sabato 25 aprile 2020

Lettera a una professoressa da un collega in DaD (Didattica a Distanza), di Bruno Trevellin


Limena, 25 aprile 2020
Lettera a una professoressa da un collega in DaD (Didattica a Distanza), di Bruno Trevellin


Cara collega,
in questo periodo in cui siamo costretti alla cosiddetta didattica a distanza, mi sembra quasi naturale tornare sulle pagine di quel libro ‘rivoluzionario’ nato dall’esperienza di don Milani nel lontano ’67. Aiuta a riflettere ancora sulla scuola e sul ruolo dei docenti oggi. Se don Milani lo cita anche l’attuale ministro della PI, possiamo ben farlo anche noi, dipendenti del suo Ministero. “Siete eroi anonimi”, ci ha scritto di recente, riconoscendo che stiamo “lavorando con ogni mezzo” per far sì che gli alunni “non perdano il contatto con la scuola” dalla quale, come diceva don Milani, citato dal Ministro “‘attendono di essere fatti eguali”. Sappiamo che non è così, che non è ancora così. Sappiamo che la scuola non è uguale in ogni angolo del Paese (lo dicono i dati Invalsi). Così come sappiamo che non sarà la didattica a distanza a generare uguaglianza o ad arginare la dispersione scolastica ufficiale e latente. Però la situazione è grave e lo rimarrà a lungo, a quanto pare, e perciò ogni sforzo e ogni tentativo vanno intrapresi. Anche dal fango di una palude nascono i giunchi.
Voglio partire però da una semplice quanto significativa ed emblematica (e forte) frase contenuta in quel libro di Barbiana. “La scuola sarà sempre meglio della merda” scrive Lucio, che aveva 36 mucche, proprio in Lettera a una professoressa. Lucio era uno degli alunni di don Milani e le mucche le aveva per davvero e per lui l’alternativa alla scuola era solo il lavoro in stalla con suo padre dalle sei del mattino alle sei di sera. Conosco, cara collega, quel lavoro; l’ho visto fare a mio nonno per tante estati, quando andavo a trovarlo per le vacanze più di cinquant’anni fa. Si alzava all’alba e finiva proprio al tramonto!
Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole” continua Lucio, rivolto alla prof. che nella scuola pubblica bocciava tranquillamente i figli dei contadini. Era proprio così, allora: chi era ultimo in partenza restava sempre ultimo, e senza la prospettiva di un traguardo. No, oggi, almeno in Italia, non è più così, siamo più attenti alle esigenze degli ultimi. E anche la civiltà contadina non c’è più, anche se mi sa che è solo cambiato il tipo di ‘merda’-scusami se insisto con questo termine così poco scolastico, così poco educato, così poco urbano- in cui i ragazzi rischiano di rimanere impantanati.
Mi chiedo: ma senza la scuola, anche a distanza, dove sarebbero oggi loro, i ragazzi? Non certo con la forca in mano, quella da stalla, a quattro punte, che io ho fatto in tempo a maneggiare, ma sempre e solo con un cellulare tra le dita per rispondere e scrivere quotidianamente centinaia di whatsapp spesso volgari e inutili o postare foto irresponsabili e pericolose in instagram. E allora resistiamo, anche con una didattica a distanza. Didattica ad oltranza si dovrebbe chiamare! Che pone delle questioni: per quanto tempo? Con che valutazioni? Su che registro? Con che esami?
Quanto tempo stavano a scuola quei ragazzi di Barbiana? Sono troppe oggi le nostre 30 ore settimanali? Don Milani non faceva sconti. Alla sua scuola si andava tutti i giorni “dalla mattina presto fino a buio, estate e inverno”, anche di domenica, salvo l’ora per la messa. Registriamo però che sta avvenendo un qualcosa di simile, anche se a parti inverse, nel senso che con la didattica a distanza sono i docenti più che gli alunni a occuparsi di scuola tutte le ore del giorno, compresi i festivi. E questo vale per tutte le materie!
Arredi e strumenti? A Barbiana non c’erano “né cattedre, né lavagna, né banchi…Di ogni libro c’era una copia” e tutti i ragazzi si stringevano sopra quel testo unico e prezioso. Oggi noi non abbiamo una cattedra, facciamo lezione dal salotto o dalla cucina di casa nostra, e non sentiamo nostalgia di quell’arredo per molti aspetti superato da tempo. Oggi di libri nei loro zaini ce ne sono fin troppi, solo che ciò che manca pare sia quel desiderio di starci sopra. Mi sembra, cara collega, che quel ‘mutamento antropologico’ di cui parlava Pasolini, si sia veramente compiuto e che abbia veramente fatto i suoi danni. Lui proponeva addirittura di abolirla la scuola media dell’obbligo perché “vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche” (Corriere della Sera, 18 ottobre 1975). Non c’è quel desiderio non perché manchino i maestri, ma perché questi rischiano di parlare per nulla e senza effetto perché sono purtroppo ben altri ‘i libri’ su cui riversano il loro desiderio i ragazzi di oggi, e sappiamo che non sono quelli digitali.
Trascuratezza, lassismo? Neanche per sogno! “La vita era dura” a Barbiana. “Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare”, scrivono sempre quei ragazzi nella loro lettera. Oggi quasi ci passa la voglia di avanzare certe pretese ‘comportamentali’, se solo pensiamo che per un provvedimento di natura disciplinare anche lieve bisogna organizzare una sorta di processo con tanto di convocazioni, di contestazione degli addebiti, di testimoni e di timori per possibili ricorsi da parte delle famiglie!
Ricreazione? Vacanze? A Barbiana “non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica”, ma i ragazzi là non ne facevano un problema, l’alternativa era solo e sempre il lavoro in stalla. Meglio starsene alla scuola del prete, allora. E in ogni caso loro non avevano da far ricreazione neanche a casa.
Ma i ragazzi odiano la scuola! Così si pensa! Non è vero, scrivono ancora gli alunni di don Milani, “che i ragazzi odiano la scuola e amano il gioco”. Per più di metà non era così e, a dire la verità, anche oggi sento, sentiamo tanta nostalgia dei banchi di scuola anche da parte dei nostri alunni, quelli che incontriamo ogni giorno in streaming. C’è un vecchio desiderio, carsico, che si sta come facendo strada, che sta come riaffiorando: il desiderio di apprendere, di conoscere in una compagnia di amici aiutati da un maestro. Certo non è ancora di tutti, ma di sicuro lo è già per la maggior parte. E sappiamo che è anche il nostro.
Studiare per il registro! Copiare i compiti! No, dai! Semmai invitiamoli a studiare insieme, meglio ancora: ad aiutare gli altri nello studio, ad aiutarsi tra coetanei. Non farseli fare dai genitori o da un docente di ripetizioni a pagamento, i compiti. Copiamo da Barbiana dove i ragazzi diventavano presto maestri: don Milani, da solo, non sarebbe sopravvissuto! Tanto lo sappiamo anche noi che “per scorrere un atlante o spiegare le frazioni non occorre una laurea”. Cercavano insieme su quell’unico libro e “le ore passavano serene”. E poi su che libri li facciamo studiare oggi? Su quelli che chiedono ancora a ragazzi di 12-13 anni di sapere i confini di uno stato –e noi pure glieli chiediamo-, anziché le cause delle condizioni di miseria di una popolazione? Quelli che ti propongono ancora l’Iliade nella traduzione di Vincenzo Monti del 1825? L’abbiamo imparata anche noi più di mezzo secolo fa, la ricordi certamente anche tu, cara collega. È rimasta nei libri di oggi tale e quale, come tante altre cose.
C’è poi l’eterna questione delle bocciature. A Barbiana i bocciati alla scuola pubblica andavano alla media ‘privata’ del prete. Per loro sì che il gioco e le vacanze erano un diritto e la scuola un sacrificio, loro “non avevano mai sentito dire che a scuola si va per imparare e che andarci è un privilegio. Il maestro per loro era uno dall’altra parte della barricata e conveniva ingannarlo. Cercavano perfino di copiare”. Ci misero del tempo per capire che non serviva, perché là, a Barbiana, non c’era registro. Noi invece di registri ne abbiamo oggi di onnicomprensivi e pure di elettronici, di quelli che conservano i dati in secula seculorum. Non dovrebbe più scapparci niente, neanche le uscite per il bagno! Ma ti pare! Ci stiamo riducendo a scrivere anche di questo. Per fortuna che nessuno le andrà mai a leggere informazioni così dettagliate!
Però che tristezza se già allora don Milani e i suoi ragazzi dovevano constatare che quelli della scuola pubblica studiavano invece solo “per il registro, per le pagelle, per il diploma”. Erano cioè già arrivisti a 12 anni, perché “il diploma è quattrini”. Anche adesso non è che sia cambiato, ce lo sentiamo dire, anche dalle famiglie, che al voto ci tengono tanto, più dei figli. Quasi li farebbero loro i compiti al posto dei figli (succede, e non raramente!) per far prendere loro un bel voto, spesso lo sentono come un voto dato a loro come genitori. Mi chiedo e dico: possiamo pensarla, solo pensarla diversamente almeno una volta! In tanti paesi con sistemi educativi avanzati (Svezia, Finlandia) li hanno eliminati da tempo i voti! Un ragazzo, ci diciamo spesso, a scuola deve impegnarsi e far bene perché così si fa nella vita, non perché è in continua competizione con il mondo intero!
Cara collega, mi pare che il libro di Barbiana non sia superato e che semmai sia ancora troppo trascurato, ma per ripeterci quanto oggi sia dura per noi docenti mi pare non possano che essere sottoscritte le considerazioni, queste sì attualissime, di Massimo Recalcati che si leggono nel suo libro L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento.
Dice infatti, e non possiamo che essere d’accordo con lui, che “uno dei problemi della scuola oggi è che gli insegnanti sono oppressi per la maggior parte del tempo da mansioni che esulano completamente dall’attività didattica (…). L’ora di lezione (…) è marginalizzata da attività che esulano dalla didattica in senso stretto, schiacciata sotto la pressa di una valutazione sempre più ridotta a misurazione”, in una sorta di “impeto valutativo” che vuole sempre e solo rendere “tutto misurabile e quantificabile”. Degenerazione decimologica della scuola, la definisce, che non fa altro che riflettere “il culto feticistico del numero e della quantificazione che è un idolo imperante del nostro tempo”. Anziché una “scuola centrata sull’erotica dell’insegnamento”, quello cioè che “non inquadra, non uniforma, non produce scolari, ma che “sa animare il desiderio del sapere”, abbiamo sempre davanti come obiettivo una scuola “performativa della trasmissione delle competenze”.
Illusione tecnologico-cognitivista: morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici, esaltazione delle metodologie dell’apprendimento, accanimento valutativo, burocratizzazione fatale della funzione dell’insegnante che deve sempre più rispondere alle esigenze dell’istituzione e non a quella degli allievi, declino dell’ora di lezione”. Queste le conclusioni di Recalcati, da sottoscrivere. Spesso non sappiamo come uscirne, anzi spesso ci sottomettiamo quasi inconsapevolmente a questo meccanismo elefantiaco che riproduce solo e sempre se stesso. Ne abbiamo fatto esperienza in queste settimane, quando non passava giorno che non ci arrivasse o un decreto ministeriale o una circolare o una nota attuativa.
Noi però abbiamo imparato non solo a sopravvivere, e a resistere, ma a farcela in condizioni estreme come quelle di oggi, abbiamo imparato in poche ore a utilizzare strumenti nuovi, a lavorare in modalità sincrone e asincrone, con aule virtuali, teams, zoom, e-learning. Però è chiaro che non vediamo l’ora di tornare a scuola con i nostri colleghi e con i nostri ragazzi per continuare a svolgere il nostro ruolo di intellettuali, non quello di impiegati sempre alle prese con tabulati e schedine da compilare e che nessuno andrà mai a consultare e neanche a contestare. Perché sappiamo che  l’insegnante di cui la scuola ha bisogno è un intellettuale, perché sappiamo che «gli intellettuali oggi possono abitare solo in quella specie di riserva indiana chiamata scuola», più che nell’accademia”, si legge in un articolo di Avvenire del 17 aprile 2020, proprio perché sappiamo che “una cosa è il ruolo e l’altra la funzione dell’insegnante. C’è certamente il ruolo di chi deve sapere riempire un registro, ma c’è soprattutto «la funzione di chi, adempiendo al proprio mandato, accende la coscienza di un adolescente” e spiega perché vale la pena studiare Dante, studiare il teorema di Pitagora, imparare le lingue degli altri, fermarsi ad ammirare un quadro di Van Gogh, ascoltare una suite di Bach, o anche una canzone di Battiato.
Un caro saluto
Bruno Trevellin
(docente di scuola media, con in classe ragazze e ragazzi della stessa età e anche con lo stesso cuore di quelli di Barbiana)

Per approfondire e capire
Due libri:
1.     Lettera a una professoressa, 1967
2.     M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, 2014
Due film:
1.     Vado a scuola, di Pascal Plisson, 2013
2.     Il ragazzo che catturava il vento, di  Chiwetel Ejiofor, 2019 (anche in Netflix)

 

venerdì 10 aprile 2020

Esilio, sofferenza dell’innocente e silenzio di Dio ne La peste di A. Camus (di Bruno Trevellin)


Esilio, sofferenza dell’innocente e silenzio di Dio ne La peste di A. Camus (di BRUNO TREVELLIN)



Albert Camus (1913-1960), premio Nobel per la Letteratura nel 1957, ambienta il suo romanzo La peste (pubblicato nel 1947) a Orano, cittadina sulla costa algerina che non ha nulla di straordianario e che, anzi, definisce fin dall’inizio decisamente “brutta”. È stata costruita avendo addirittura il mare alle spalle anziché in fronte. I cittadini non pensano ad altro che a lavorare per far soldi, interessandosi soprattutto di commerci e di concludere affari. Certo anche loro amano le donne, il cinema, i bagni al mare, ma riservano questi piaceri solo al sabato sera e alla domenica perché in tutti gli altri giorni della settimana non hanno altro in mente che fare soldi, “molti soldi”. I giovani hanno desideri violenti e brevi, mentre gli anziani hanno per vizi le associazioni bocciofile o i giochi d’azzardo.
Fin dall’inizio Camus sottolinea che per conoscere una città, ogni città, è necessario capire come “vi si lavora, come vi si ama e come vi si muore”. Ebbene, a Orano come altrove gli uomini e le donne o si divorano “nell’atto d’amore o s’impegnano in una lunga abitudine a due” e così “in mancanza di tempo e di riflessione”, si ritrovano  costretti ad amarsi senza saperlo. Ma di più originale a Orano c’è la difficoltà o meglio la scomodità del morire. In una città in cui si dà così tanto peso agli affari, in cui anche il clima si caratterizza per i suoi eccessi, bisogna trovarsi sempre in buona salute, perché a Orano “un malato si trova proprio solo” e ancor peggio viene a trovarsi un moribondo.
Proprio una città con queste caratteristiche viene colpita da una terribile peste in un non meglio precisato 194…  La moria di sorci cui si assiste nelle prime pagine ne è il segnale evidente e temuto.
Protagonista del romanzo è il dottor Bernard Rieux che, prudente all’inizio, non ha poi più dubbi che si tratti proprio della peste, anche se poteva essere poco credibile, visto che in Occidente era scomparsa ormai da tempo. La sua reazione cioè fu la stessa dei suoi concittadini, perché i flagelli sono sì una cosa comune, “ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa” e i flagelli, guerre o pestilenze che siano, colgono sempre impreparati gli uomini e così questi continuano a concludere i loro affari e a progettare i loro viaggi, sentendosi ancora liberi, quando invece “nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli”. Anche per lui cioè il pericolo è agli inizi irreale, pur essendo già morto di peste un primo gruppo di malati, anche perché per un dottore “pochi casi non fanno un’epidemia” e poi, se è solo all’inizio, un flagello come la peste lo si può ancora fermare e “tutto sarebbe andato bene. Le stesse misure adottate dalle autorità all’inizio non sono proprio draconiane. Mirando a non preoccupare più di tanto l’opinione pubblica, annunciano che si tratta solo di “una febbre perniciosa” e che non si può ancora dire che sia infettiva. Ma poi il flagello si afferma decisamente, spazzando via ogni perplessità. Viene dichiarato lo stato di peste e Orano viene chiusa. Una volta serrate le sue porte, tutti gli abitanti sono come presi nello stesso sacco e un sentimento così individuale come la separazione da una persona cara diventa di tutto un popolo e “insieme alla paura, la principale sofferenza” di quello che si presenterà come un lungo periodo d’esilio”. Madri figli sposi amanti si videro di colpo allontanati e senza rimedio alcuno, rimanendo solo i telegrammi per comunicare tra di loro e anche questi ridotti in breve a banali formule del tipo: “Sto bene. Penso a te” e null’altro. Anche chi si fosse messo d’impegno a scrivere lettere, dopo le prime sanguinanti parole uscite dal cuore, si ritrovò a ricopiare le stesse lettere che dopo un certo tempo si svuotarono così di significato, al punto che si finì per preferire “il convenzionale appello del telegramma”. Anche la piccola soddisfazione dello scrivere fu cioè negata.
La prima cosa che portò con sé la peste fu l’esilio, il sentimento dell’esilio inteso come quel vuoto che ci si porta dentro e che si traduce nel “il desiderio irragionevole di tornare indietro” o di “affrettare il cammino del tempo”, cercando di venire a patti con lui, col tempo, in una condizione che si rivela essere la stessa del prigioniero, di colui che è ridotto solo al proprio passato. Gli abitanti di Orano finiscono perciò proprio per provare “la profonda sofferenza di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati, che è vivere con una memoria che non serve a nulla”. Ed è un esilio ancora più amaro perché si tratta di un esilio in patria.

Anche le autorità religiose sono chiamate a fare la loro parte. Organizzano una settimana di preghiere collettive, che terminano la domenica con una messa in onore di san Rocco, patrono degli appestati. L’omelia viene affidata a padre Paneluox, gesuita di “natura focosa e appassionata”, studioso di sant’Agostino (Camus si laureò proprio con una tesi sul santo africano). A un uditorio accorso numerosissimo si rivolge “con una sola frase veemente e martellata:
‘Fratelli miei, voi siete nella sventura, fratelli miei, voi lo avete meritato’.

È questo l’incipit della prima predica di Paneluox, cui ne seguirà una seconda, dai risvolti completamente diversi, e ne vedremo il perché. In questa prima ricorda la peste che Dio manda in Egitto per colpire i suoi nemici, per colpire il Faraone che si oppone ai disegni di Dio e che finirà con l’inginocchiarsi davanti a Lui. La peste che ora stanno patendo a Orano non è che la conseguenza dei peccati di chi vi abita. Ma non vuole privare i suoi uditori di ogni sorta di consolazione e ricorda ai fedeli che in fondo a ogni sofferenza c’è un bagliore di eternità che manifesta la volontà divina, che trasforma il male in bene. Insomma, il padre Paneluox vuole spiegare l’origine divina della peste e il carattere punitivo del flagello. Per lui anzi la peste, si dirà più avanti nel testo, non nella predica, “porta un suo beneficio, che apre gli occhi, che costringe a pensare”.
È proprio Paneloux, almeno in questa parte centrale della narrazione, l’altro vero protagonista del romanzo assieme al dottor Rieux. Solo che per Rieux “bisogna essere pazzi, ciechi o vili per rassegnarsi alla peste” e lui non è credente. All’amico Tarrou che gli chiede espressamente se crede in Dio, risponde infatti senza esitazioni:

“No, ma che vuol dire questo? Sono nella notte, e cerco di vederci chiaro. Da molto tempo ho finito di trovare originale la cosa”.

Da molto tempo ormai Rieux ha a che fare con la morte per lasciarsi ancora prendere da quella domanda e pensando a Paneloux, uomo di studio, dice che lui, Paneloux,

“non ha veduto morire abbastanza: per questo parla in nome d’una verità. Ma il minimo prete di campagna, che amministra i suoi parrocchiani e che ha sentito il respiro dei moribondi la pensa come me. Curerebbe la miseria prima di volerne dimostrare la perfezione”.

Ma allora perché un medico come Rieux dimostra così tanta devozione nel seguire gli appestati se non crede in Dio? Rispondendo all’amico Tarrou, disse, in modo quasi irriverente e blasfemo, che:

“se avesse creduto in un Dio onnipotente avrebbe trascurato di guarire gli uomini, lasciandone la cura a lui. Ma che nessuno al mondo, no, nemmeno Paneloux, che credeva di credervi, credeva in un Dio di tal genere; nessuno infatti si abbandonava del tutto, e in questo almeno, lui, Rieux, credeva di essere sulla via della verità, lottando contro la creazione com’essa è”.

È anzi convinto che

“se l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace”.

Questo considera il suo compito nella vita, questa la sua sfida, condurre pur nella consapevolezza che porterà a vittorie solo e sempre provvisorie. Anche la peste per lui, per Rieux, è infatti solo “un’interminabile sconfitta”, come gli ha ben insegnato la miseria, quella miseria che Camus stesso ben conosce perché vissuta concretamente nella fanciullezza e nella giovinezza. Per lui dunque, diversamente da Paneloux e dai molti moralisti che andavano girando allora per Orano, non è questione di mettersi in ginocchio, come invitava a fare nella sua predica Paneloux, ma di impedire al maggior numero di persone di morire e per farlo egli ritiene che non ci sia che un mezzo: combattere la peste.
Rieux però (e Camus con lui) sa che Paneloux è sicuramente migliore di quella sua prima predica e non nega l’evidenza del peccato tra gli uomini. Lo fa attraverso la vecchia madre spagnola di Marcello e Luigi (in cui possiamo riconoscere la madre stessa di Camus, figlia di immigrati spagnoli, rimasta vedova e in miseria quando Albert non aveva che un anno, essendo il padre morto nella prima battaglia della Marna). I due fratelli dovevano far scappare il giornalista Rambert da Orano. Quella loro madre è una donna che va a messa tutte le mattine e che pur dentro l’imperversare della peste continua a conservare la sua serenità. “Vi è del peccato nel mondo” osserva proprio lei “e allora, per forza”. Camus ne fa una descrizione breve ma profonda. È “magra e attiva, vestita di nero, col volto bruno e rugoso sotto i capelli bianchi molto puliti. Silenziosa, sorrideva vivamente con gli occhi”. È questa vecchia signora che non può fare a meno di chiedere a Rambert, che vuole trovare un modo per fuggire dalla città così da ricongiungersi alla donna che ama: “Lei crede nel buon Dio?” per sentirsi rispondere negativamente. Rambert poi però non scapperà, preferirà rimanere a curare gli appestati, sostenendo che partendo avrebbe provato una vergogna che gli avrebbe guastato l’amore per la sua donna.

Ciò che però risulterà scandaloso per Rieux sarà guardare in faccia, a lungo, l’agonia di un innocente e lo farà proprio assieme a Paneloux che aveva scelto di assistere i moribondi nella casa di quarantena.
Siamo all’episodio centrale del romanzo. Prende la peste il figlio del giudice Othon e tutta la famiglia viene messa in quarantena. Il ragazzo viene portato all’ospedale, in una ex aula scolastica con dieci letti. Rieux, assistito da Paneloux, Rambert e Tarrou, non dai genitori del ragazzo che si trovavano appunto in quarantena e separati l’uno dall’altra, giudicò subito il caso disperato. Ma Camus vuole dare una descrizione lunga e particolareggiata di tutte le pene sofferte dal ragazzo.

“Il piccolo corpo si lasciava divorare dall’infezione senza reagire per nulla. Minutissimi bubboni, dolorosi, ma appena formati, bloccavano le articolazioni delle gracili membra. Era un vinto, sin dal principio (…). Con gli occhi chiusi nella faccia scomposta, coi denti stretti sino al limite delle forze, immobile nel corpo, girava e rigirava la testa da dritta a manca, sul capezzale senza lenzuola (…). Il dottore stringeva con forza la sbarra del letto in cui gemeva il ragazzo; non lasciava con gli occhi il piccolo malato, che s’irrigidì all’improvviso e, coi denti di nuovo stretti, s’incavò un poco all’altezza della vita, aprendo lentamente le braccia e le gambe. Dal corpicino, nudo sotto la coperta militare, saliva un odore di lana e d’acre sudore (…). Di bambini, ne avevano ormai veduti morire: il terrore, da mesi non sceglieva affatto; ma non avevano ancora seguito le loro sofferenze minuto per minuto, come stavano facendo dalla mattina. E, beninteso, il dolore inflitto a quegli innocenti non aveva mai finito di sembrarli quello che in verità era, ossia uno scandalo. Ma sino ad allora si erano scandalizzati astrattamente, in qualche modo: mai avevano guardato in faccia, sì a lungo, l’agonia di un innocente”.

Il testo prosegue ancora a lungo nel descrivere l’agonia atroce del ragazzo, in una sofferenza che sembra non voglia mai finire. A un certo punto, non sopportando più quel dolore, il padre Paneloux “guardò quella bocca infantile, insozzata dalla malattia, piena d’un grido di tutti gli evi” e, lasciandosi scivolare in ginocchio, lo sentirono dire:

“Mio Dio, salva questo ragazzo”.

Il ragazzo però non viene salvato, non c’è nessun miracolo. Il suo grido di dolore anzi s’indebolisce un poco alla volta per poi finire “con la bocca aperta, ma muta”, “rimpicciolito di colpo, con resti di lacrime sul viso”. Rieux esausto e incapace di sopportare la scena, uscì dalla stanza non senza aver fatto notare con collera proprio a Paneloux:

“Questo qui, almeno, era innocente, lei lo sa bene!”

Raggiunto da Paneloux, si scusa subito per il tono usato con lui, dicendo che la stanchezza lo faceva impazzire e che ormai c’erano ore in cui non sentiva che la sua rivolta.

“E’ rivoltante in quanto supera la nostra misura. Ma forse dobbiamo amare quello che non possiamo capire”,

gli suggerisce Paneloux, ma Rieux, alzandosi di scatto dalla panca su cui erano seduti, “con tutta la forza e la passione di cui era capace” e scuotendo la testa, gli obbietta che non può essere d’accordo.

“No, padre, io mi faccio un’altra idea dell’amore; e mi rifiuterò sino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati”.

Sul viso di Paneloux a quel punto passò prima un’ombra di rivolta, poi:

“Dottore, -fece con tristezza- ora ho capito quello che chiamano grazia”.

Al che subito Rieux riprende:

“E’ quello che non ho, lo so bene. Ma non voglio discuterne con lei. Noi lavoriamo insieme per qualcosa che riunisce al di là delle bestemmie e delle preghiere. Questo solo è importante”.

Paneloux gli fa notare che anche lui, Rieux, in fondo  “lavora per la salvezza dell’uomo”, ma per il dottore “la salvezza dell’uomo è un’espressione troppo grande” e lui non va così lontano, interessandogli dell’uomo la salute, “prima di tutto la sua salute”.
Paneloux, come Camus, ha studiato sant’Agostino, doctor gratiae, conosce bene la dottrina sulla grazia del vescovo di Ippona (città dell’Algeria come Orano), sa che senza la grazia non c’è salvezza, ma solo ora lo ha anche capito, vedendo non una semplice morte, ma la morte atroce di un ragazzo.

Rieux tuttavia rimase pensieroso,  si scusa per quel suo scatto di prima, assicurandolo che non si ripeterà e Paneloux gli stringe la mano constatando con tristezza che non era riuscito a persuadere il dottore sul fatto che forse dobbiamo amare ciò che non riusciamo a capire.

“Che importa? –disse Rieux- Quello che odio, è la morte e il male, lei lo sa. E che lo voglia o no, noi siamo insieme per sopportarli e combatterli”.
E, trattenendo la mano di Paneloux,

“Lei vede, -disse evitando di guardarlo- Dio stesso ora non ci può separare”.

Sopportare e combattere la morte e il male è ciò che tiene insieme dunque Rieux e Paneloux, il medico e il gesuita, e su questo, il primo ne è certo, neanche Dio li potrà separare. Ma è Paneloux a cambiare, proprio da quel giorno in cui aveva visto e assistito alla morte del ragazzo. Non aveva lasciato il suo lavoro tra gli appestati, mettendosi anzi al primo posto tra quelli che erano impegnati nei soccorsi, “tra i salvatori”, come vengono chiamati, e anzi “gli spettacoli di morte non gli erano mancati” e pur protetto dal siero, non gli era estraneo il pensiero della propria morte. Sarà proprio sotto l’impressione di quel fatto che preparerà la sua seconda predica, quella alla quale invita a essere presente anche Rieux. Si ritrovò con meno uditori della prima volta, non solo perché le persone avevano cominciato a disertare i doveri religiosi o perché si abbandonavano a una vita profondamente immorale, ma soprattutto perché avevano “sostituito le pratiche ordinarie con superstizioni poco ragionevoli”, preferendo per esempio portare medagliette protettive o amuleti di san Rocco anziché andare a messa, oppure facendo ricorso alle profezie, di Nostradamus, di santa Odila.
Parlò dal pulpito con un tono più dolce e riflessivo di quello della prima predica, con anche una certa esitazione e, fatto curioso, non usò più il pronome ‘voi’, ma ‘noi’. Nella predica disse “che non bisognava tentare di spiegarsi lo spettacolo della peste, ma cercare di imparare quello che si poteva imparare” perché ci sono

“cose che si potevano spiegare riguardo a Dio e altre che non si potevano. Certamente vi erano il bene e il male e, in generale, ci si spiegava agevolmente quello che li separava; ma nell’ambito del male cominciava la difficoltà. C’erano, a esempio, il male apparentemente necessario e il male apparentemente inutile. C’erano Don Giovanni sprofondato agli Inferi e la morte di un bambino. Se infatti è giusto che un libertino sia fulminato, non si capisce la sofferenza dell’innocente”.   

La predica è cioè pensata e pronunciata sotto l’influenza dell’episodio del ragazzo morto. Anzi, proprio perché non c’è niente al mondo di più importante della sofferenza di un bambino e dell’orrore che si porta dietro, bisogna trovarne le ragioni. È duro Paneloux duro nella sua seconda predica:

“Fratelli miei, il momento è venuto. Bisogna tutto credere o tutto negare. E chi mai, tra di voi, oserebbe tutto negare?”.

A queste parole Rieux pensò che il padre stesse rasentando l’eresia, ma il prete sa, ci avverte Camus, che “la religione del tempo di peste non poteva essere la religione di tutti i giorni”, quella più indulgente e classica. Per Paneloux è Dio stesso che “negli eccessi della sventura” vuole l’anima eccessiva, mettendo le anime in una sventura tale da obbligarle

“a ritrovare o assumere la più grande virtù, quella del Tutto o Nulla”.

La sofferenza di un bambino era umiliante, ma proprio per questo bisognava entrarci e, cosa non facile da dire per Paneloux, “bisognava volerla in quanto Dio la voleva”. Solo così un cristiano “non avrebbe risparmiato nulla”, solo così “avrebbe scelto di tutto credere per non essere ridotto a tutto negare”, solo così “avrebbe saputo abbandonarsi alla volontà divina, anche se incomprensibile”; non si sarebbe cioè più potuto dire: “Non capisco questo, ma è inaccettabile”, perché invece

“bisognava slanciarsi al cuore di quell’inaccettabile che ci era offerto, e proprio per stabilire la nostra scelta. La sofferenza dei bambini era pane nostro amaro, ma senza questo pane la nostra anima sarebbe perita di fame spirituale”.

Non c’era proprio una via di mezzo nella peste: o si odia Dio o lo si ama. Certo, non si trattava di fare come i cristiani dell’Abissinia di secoli prima, che vedevano nella peste uno strumento per guadagnarsi l’eternità al punto che si avvolgevano nelle lenzuola degli appestati pur di morire ad ogni costo, in una sorta di “furore di salvezza” non raccomandabile. Questo aveva già detto Paneloux nella sua prima predica. E non si doveva neanche arrivare a comportarsi come i monaci del Cairo che, per evitare il contagio, distribuivano la comunione prendendo la particola da mettere in bocca ai fedeli con delle pinzette, in una specie di paura, pur umana, che era arrivata a travolgerli. Bisognava semmai essere come quel monaco di Marsiglia che dopo aver visto morire di peste settantasette confratelli e dopo aver assistito alla fuga di tre di loro scelse di rimanere solo. Lo gridò dal pulpito Paneloux:

“Fratelli miei, bisogna essere colui che resta!”.

Che fare allora? Non ha dubbi Paneloux:

“Bisognava soltanto cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentare di fare il bene. Ma per il resto bisognava restare, e accettare di rimettersene a Dio, anche per la morte dei bambini, e senza cercare un personale ausilio”.

E a tal proposito ricordò, per sé sicuramente, la figura del vescovo Belzunce di Marsiglia che, dopo essersi dato tanto da fare durante la peste, convinto che non ci fosse più rimedio, si fece murare in casa per salvarsi, sollevando l’ira dei suoi fedeli dei quali era stato fino a poco prima l’idolo, al punto che arrivarono a gettargli sopra i muri i corpi morti degli appestati per infettarlo. Aveva cioè voluto, in un momento di debolezza, isolarsi dal mondo della morte e i morti, per contrappasso, finirono per cadergli addosso. Quel vescovo, pur così premuroso, non aveva ancora capito “che non c’è isola nella peste”.  

“Fratelli miei, -disse infine Paneloux, annunciando che stava per concludere- l’amore di Dio è un amore difficile: suppone un totale abbandono di se stessi e lo sdegno per la propria persona. Ma lui solo può cancellare la sofferenza e la morte dei bambini, lui solo in ogni caso può renderla necessaria, in quanto è impossibile capirla e non si può che volerla. Ecco la difficile lezione che volevo dividere con voi; ecco la fede, crudele agli occhi degli uomini, decisiva agli occhi di Dio, a cui bisogna avvicinarsi (…) la verità sorgerà dall’ingiustizia apparente”.

Termina la sua omelia ricordando che è proprio per questo che in molte chiese del sud della Francia “gli appestati dormono da secoli sotto le lastre del coro e i preti parlano al disopra dei loro sepolcri, e lo spirito ch’essi propagano sorge da quella cenere a cui anche i bambini hanno portato la loro parte”.

Ma che predica è questa di Paneloux? Soprattutto, cosa voleva dire? Appena fuori di chiesa Rieux ha modo di sentire i commenti di un vecchio prete e di un giovane diacono. Il primo elogia l’eloquenza del gesuita, ma critica l’arditezza del suo pensiero che rischia di provocare “più inquietudine che forza”. Il diacono dice di conoscere bene il padre Paneloux ed è convinto che, conoscendone l’evoluzione del pensiero, si sarebbe fatto ancora più ardito, al punto da non ricevere l’imprimatur. In particolare, il diacono si è fatto l’idea che è una contraddizione che un prete consulti un medico. Chi però sembra aver colto nel segno le parole della predica è Tarrou, informato da Rieux su quello che era stato il discorso di quella seconda omelia. Tarrou, che conosce un prete che aveva perso la fede dopo aver visto in guerra “il volto di un giovane con gli occhi crepati”, non ha dubbi.

“Paneloux ha ragione –disse Tarrou- quando all’innocenza fanno crepare gli cchi, un cristiano deve perdere la fede o accettare che crepino gli occhi anche a lui. Paneloux non vuole perdere la fede, andrà sino in fondo. Questo ha voluto dire”.

Osservazione questa che consentirà di capire ciò che accadrà successivamente nel comportamento di Paneloux che “sembrò incomprensibile” a quanti gli stavano vicino.  Si ammala, ha la febbre, ma non è la peste, lui ne conosce bene i sintomi. La vecchia signora presso la quale è ospite (“frequentatrice di chiese e ancora immune alla peste”) gli propone di chiamare un medico, insistentemente e ripetutamente, ma lui rifiuta. Una mattina però si ritrovò in condizioni pietose e chiese di essere portato all’ospedale, dove lo raggiunse Rieux. Il dottore constatò che non aveva nessuno dei sintomi della peste, ma nel dubbio lo doveva isolare. In ogni caso gli sarebbe stato vicino, e glielo disse “con dolcezza”. Paneloux lo guardò, quindi

“sillabò difficilmente, in modo ch’era impossibile sapere se lo dicesse con tristezza o no: ‘Grazie. Ma i religiosi non hanno amici; essi hanno posto ogni cosa in Dio’.

Si fece poi dare il crocifisso che stava a capo del letto e non lo lasciò più. “La mattina del giorno dopo lo trovarono morto, quasi riverso fuori dal letto, il suo sguardo non esprimeva nulla. Sulla sua scheda fu scritto: ‘Caso dubbio’. La sua sembra quasi una morte in parallelo con quella del ragazzo, morto  anch’egli all’ospedale in isolamento e “nella buca delle coperte in disordine, rimpicciolito di colpo”.

Poteva finire anche a questo punto il romanzo di Camus, e l’autore stesso ce lo lascia quasi intendere. Lo fa scrivere quale cronaca  dei fatti al dottor Rieux, “testimone fedele” e consapevole “che non c’era una sola sofferenza sua che non fosse anche quella degli altri” e che “decisamente, egli doveva parlare per tutti”. Solo di uno però non poteva parlare, di Paneloux, riconoscendo che è giusto “che la cronaca termini su di lui, che aveva un cuore ignaro, ossia solitario”.

Rieux scrive

“per non essere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza che gli erano state fatte, e per dire semplicemente quello che si impara in mezzo ai flagelli, e che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”.

Ma sa anche che la sua non sarà mai la cronaca di una vittoria definitiva, ma solo la testimonianza di quanto avrebbero dovuto ancora fare “tutti gli uomini che non potendo essere santi e rifiutandosi di ammettere i flagelli, si sforzano di essere dei medici”. Chiamato a testimoniare una sorta di delitto, il medico si è messo cioè dalla parte della vittima, unendosi ai suoi concittadini nelle tre sole certezze comuni: l’amore, la sofferenza, l’esilio.
Certo, arriva anche la fine della pestilenza e nella città di Orano si levano gridi di allegria, ma Rieux è consapevole che si tratta di un’allegria che è sempre minacciata. Lui medico sa, diversamente dalla folla, “che il bacillo della peste non muore né scompare mai”, sa che può restarsene come addormentato per decine di anni ad aspettare paziente in camere, cantine, valige, e proprio per questo sa che potrà sempre arrivare un giorno in cui,

“sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi sorci per mandarli a morire in una città felice”.

Certezza, e profezia, quella finale del dottor Rieux che non lascia spazio a illusioni. La peste, cioè il Male, sta sempre in agguato, pronta a seminare terrore e morte. Del resto cosa “vuol dire la peste? È la vita, ecco tutto”. [1]

NOTA FINALE
Camus conosce per esperienza l’assurdità del Male. Giovanissimo viene colpito dalla tubercolosi, all’epoca inguaribile, malattia che lo costringerà a lasciare le sue due vere passioni, il calcio (era un promettente portiere, al punto che ne La peste non può fare a meno di creare un personaggio, minore, Gonzales, esperto centro-mediano, di quelli cioè che hanno come compito “distribuire il gioco”) e il teatro (Camus giovane era anche attore). E altrettanto assurda dobbiamo considerare la sua stessa fine, avvenuta per incidente stradale con l’editore Michel Gallimard, che stava alla guida, morte che lui aveva considerato tra le più assurde che potessero capitargli, anche se per quella morte fu avanzata l’ipotesi che dietro ci fosse la mano del KGB per le sue ripetute denunce dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Tra l’altro Camus per quel viaggio si era procurato il biglietto per farlo in treno anziché in auto.




[1] Saggio elaborato sulla IV edizione Bombiani del 1957