Paneloux e dai molti moralisti che andavano girando allora per Orano,
non è questione di mettersi in ginocchio, come invitava a fare nella sua
predica Paneloux, ma di impedire al maggior numero di persone di morire e per
farlo egli ritiene che non ci sia che un mezzo: combattere la peste.
Rieux
però (e Camus con lui) sa che Paneloux è sicuramente migliore di quella sua
prima predica e non nega l’evidenza del peccato tra gli uomini. Lo fa
attraverso la vecchia madre spagnola di Marcello e Luigi (in cui possiamo
riconoscere la madre stessa di Camus, figlia di immigrati spagnoli, rimasta
vedova e in miseria quando Albert non aveva che un anno, essendo il padre morto
nella prima battaglia della Marna). I due fratelli dovevano far scappare il
giornalista Rambert da Orano. Quella loro madre è una donna che va a messa
tutte le mattine e che pur dentro l’imperversare della peste continua a
conservare la sua serenità. “Vi è del peccato nel mondo” osserva proprio lei “e
allora, per forza”. Camus ne fa una descrizione breve ma profonda. È “magra e
attiva, vestita di nero, col volto bruno e rugoso sotto i capelli bianchi molto
puliti. Silenziosa, sorrideva vivamente con gli occhi”. È questa vecchia
signora che non può fare a meno di chiedere a Rambert, che vuole trovare un
modo per fuggire dalla città così da ricongiungersi alla donna che ama: “Lei
crede nel buon Dio?” per sentirsi rispondere negativamente. Rambert poi però non
scapperà, preferirà rimanere a curare gli appestati, sostenendo che partendo
avrebbe provato una vergogna che gli avrebbe guastato l’amore per la sua donna.
Ciò
che però risulterà scandaloso per Rieux sarà guardare in faccia, a lungo,
l’agonia di un innocente e lo farà proprio assieme a Paneloux che aveva scelto
di assistere i moribondi nella casa di quarantena.
Siamo
all’episodio centrale del romanzo. Prende la peste il figlio del giudice Othon
e tutta la famiglia viene messa in quarantena. Il ragazzo viene portato
all’ospedale, in una ex aula scolastica con dieci letti. Rieux, assistito da
Paneloux, Rambert e Tarrou, non dai genitori del ragazzo che si trovavano appunto
in quarantena e separati l’uno dall’altra, giudicò subito il caso disperato. Ma
Camus vuole dare una descrizione lunga e particolareggiata di tutte le pene
sofferte dal ragazzo.
“Il
piccolo corpo si lasciava divorare dall’infezione senza reagire per nulla.
Minutissimi bubboni, dolorosi, ma appena formati, bloccavano le articolazioni
delle gracili membra. Era un vinto, sin dal principio (…). Con gli occhi chiusi
nella faccia scomposta, coi denti stretti sino al limite delle forze, immobile
nel corpo, girava e rigirava la testa da dritta a manca, sul capezzale senza lenzuola
(…). Il dottore stringeva con forza la sbarra del letto in cui gemeva il
ragazzo; non lasciava con gli occhi il piccolo malato, che s’irrigidì
all’improvviso e, coi denti di nuovo stretti, s’incavò un poco all’altezza
della vita, aprendo lentamente le braccia e le gambe. Dal corpicino, nudo sotto
la coperta militare, saliva un odore di lana e d’acre sudore (…). Di bambini,
ne avevano ormai veduti morire: il terrore, da mesi non sceglieva affatto; ma
non avevano ancora seguito le loro sofferenze minuto per minuto, come stavano
facendo dalla mattina. E, beninteso, il dolore inflitto a quegli innocenti non
aveva mai finito di sembrarli quello che in verità era, ossia uno scandalo. Ma
sino ad allora si erano scandalizzati astrattamente, in qualche modo: mai
avevano guardato in faccia, sì a lungo, l’agonia di un innocente”.
Il
testo prosegue ancora a lungo nel descrivere l’agonia atroce del ragazzo, in
una sofferenza che sembra non voglia mai finire. A un certo punto, non
sopportando più quel dolore, il padre Paneloux “guardò quella bocca infantile,
insozzata dalla malattia, piena d’un grido di tutti gli evi” e, lasciandosi
scivolare in ginocchio, lo sentirono dire:
“Mio
Dio, salva questo ragazzo”.
Il
ragazzo però non viene salvato, non c’è nessun miracolo. Il suo grido di dolore
anzi s’indebolisce un poco alla volta per poi finire “con la bocca aperta, ma
muta”, “rimpicciolito di colpo, con resti di lacrime sul viso”. Rieux esausto e
incapace di sopportare la scena, uscì dalla stanza non senza aver fatto notare
con collera proprio a Paneloux:
“Questo
qui, almeno, era innocente, lei lo sa bene!”
Raggiunto
da Paneloux, si scusa subito per il tono usato con lui, dicendo che la
stanchezza lo faceva impazzire e che ormai c’erano ore in cui non sentiva che
la sua rivolta.
“E’
rivoltante in quanto supera la nostra misura. Ma forse dobbiamo amare quello
che non possiamo capire”,
gli
suggerisce Paneloux, ma Rieux, alzandosi di scatto dalla panca su cui erano
seduti, “con tutta la forza e la passione di cui era capace” e scuotendo la
testa, gli obbietta che non può essere d’accordo.
“No,
padre, io mi faccio un’altra idea dell’amore; e mi rifiuterò sino alla morte di
amare questa creazione dove i bambini sono torturati”.
Sul
viso di Paneloux a quel punto passò prima un’ombra di rivolta, poi:
“Dottore,
-fece con tristezza- ora ho capito quello che chiamano grazia”.
Al
che subito Rieux riprende:
“E’
quello che non ho, lo so bene. Ma non voglio discuterne con lei. Noi lavoriamo
insieme per qualcosa che riunisce al di là delle bestemmie e delle preghiere.
Questo solo è importante”.
Paneloux
gli fa notare che anche lui, Rieux, in fondo “lavora per la salvezza dell’uomo”, ma per il
dottore “la salvezza dell’uomo è un’espressione troppo grande” e lui non va
così lontano, interessandogli dell’uomo la salute, “prima di tutto la sua
salute”.
Paneloux,
come Camus, ha studiato sant’Agostino, doctor
gratiae, conosce bene la dottrina sulla grazia del vescovo di Ippona (città
dell’Algeria come Orano), sa che senza la grazia non c’è salvezza, ma solo ora
lo ha anche capito, vedendo non una semplice morte, ma la morte atroce di un
ragazzo.
Rieux
tuttavia rimase pensieroso, si scusa per
quel suo scatto di prima, assicurandolo che non si ripeterà e Paneloux gli
stringe la mano constatando con tristezza che non era riuscito a persuadere il
dottore sul fatto che forse dobbiamo amare ciò che non riusciamo a capire.
“Che
importa? –disse Rieux- Quello che odio, è la morte e il male, lei lo sa. E che
lo voglia o no, noi siamo insieme per sopportarli e combatterli”.
E,
trattenendo la mano di Paneloux,
“Lei
vede, -disse evitando di guardarlo- Dio stesso ora non ci può separare”.
Sopportare
e combattere la morte e il male è ciò che tiene insieme dunque Rieux e
Paneloux, il medico e il gesuita, e su questo, il primo ne è certo, neanche Dio
li potrà separare. Ma è Paneloux a cambiare, proprio da quel giorno in cui
aveva visto e assistito alla morte del ragazzo. Non aveva lasciato il suo
lavoro tra gli appestati, mettendosi anzi al primo posto tra quelli che erano
impegnati nei soccorsi, “tra i salvatori”, come vengono chiamati, e anzi “gli
spettacoli di morte non gli erano mancati” e pur protetto dal siero, non gli
era estraneo il pensiero della propria morte. Sarà proprio sotto l’impressione
di quel fatto che preparerà la sua seconda predica, quella alla quale invita a
essere presente anche Rieux. Si ritrovò con meno uditori della prima volta, non
solo perché le persone avevano cominciato a disertare i doveri religiosi o
perché si abbandonavano a una vita profondamente immorale, ma soprattutto
perché avevano “sostituito le pratiche ordinarie con superstizioni poco
ragionevoli”, preferendo per esempio portare medagliette protettive o amuleti
di san Rocco anziché andare a messa, oppure facendo ricorso alle profezie, di
Nostradamus, di santa Odila.
Parlò
dal pulpito con un tono più dolce e riflessivo di quello della prima predica,
con anche una certa esitazione e, fatto curioso, non usò più il pronome ‘voi’,
ma ‘noi’. Nella predica disse “che non bisognava tentare di spiegarsi lo
spettacolo della peste, ma cercare di imparare quello che si poteva imparare”
perché ci sono
“cose
che si potevano spiegare riguardo a Dio e altre che non si potevano. Certamente
vi erano il bene e il male e, in generale, ci si spiegava agevolmente quello
che li separava; ma nell’ambito del male cominciava la difficoltà. C’erano, a
esempio, il male apparentemente necessario e il male apparentemente inutile.
C’erano Don Giovanni sprofondato agli Inferi e la morte di un bambino. Se
infatti è giusto che un libertino sia fulminato, non si capisce la sofferenza
dell’innocente”.
La
predica è cioè pensata e pronunciata sotto l’influenza dell’episodio del
ragazzo morto. Anzi, proprio perché non c’è niente al mondo di più importante
della sofferenza di un bambino e dell’orrore che si porta dietro, bisogna
trovarne le ragioni. È duro Paneloux duro nella sua seconda predica:
“Fratelli
miei, il momento è venuto. Bisogna tutto credere o tutto negare. E chi mai, tra
di voi, oserebbe tutto negare?”.
A
queste parole Rieux pensò che il padre stesse rasentando l’eresia, ma il prete
sa, ci avverte Camus, che “la religione del tempo di peste non poteva essere la
religione di tutti i giorni”, quella più indulgente e classica. Per Paneloux è
Dio stesso che “negli eccessi della sventura” vuole l’anima eccessiva, mettendo
le anime in una sventura tale da obbligarle
“a
ritrovare o assumere la più grande virtù, quella del Tutto o Nulla”.
La
sofferenza di un bambino era umiliante, ma proprio per questo bisognava
entrarci e, cosa non facile da dire per Paneloux, “bisognava volerla in quanto
Dio la voleva”. Solo così un cristiano “non avrebbe risparmiato nulla”, solo
così “avrebbe scelto di tutto credere per non essere ridotto a tutto negare”,
solo così “avrebbe saputo abbandonarsi alla volontà divina, anche se
incomprensibile”; non si sarebbe cioè più potuto dire: “Non capisco questo, ma
è inaccettabile”, perché invece
“bisognava
slanciarsi al cuore di quell’inaccettabile che ci era offerto, e proprio per
stabilire la nostra scelta. La sofferenza dei bambini era pane nostro amaro, ma
senza questo pane la nostra anima sarebbe perita di fame spirituale”.
Non
c’era proprio una via di mezzo nella peste: o si odia Dio o lo si ama. Certo,
non si trattava di fare come i cristiani dell’Abissinia di secoli prima, che
vedevano nella peste uno strumento per guadagnarsi l’eternità al punto che si
avvolgevano nelle lenzuola degli appestati pur di morire ad ogni costo, in una
sorta di “furore di salvezza” non raccomandabile. Questo aveva già detto
Paneloux nella sua prima predica. E non si doveva neanche arrivare a
comportarsi come i monaci del Cairo che, per evitare il contagio, distribuivano
la comunione prendendo la particola da mettere in bocca ai fedeli con delle
pinzette, in una specie di paura, pur umana, che era arrivata a travolgerli.
Bisognava semmai essere come quel monaco di Marsiglia che dopo aver visto
morire di peste settantasette confratelli e dopo aver assistito alla fuga di
tre di loro scelse di rimanere solo. Lo gridò dal pulpito Paneloux:
“Fratelli
miei, bisogna essere colui che resta!”.
Che
fare allora? Non ha dubbi Paneloux:
“Bisognava
soltanto cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e
tentare di fare il bene. Ma per il resto bisognava restare, e accettare di
rimettersene a Dio, anche per la morte dei bambini, e senza cercare un
personale ausilio”.
E
a tal proposito ricordò, per sé sicuramente, la figura del vescovo Belzunce di
Marsiglia che, dopo essersi dato tanto da fare durante la peste, convinto che
non ci fosse più rimedio, si fece murare in casa per salvarsi, sollevando l’ira
dei suoi fedeli dei quali era stato fino a poco prima l’idolo, al punto che
arrivarono a gettargli sopra i muri i corpi morti degli appestati per
infettarlo. Aveva cioè voluto, in un momento di debolezza, isolarsi dal mondo
della morte e i morti, per contrappasso, finirono per cadergli addosso. Quel
vescovo, pur così premuroso, non aveva ancora capito “che non c’è isola nella
peste”.
“Fratelli
miei, -disse infine Paneloux, annunciando che stava per concludere- l’amore di
Dio è un amore difficile: suppone un totale abbandono di se stessi e lo sdegno
per la propria persona. Ma lui solo può cancellare la sofferenza e la morte dei
bambini, lui solo in ogni caso può renderla necessaria, in quanto è impossibile
capirla e non si può che volerla. Ecco la difficile lezione che volevo dividere
con voi; ecco la fede, crudele agli occhi degli uomini, decisiva agli occhi di
Dio, a cui bisogna avvicinarsi (…) la verità sorgerà dall’ingiustizia
apparente”.
Termina
la sua omelia ricordando che è proprio per questo che in molte chiese del sud
della Francia “gli appestati dormono da secoli sotto le lastre del coro e i preti
parlano al disopra dei loro sepolcri, e lo spirito ch’essi propagano sorge da
quella cenere a cui anche i bambini hanno portato la loro parte”.
Ma
che predica è questa di Paneloux? Soprattutto, cosa voleva dire? Appena fuori
di chiesa Rieux ha modo di sentire i commenti di un vecchio prete e di un
giovane diacono. Il primo elogia l’eloquenza del gesuita, ma critica
l’arditezza del suo pensiero che rischia di provocare “più inquietudine che
forza”. Il diacono dice di conoscere bene il padre Paneloux ed è convinto che,
conoscendone l’evoluzione del pensiero, si sarebbe fatto ancora più ardito, al
punto da non ricevere l’imprimatur. In particolare, il diacono si è fatto
l’idea che è una contraddizione che un prete consulti un medico. Chi però
sembra aver colto nel segno le parole della predica è Tarrou, informato da
Rieux su quello che era stato il discorso di quella seconda omelia. Tarrou, che
conosce un prete che aveva perso la fede dopo aver visto in guerra “il volto di
un giovane con gli occhi crepati”, non ha dubbi.
“Paneloux
ha ragione –disse Tarrou- quando all’innocenza fanno crepare gli cchi, un
cristiano deve perdere la fede o accettare che crepino gli occhi anche a lui.
Paneloux non vuole perdere la fede, andrà sino in fondo. Questo ha voluto
dire”.
Osservazione
questa che consentirà di capire ciò che accadrà successivamente nel
comportamento di Paneloux che “sembrò incomprensibile” a quanti gli stavano
vicino. Si ammala, ha la febbre, ma non
è la peste, lui ne conosce bene i sintomi. La vecchia signora presso la quale è
ospite (“frequentatrice di chiese e ancora immune alla peste”) gli propone di
chiamare un medico, insistentemente e ripetutamente, ma lui rifiuta. Una
mattina però si ritrovò in condizioni pietose e chiese di essere portato
all’ospedale, dove lo raggiunse Rieux. Il dottore constatò che non aveva
nessuno dei sintomi della peste, ma nel dubbio lo doveva isolare. In ogni caso
gli sarebbe stato vicino, e glielo disse “con dolcezza”. Paneloux lo guardò,
quindi
“sillabò
difficilmente, in modo ch’era impossibile sapere se lo dicesse con tristezza o
no: ‘Grazie. Ma i religiosi non hanno amici; essi hanno posto ogni cosa in Dio’.
Si
fece poi dare il crocifisso che stava a capo del letto e non lo lasciò più. “La
mattina del giorno dopo lo trovarono morto, quasi riverso fuori dal letto, il
suo sguardo non esprimeva nulla. Sulla sua scheda fu scritto: ‘Caso dubbio’. La
sua sembra quasi una morte in parallelo con quella del ragazzo, morto anch’egli all’ospedale in isolamento e “nella
buca delle coperte in disordine, rimpicciolito di colpo”.
Poteva
finire anche a questo punto il romanzo di Camus, e l’autore stesso ce lo lascia
quasi intendere. Lo fa scrivere quale cronaca
dei fatti al dottor Rieux, “testimone fedele” e consapevole “che non
c’era una sola sofferenza sua che non fosse anche quella degli altri” e che
“decisamente, egli doveva parlare per tutti”. Solo di uno però non poteva
parlare, di Paneloux, riconoscendo che è giusto “che la cronaca termini su di
lui, che aveva un cuore ignaro, ossia solitario”.
Rieux
scrive
“per
non essere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore degli appestati,
per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza che gli erano
state fatte, e per dire semplicemente quello che si impara in mezzo ai
flagelli, e che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da
disprezzare”.
Ma
sa anche che la sua non sarà mai la cronaca di una vittoria definitiva, ma solo
la testimonianza di quanto avrebbero dovuto ancora fare “tutti gli uomini che
non potendo essere santi e rifiutandosi di ammettere i flagelli, si sforzano di
essere dei medici”. Chiamato a testimoniare una sorta di delitto, il medico si
è messo cioè dalla parte della vittima, unendosi ai suoi concittadini nelle tre
sole certezze comuni: l’amore, la sofferenza, l’esilio.
Certo,
arriva anche la fine della pestilenza e nella città di Orano si levano gridi di
allegria, ma Rieux è consapevole che si tratta di un’allegria che è sempre
minacciata. Lui medico sa, diversamente dalla folla, “che il bacillo della
peste non muore né scompare mai”, sa che può restarsene come addormentato per
decine di anni ad aspettare paziente in camere, cantine, valige, e proprio per
questo sa che potrà sempre arrivare un giorno in cui,
“sventura
e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi sorci per
mandarli a morire in una città felice”.
Certezza,
e profezia, quella finale del dottor Rieux che non lascia spazio a illusioni.
La peste, cioè il Male, sta sempre in agguato, pronta a seminare terrore e
morte. Del resto cosa “vuol dire la peste? È la vita, ecco tutto”.
NOTA
FINALE
Camus
conosce per esperienza l’assurdità del Male. Giovanissimo viene colpito dalla
tubercolosi, all’epoca inguaribile, malattia che lo costringerà a lasciare le
sue due vere passioni, il calcio (era un promettente portiere, al punto che ne La peste non può fare a meno di creare
un personaggio, minore, Gonzales, esperto centro-mediano, di quelli cioè che
hanno come compito “distribuire il gioco”) e il teatro (Camus giovane era anche
attore). E altrettanto assurda dobbiamo considerare la sua stessa fine,
avvenuta per incidente stradale con l’editore Michel Gallimard, che stava alla
guida, morte che lui aveva considerato tra le più assurde che potessero capitargli,
anche se per quella morte fu avanzata l’ipotesi che dietro ci fosse la mano del
KGB per le sue ripetute denunce dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Tra
l’altro Camus per quel viaggio si era procurato il biglietto per farlo in treno
anziché in auto.