TESTORI E LA LINGUA DEGLI ANGELI
Ai supremi momenti di conciliazione tra agape ed
eros, che Giovanni Testori ha sempre sognato come il vertice stesso della
poesia, la civiltà europea deve i suoi libri e le sue figure più intense
(M.
Chagall, Abramo e i tre angeli)
Malgrado
la sua inesausta passione letteraria, Giovanni Testori non ama i poeti, come
Virgilio e Petrarca, che danno ai loro versi quella perfezione formale, quel
palpito chiuso e levigato, quel tocco fuso e musicale, che anticipano per i
nostri libri l' eternità della perfezione. La poesia che egli predilige è
indifesa, lacerata, sconvolta da grandi squarci: si sacrifica, e con sé stessa
sacrifica la letteratura, per lasciar irrompere da quegli squarci la voce dell'
altro mondo. Pieno di reverenza e di timore, Testori ha atteso molto prima di
confrontarsi con san Paolo, con la Prima lettera ai Corinzi (Longanesi, pagg.
128), che venera ancor più della Lettera ai Romani. In quel testo trova tutto
ciò che chiede alle pagine di un libro: le verità della fede, colte nel momento
incontaminato della loro scoperta; una grande cultura letteraria, come quella
greca, che viene assalita da un' altra lingua e da un' altra religione, e ci
appare ancora sconvolta, ma capace delle illuminazioni più dense e radiose.
Siccome è
un poeta, Testori traduce la Lettera ai
Corinzi in poesia, scoprendo il fuoco e il ritmo nascosti nelle righe
prosastiche di san Paolo. Non ha simpatia per la tradizione della poesia
italiana, da Petrarca a Montale. Così, in questi versi, ci accompagna tutto
ciò che sta ai margini della tradizione letteraria italiana: il Dante più
raziocinante: il balbettio mistico di Iacopone: le torsioni e gli inceppi
michelangioleschi: il profumo dei grandi oratorii barocchi: qualche intonazione
da canzonetta pastorale; e l' ultimo Leopardi. Mai come questa volta, sebbene
in apparenza tenti una semplice traduzione, Testori ha scoperto la lingua
nativa della propria poesia. Se le lingue degli uomini conosco e pur quelle
degli angeli e non ho carità, cembalo sono che appena tinnisce, bronzo che
suono non dà. Se profetare so, se i misteri tutti e intera la scienza a mio
agio conosco, se così grande ho fede, da smuovere le montagne e non ho carità,
sono nullità. Testori ha tradotto la
Prima lettera ai Corinzi soprattutto perché conteneva il passo più famoso, e
misterioso, di san Paolo: quello sull' amore (preferisco tradurre così
agape, invece di carità), che comincia con questi suoni di bronzi e di cembali,
forse troppo flebili forse troppo fragorosi.
Ma cos'è l'amore, per san Paolo? Come se
volesse nasconderlo, o velarlo, o volesse giungere al suo obbiettivo partendo
dal punto opposto, egli ricorre specialmente a definizioni negative. La prima
non ci stupisce. L' amore è il contrario
dell' "amore di sé", che La Rochefoucauld pose a fondamento del
suo amaro ed elegante edificio; e dunque "non si infervora di passione,
non si vanta con parole, non si gonfia di superbia, non cerca il proprio
vantaggio, non si lascia eccitare dall' ira, non computa il male [ricevuto dagli
altri]". Tutto è consueto, ci sembra: anche se doveva sembrare meno
consueto ai cristiani provenienti dall' ebraismo, i quali sapevano come l'
amore giudaico fosse geloso, appassionato, possessivo, esclusivo. "Forte
come la morte è l' amore, / tenace come l' inferno il desiderio", aveva
detto il Cantico dei Cantici. Ci stupisce molto di più la seconda definizione
negativa. Con la sua rapidità violenta e paradossale, che distrugge con un
gesto morali e tradizioni secolari, san
Paolo ci ricorda che l' amore non è affatto quella carità attiva, che i
comandamenti e i Vangeli raccomandano. Non è fare il bene a questo o
quello: non è una virtù pratica e sociale, non è un' azione misurabile - e
nemmeno compiere le opere più sublimi, come dare ai poveri tutto quello che
possediamo o salire sul rogo in nome di Cristo. E, dunque, non è neanche, benché il suo nome sembri voler dire proprio questo,
avere affetto, tenerezza, compassione
per gli altri: non è "ama il tuo prossimo come te stesso". San
Paolo non potrebbe essere più perentorio. Sebbene tanti lo abbiano confuso con
un' etica, il cristianesimo (almeno quello della Lettera ai Corinzi) non è un'
etica; e su di esso non è possibile costruire nessuna civiltà stabilita,
nessuna società con doveri, obblighi, opere, ricompense. San Paolo continua il suo elogio, proclamando che l' amore è superiore
a tutte le altre virtù umane, e ne costituisce il cuore e la musica segreta.
Non c' è nulla sopra di esso: né la profezia della tradizione ebraica; né l'
ineffabile lingua degli angeli, che i Corinzi credevano di intonare nell'
estasi: né la speranza; né la conoscenza - che in questo mondo è così mediocre,
perché conosciamo Dio e i misteri solo confusamente, come in uno specchio,
"dentro enigmi".
L'amore è superiore persino alla fede. Nel
Vangelo di Matteo, Cristo aveva detto: "Se avrete fede quanto un granello
di senape, potrete dire a questo monte: ' spostati da qui a lì' - ed esso si
sposterà. Niente vi sarà impossibile"; e san Paolo - proprio lui che aveva
costruito tutta la sua grandiosa teologia sulla fede e la nostra
giustificazione per fede - con uno dei suoi meravigliosi capovolgimenti,
risponde: "Se avessi tutta la fede, tanto da poter trasportare i monti, ma
non avessi l' amore, non sarei nulla". Tutte queste virtù - la profezia,
il dono delle lingue, la speranza, la conoscenza e la fede - avevano, secondo
san Paolo, una deficienza comune. Erano virtù di questo mondo intermediario,
nel quale viviamo "gemendo" e "aspettando ansiosamente la
redenzione", senza vedere Dio fuori dallo specchio adombrato. Imperfetta è
la nostra profezia: imperfetto il nostro dono delle lingue: imperfetta la
nostra enigmatica e frammentaria conoscenza; imperfette la speranza e la fede,
che non scorgono mai Dio, oggetto del loro desiderio. Alla fine dei tempi, quando con un tocco leggerissimo della mano Dio
aprirà le porte del suo regno invisibile, tutti questi doni verranno meno, come
neve sotto la luce del sole. Così, dopo un lungo circuito, grazie alla sua
acutissima arte dialettica, san Paolo ci ha portato accanto all' essenza dell'
amore. In questo mondo attuale e
intermediario, dove tutte le virtù sono monche, l' amore è l' unica virtù
perfetta, piena e assoluta, come sarà perfetta, alla fine dei tempi, la visione
diretta (non "nello specchio", non "dentro enigmi"), che
avremo della luce di Dio. Non dobbiamo attendere e rinviare indefinitamente
l' attesa, come la speranza e la fede ci consigliano.
Nell' amore, tutto è già qui: Dio è già dentro
di noi. Oggi non sappiamo altro di lui: non portiamo in noi
una scintilla luminosa del suo essere, né lo conosciamo, né lo contempliamo
nell' estasi, né lo realizziamo con le nostre azioni: lo incontriamo soltanto
nell' amore, che ci colma in questo stesso momento, ed esce da noi come una
sovrabbondante acqua soave. Ma se l' amore è il presente assoluto, è anche l'
assoluto futuro. Alla fine dei tempi, quando si spalancheranno le porte del
Regno, le profezie e la speranza e la fede si compiranno, e dunque verranno
meno. Non ci sarà più nessuna virtù umana. Nel vuoto della fine, ci sarà
soltanto l' amore, che in quel momento non sarà altro che la Visione piena,
meticolosa e radiosa del volto di Dio. Appena giunge a questa rivelazione, san
Paolo ci abbandona. Vorremmo sapere di più: vorremmo che egli ci descrivesse
con minuziosa attenzione, come Platone e i greci avevano rappresentato Eros, la
figura, la qualità e gli effetti di Amore. Ma san Paolo non può dirci altro:
come potrebbe indicarci l' essenza nascosta di amore, se questa essenza è
quella di Dio? Egli si limita a rivelarci qualche segno. Se vogliamo
riconoscere l' apparizione di Amore nel mondo, e non disconoscerlo e
confonderlo con altre figure, dobbiamo ricordarci che è "benigno" e pieno di "decoro". Quando egli
passa, ogni fervore (ogni zelo) di passione si placa; e questa mitezza e quiete
ci lasciano presentire che il ritmo armonioso, il quale conosce soltanto la
giustezza del tono, è la chiave dell' universo. Un altro segno è che l' amore "tutto sopporta". Non accusa i
mali compiuti dagli altri o da noi: "copre" o scusa o vela tutte le
azioni e i pensieri malvagi che riempiono il mondo: li supera col pensiero; li
annulla; e così riesce a sopportare il terribile peso della realtà, fino a
quando, con un gesto lieve, essa si scioglierà in quella futura.
Nel Nuovo Testamento e nelle lettere di san
Paolo, c'è un' immensa omissione: una omissione che
testimonia un capovolgimento di civiltà, del quale san Paolo era certo
consapevole. Tra i tre verbi greci che
indicano l' amore - eran, filein, agapan - manca completamente il primo: eran e
il sostantivo Eros. Ora, nella civiltà greca classica ed ellenistica, eran
esprimeva il desiderio, la tenerezza, l' affetto: un desiderio oscuro, che
ispirava tormentose passioni, tormentando instancabilmente le cose animate
"con voluttà e dolorosa delizia": un desiderio inesorabile del corpo
e del cuore; e finiva per trasformarsi nel delirio filosofico, col quale
contempliamo le forme dell' Essere, nel delirio religioso che ci innalza verso
la bellezza degli dei. Nel Nuovo
Testamento, che adotta un verbo inizialmente scolorito come agapan, non c' è
traccia di Eros. Dal nuovo mondo san Paolo estromette sia l'Eros terreno
sia l'Eros celeste: soprattutto la loro fusione e contaminazione, nella cultura
platonica, doveva offenderlo. Non c'era nessuna via per trasformare la nostra
morbida tenerezza sensuale, i nostri affetti impuri e melodici, nella dedizione
verso chi abita nell'alto dei cieli. Se volessimo, potremmo raccontare venti secoli di civiltà cristiana come la storia
della lunga battaglia di Agàpe contro Eros ed Eros contro Agàpe: il puro
ardore divino, che ignora le passioni umane e anticipa il futuro, e la
tenerezza terrena, che si slancia verso gli dei e si identifica con loro nell'
estasi. Forse questa battaglia non si estinguerà mai. Ma dovremmo raccontare anche i momenti di conciliazione e di fusione, tra
i neoplatonici del Medioevo e nel Rinascimento italiano e spagnolo, quando Eros
diventò Agàpe (o Agàpe diventò Eros). In
apparenza era una fusione impossibile: eppure avvenne; e la musica dei versi di
Giovanni della Croce sembra la celebrazione del loro incontro. A questi supremi
momenti di conciliazione, che Giovanni Testori ha sempre sognato come il
vertice stesso della poesia, la civiltà europea deve i suoi libri e le sue
figure più intense.