BRUNO TREVELLIN, L’essenza del padre di
famiglia in Peguy: avventuriero, ostaggio e mistico
In Véronique, Dialogo della storia
e dell’anima carnale Charles Péguy (1873-1914), autore tra i più amati anche da Albino
Luciani (papa Giovanni Paolo I), che lo definisce ‘cantore della speranza’, si
spinge a delle considerazioni sulla vita del padre di famiglia che solo a prima
vista possono sembrare audaci e sorprendenti, quando in realtà non fanno che
confermare l’essenza di un ruolo che né gli intellettuali né i chierici del suo
(e del nostro) tempo riusciranno a cogliere.
In Veronique (opera iniziata nel 1909, ma mai portata a termine dall’autore) è la
storia, Clio, che parla, la “storia che arriva sempre in ritardo”, che sta
sempre alla ricerca di “vane tracce”, limitandosi Veronique, la Veronica della
salita di Gesù al Calvario, ad ascoltare, lei “un’ebrea da niente, una
ragazzina”, che però si è trovata al momento giusto e nel punto giusto a
raccogliere col suo fazzoletto la traccia dell’evento più importante nella
storia dell’umanità. E questo suo ragionamento Peguy lo fa a partire dai
trent’anni di vita passati da Gesù in famiglia, anni di cui i vangeli non
parlano, ma che è “la vita più coinvolta nel mondo che al mondo ci sia” e che
solo per un errore stupido e grossolano si può ritenere “ritirata dal mondo”. È
esattamente il contrario, dice Peguy, che evidentemente parla per esperienza
diretta. È la vita di famiglia a essere la più coinvolta nel mondo, anzi
“c’è un solo avventuriero al mondo, e ciò si vede
soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori
avventurieri non sono nulla, non lo sono per niente al suo confronto. Non
corrono assolutamente alcun pericolo, al suo confronto”.
Nel mondo
moderno tutto sembra organizzato contro di lui, che risulta disprezzato per la
sua stoltezza, per la sua imprudenza, per l’audacia che ha avuto nel mettere su
famiglia, avendo moglie e figli, ma che proprio per questo è un avventuriero,
l’unico vero avventuriero in questo mondo, l’unico che attraversa un’avventura.
Gli altri, quelli che non sono padri, soffrono infatti solo per se stessi, mentre
lui invece soffre per altri, dei quali è responsabile. La moglie e i figli diventano
i suoi ostaggi. Mentre gli altri “possono infischiarsene” di ciò che accade nel
mondo, lui, il padre di famiglia, è invece costantemente coinvolto nel mondo e
non può scantonare.
“Capo e padre di ostaggi, anche lui stesso
è sempre ostaggio”.
Può infatti
accadere di tutto: guerre, rivoluzioni, guerre civili, guerre straniere e gli
altri non rischierebbero che la loro testa. Lui no, perché lui
“è il luogo d’appuntamento di tutte le
tempeste”.
E vi è coinvolto
non solo per il presente e per il futuro, ma
“anche
in tutto il passato, nella memoria, in tutta la storia (…). Niente di quello
che succede, niente di storico è per lui indifferente. Soffre di tutto. Soffre
dappertutto (…). Chi non ha mai avuto un bambino malato non sa cosa sia la
malattia. Chi non ha perso un bambino, che non ha avuto, che non ha visto morto
il suo bambino, non sa cosa sia il dolore. E non sa cosa sia la morte”.
E il suo è
un destino di sconfitta, è condannato a non riuscire. Il peso della famiglia lo
rende inadatto alla corsa. E Peguy non usa mezzi termini per quest’uomo. Un
padre di famiglia è grosso, ha come un tessuto adiposo che lo ostacola in un
mondo, quello moderno, che è solo “concorso e concorrenza”. Così gli altri
corrono e arrivano, lui invece no. E tutti lo disprezzano. In primis i chierici,
essendo lui, il padre di famiglia, così coinvolto nel mondo da risultare il più
lontano dalla regola, dalla clericatura, al punto che un istinto segreto
avverte il chierico che quello là, il padre di famiglia, è il più vicino al pubblico
peccatore.
Contrariamente
a quello che si pensa, non è il celibe a essere un avventuriero, ma il padre di
famiglia,
“colui
che vive non solo alcune avventure, ma una sola, una grande, un’immensa, una
totale avventura; l’avventura più terribile, la più costantemente tragica; la
cui vita stessa è un’avventura”.
Questo fa
di lui il vero avventuriero, caratteristica che non potrà mai essere, appunto,
propria del celibe.
È proprio
questa vita di famiglia che Gesù ha prediletto, vivendola per trent’anni, da
uomo ordinario, gli altri tre essendo tutta un’altra cosa.
“Durante
quei trent’anni era un uomo privato, come tutti noi, un semplice singolo,
viveva la vita di famiglia; (…). Lavorava con le sue mani nella casa di suo
padre. Sappiamo con certezza che era un buon lavoratore. Falegname, lavorava
come falegname nella casa di suo padre falegname”.
Gesù, cioè,
ha scelto una vita che fosse la più coinvolta nel secolo. Anzi, continua Peguy
nella sua riflessione, anche gli ultimi tre anni non sono stati affatto un
ritirarsi dal mondo, ma “un potente, infinito muoversi verso il secolo”, in
quelli che furono veramente anni impegnati nella storia, “anni mistici,
storicamente mistici”, nei quali realizza la fondazione di una “città mistica,
nel secolo, lavorando il secolo per l’eternità”. Era questa la mistica di Gesù:
“nessuna separazione tra secolo e regola”, ma una penetrazione continua,
intima, un’infusione “che raggiunge, tinge, penetra fino in fondo i tessuti
stessi” della carne in modo capillare. In quei tre anni fluì
“una
sorgente mistica infinita, eterna, una sorgente di vita, che si vivifica da sé,
una sorgente di grazia infinita. (…) Chi potrà raccontarti, amico mio, chi ti
ridarà i tre anni di quella storia; durante tre anni storici. (…) I tre anni
della storia più grande. Qui io, la storia, sono proprio insufficiente, lo sai.
È troppo per me. (…) Tutto quello che posso fare io , lo sai, è registrare
qualche risultato. Quando sono bell’e fatti, (…) belli incorniciati, -bell’e
morti”.
Il
testo di CHARLES PEGUY e un saggio di ALAIN FINKIELKRAUT
Da
C. Peguy, Veronique. Dialogo della
storia e dell’anima carnale, p. 65-72, Marietti, 2013
Tutto nel mondo moderno, e
soprattutto il disprezzo, è organizzato contro lo stolto, contro l’imprudente,
contro il temerario,
Chi sarà tanto prode, o tanto temerario?
Contro lo sregolato, contro l’audace, contro l’uomo che ha
tale audacia, avere moglie e bambini, contro l’uomo che osa fondare una
famiglia. Tutto è contro di lui. Tutto è sapientemente organizzato contro di
lui. Tutto si rivolta e congiura contro di lui. Gli uomini, i fatti;
l’accadere, la società; tutto il congegno automatico delle leggi economiche. E
infine il resto. Tutto è contro il capo famiglia, contro il padre di famiglia;
e di conseguenza contro la famiglia stessa, contro la vita di famiglia. Solo
lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente
un avventuriero, corre un’avventura. Perché gli altri, al maximum, vi sono
coinvolti solo con la testa, che non è niente. Lui invece ci è coinvolto con
tutte le sue membra. Gli altri, al maximum, si giocano solo la loro testa, il
che non è niente. Lui invece mette in gioco tutte le membra. Gli altri soffrono
solo per se stessi. Ipsi. Al primo grado. Lui solo soffre per altri. Alii
patitur. Al secondo, al ventesimo grado. Fa soffrire altri, ne è responsabile.
Lui solo ha degli ostaggi, la moglie, il bambino, e la malattia e la morte
possono colpirlo in tutte le sue membra. Gli altri navigano a secco di vele.
Lui solo, qualunque sia la forza del vento, è obbligato a navigare a piene
vele. Tutti hanno vantaggio su di lui e lui non ha vantaggio su nessuno. Si
muove continuamente con i suoi ostaggi, in lungo e in largo tra quei terribili
fortunali. Le cose che accadono, i guai, la malattia, la morte, tutto ciò che
accade, tutti i guai hanno vantaggio su di lui, sempre; è sempre esposto a
tutto, in pieno, di fronte, perché naviga su una larghezza immensa. Gli altri
scantonano. Sono corsari. Sono a secco di vele.
Ma lui, che naviga, che è obbligato a governare la nave su
questa rotta immensamente larga, lui solo non può assolutamente passare senza
che la fatalità si accorga di lui. E allora è lui che è coinvolto nel mondo, e
lui solo. Tutti gli altri possono infischiarsene. Lui solo paga per tutti.
Capo e padre di ostaggi, anche lui stesso è sempre ostaggio. Che importa agli
altri di guerre e rivoluzioni, guerre civili e guerre straniere, l’avvenire di
una società, ciò che accade alla città, la decadenza di tutto un popolo. Non
rischiano mai altro che la testa. Niente, meno di niente. Lui invece non solo
è coinvolto dappertutto nella città presente. Dalla famiglia, dalla sua razza,
dalla sua discendenza da quei bambini è coinvolto dappertutto nella città
futura, nello sviluppo ulteriore, in tutto il temporale accadere della città.
Si gioca la razza, si gioca il popolo, si gioca la società, mette come posta la
società. Si gioca (tutta) la città, presente, passata, a venire. Tale è la sua
posta in gioco. Gli altri scantonano sempre. Sono carene leggere, sottili
come lame di coltello. Lui è la nave grossa, pesante bastimento da carico. È il
luogo d’appuntamento di tutte le tempeste. Tutti i venti del cielo congiurano e
si mettono d’accordo, si abbattono da tutti gli angoli del cielo, accorrono e
si intersecano da tutti i punti dell’orizzonte per assalirlo. Lui scopre alla
sorte, alla fortuna, alla sfortuna che vigila, alla fatalità una larghezza (di
spalle) (su cui abbattersi), una superficie, un volume incredibile. Non è
coinvolto solo nella città presente.
È coinvolto dappertutto nell’avvenire del mondo. E anche in
tutto il passato, nella memoria, in tutta la storia. È assalito dagli scrupoli,
straziato dai rimorsi, a priori, (di sapere) in che città di domani, in quale
ulteriore società, in quale dissoluzione di tutta una società, in quale
miserabile città, in quale decadenza, in quale decadenza di tutto un popolo
lasceranno, consegneranno, domani, stanno per lasciare, entro qualche anno, il
giorno della morte, quei bambini di cui i padri si sentono così
pienamente, così assolutamente responsabili, di cui sono temporalmente i pieni
autori. Quindi per loro nulla è indifferente. Niente di quello che succede,
niente di storico è per loro indifferente. Soffrono di tutto. Soffrono
dappertutto. Solo loro hanno esaurito la sofferenza temporale, tutto il dolore
di chi vive nel tempo. Chi non ha mai avuto un bambino malato non sa cosa sia
la malattia. Chi non ha perso un bambino, chi non ha visto morto il suo bambino
non sa cosa sia il dolore. E non sa cosa sia la morte. E, coinvolti da ogni
parte nelle sofferenze, nelle miserie, in tutte le responsabilità, sono
tutti ingolfati nell’esistenza, sono pesanti e impacciati, sono goffi,
impediti nelle manovre; sembrano deboli e vili; non solo lo sembrano; sono
deboli, sono vili, sono codardi. Nella manovra. Capi responsabili e appesantiti,
carichi e responsabili di una banda di prigionieri, prigionieri essi stessi,
carichi, responsabili di una banda di ostaggi, ostaggi essi stessi, non fanno
un passo che non sia vigliacco, sembrano, sono circospetti, sono prudenti, non
fanno una mossa che non sia sconcertante. E tutti li disprezzano e, quel che è
peggio, hanno ragione a disprezzarli. Gli altri scantonano sempre. Non hanno
bagagli. Vili, scantonano con districamenti politici. Coraggiosi scantonano
con districamenti eroici, con districamenti d’audacia. Temporali, scantonano
verso la carriera e le dominazioni temporali. Spirituali, scantonano, si
defilano verso le osservanze della regola. Storici, scantonano verso le
carriere della gloria. Riescono sempre, sia nella regola, sia nel secolo.
II padre di famiglia è solo, e condannato a non riuscire
affatto. Non può mai scantonare. Deve sempre passare in tutta la sua
larghezza. Ed è molto semplice, non ci passa. Non ci passa mai. Non passa da
nessuna parte. Non riesce né nella regola né nel secolo. Non riesce nella
regola, la regola si oppone. Prima di cominciare. Non riesce nel secolo. Il
secolo si oppone prima, durante, dopo. Non riesce nella politica e non riesce
nell’audacia. È troppo grosso. Ha tutta la famiglia attorno al corpo. È come la
donnola di La Fontaine, ma dopo che è ingrassata. Ha socialmente un grasso, un
tessuto adiposo sociale, che lo rende inadatto alla corsa. Ora, temporalmente
tutto non è altro che corsa, non è altro che concorso e concorrenza. Gli altri
corrono, intanto, gli altri arrivano, quelli magri, fini, sottili, socialmente
scarichi, sgombri di bagagli. Così tutti lo disprezzano; in sua presenza, tra
di loro, lo schermiscono; sordamente, involontariamente congiurano contro di
lui. Più di tutti gli altri, lo disprezzano i preti. Perché hanno questo (di
bello), quando si accaniscono su qualcuno, ci si riaccaniscono di preferenza.
Preferenzialmente. E quello che chiamano la carità.
Bisogna sottolineare attentamente che la vita di famiglia è
la vita più impegnata nel secolo, la vita meno conforme, la meno simpatica, la
meno affine alla regola. Vuol dire lasciarsi prendere, lasciarsi abbindolare
dalle apparenze più grossolane, commettere l’errore più smaccato, e anche
naturalmente il più comune, l’errore più frequente, quello di dire che la vita
pubblica è vivace, e la vita di famiglia è silenziosa, e la regola, la vita
regolare è anche lei silenziosa; e quindi la vita pubblica è non ritirata, e la
vita di famiglia è ritirata, e la regola, la vita regolare è anche lei
ritirata; e concluderne, credere, che sia la vita di famiglia che è vicina alla
vita di regola, apparentata alla vita di regola, e che sia la vita pubblica che
se ne è allontanata. Questo è lasciarsi prendere dalle più grossolane
apparenze. È diametralmente il contrario.
La vita di famiglia è agli antipodi della vita della
regola. Nessun uomo al mondo è coinvolto nel mondo, nella storia e nel destino
del mondo quanto l’uomo di famiglia, tanto quanto il padre di famiglia, così
pienamente, così carnalmente. L’uomo pubblico invece, il vir politicus, non è
affatto coinvolto nel mondo, non è affatto coinvolto nella storia e nel destino
del mondo. Cosa importa all’uomo politico, al demagogo, al tribuno,
all’oratore, al legislatore, all’eloquente, anche all’uomo politico serio,
all’uomo pubblico, all’uomo di Stato, all’uomo di governo, (e a maggior
ragione) al capo di partito (come tali), cosa importa al militare e al giudice,
al generale e al presidente di corte e al presidente di camera, (come tali,
come tali), che importa come tali al funzionario e al magistrato, al generale,
al deputato, al senatore, al giornalista, al pubblicista, all’esattore, e
all’usciere del ministero, cosa importa al signor sindaco; cosa importa come
tale a ogni uomo pubblico delle sorti della città presente, le sorti
ulteriori, la destinazione e il destino; cosa gli importa di cosa sarà di
questo popolo, cosa faremo di questo popolo; vi sono coinvolti solo con la
testa e qualcuno con la gloria; al massimo con l’onore, quando ne hanno:
niente, meno di niente. Non ci rischiano che la testa, al più, al maximum; al
meno, di solito l’avanzamento, la carriera, al più del meno l’apice; miserie.
Gloria temporale, onore temporale; niente, meno di niente. Avanzamento
temporale, carriera temporale, apice temporale, testa temporale; miserie. E le
gioie e le miserie del dominio. E le gioie e le miserie del denaro. Ecco tutto
quello che si giocano. Come tali. Se intanto, se insieme sono padri di
famiglia, cosa estremamente rara, l’operazione è tutta diversa, il
comportamento e l’azione pubblica è tutta diversa, tutta diversa la situazione
anche per così dire topografica, geografica, demografica. Cosa importa loro,
come tali, una rivoluzione, una guerra civile o straniera, un sabotaggio di
tutto un popolo. Una diminuzione, una decrescita; una perdita, forse
irrimediabile; una decadenza, forse irreparabile, irrevocabile. Tutt’al più si
giocano, nel temporale, una gloria del loro nome, la gloria, ulteriore, l’onore
o il discredito sul loro nome. Di solito questo tipo di considerazione li
lascia abbastanza freddi. Sono abbastanza poco sensibili a considerazioni di
questo tipo. Di solito.
Solo il padre di famiglia mette in gioco, rischia, impegna
infinitamente di più nella destinazione del mondo, nel secolo, nella
destinazione di tutto un popolo; nel futuro di una razza. Nel destino di tutto
questo popolo, nell’avvenire di questa razza impegna tutto, mette tutto, la sua
carne e di più; si gioca la razza, si gioca davvero il popolo, si gioca la sua
discendenza. II solo padre di famiglia, il padre di famiglia da solo. Ed è un
pover’uomo. Tormentato da scrupoli, assalito, invaso, tormentato da rimorsi,
per crimini che non ha affatto commesso, che non commetterà mai, che altri
mille, che tutti gli altri commetteranno, sente oscuramente, molto
profondamente, che è lui, in effetti, che è lui davvero il responsabile. Perché
è padre di famiglia. È uno dei casi più significativi che ci siano di responsabilità
senza colpa, di colpevolezza senza colpa. Eppure di responsabilità reale, di
colpevolezza reale; comune; misteriosa; di fatalità, anche; infinitamente più
profonda; segreta; in comunità, in comunione; con la creazione con (tutto) il
mondo; infinitamente più grave delle nostre proprie responsabilità, personali,
particolari, limitate, note, individuali e collettive; infinitamente più
profonda; infinitamente più vicina alla creazione stessa; e quasi (oscuramente
ce ne accorgiamo), quasi infinitamente più giusta, attinente alla creazione
stessa, al mistero, al segreto della creazione; una colpevolezza, allora,
infinitamente più seria delle nostre colpevolezze propriamente criminali.
Per il padre di famiglia (questo è lo stato, costante, uno
stato situazionale; è la sua stessa patente, la sua condizione ab urbe condita,
una volta fondata la famiglia. È la sua stessa definizione, il pane di tutti i
(suoi) giorni, il cruccio delle sue notti. È il midollo, stesso, della sua
vita, il segreto della sua esistenza, la sua regola interiore, la sua regola
esteriore, la regola del suo secolo, la sua regola di secolo. Ed è un
pover’uomo; innocente criminale; innocente responsabile; innocente colpevole;
innocente assalito da scrupoli; innocente tormentato dai rimorsi; legato,
incatenato da ogni parte, mani, piedi, da tutti i lacci, da tutte le catene, è
lui, amico mio, è lui, e lui solo, che ha le relazioni pericolose; confuso,
prigioniero, ostaggio, manette alle mani, ganasce ai piedi, capo, responsabile
dei prigionieri, capo, responsabile degli ostaggi, fa pena, è esposto a tutto,
ai quodlibet, alle ingiurie, al peggio di tutto: a una sorta di riprovazione,
di malevolenza universale, di presa in giro, di tacita ingiuria, (peggiore,
infinitamente più grave di quella formale), perché se è così tacita, se può
essere così sottintesa, come se andasse da sé, per così dire; non vale la pena
di parlarne, perché tutti lo sanno bene; è una cosa intesa, senza che ci si
pensi, una cosa alla quale tutti consentono, a cui tutti danno la mano. È
infinitamente peggio di una cosa infinitamente concertata, che una cosa
universalmente concertata. È una cosa universalmente non concertata. Così è
infinitamente meno demolibile. Una cosa che va da sé. Che si sappia. Allora
tutti ci calpestano sopra.
Allora, ringalluzzito, anche il prete ci calpesta sopra.
Clericus. Il sacerdote se ne accorge bene, un istinto di casta lo avverte, uno
degli avvertimenti, uno degli istinti più sicuri, uno degli istinti più
infallibili, un segreto orgoglio infallibile lo avverte che è lui il nemico,
il più lontano, il più straniero, che l’uomo di famiglia, che il padre di
famiglia è l’uomo più lontano dalla regola e dalla clericatura, l’uomo del
mondo più coinvolto nel mondo, un istinto segreto lo avverte che lui è infinitamente
più vicino al pubblico peccatore; e reciprocamente; che il tribuno, l’oratore,
l’eloquente, l’uomo della tribuna è infinitamente più vicino all’uomo del
pulpito, infinitamente più imparentato all’uomo del pulpito, che l’uomo del
meeting, della pubblica riunione è infinitamente più vicino all’uomo della
predica e all’uomo del sermone; più pronto, per l’uno e per l’altro, sia per
diventarlo, sia per subirne l’effetto, sia insieme l’uno e l’altro, che sono
dello stesso genere, che si passa comodamente e quasi continuamente dall’uno
all’altro, che c’è tra loro un’intesa, interna, un accordo segreto, una
somiglianza, almeno di modo, e in più che appartengono allo stesso mondo; e per
la regola che il celibe, l’uomo libero, il non prigioniero, il non ostaggio,
lo slegato, il non legato, l’inlegato, il mai legato, lo scantonatore, il pié
leggero, il corridore, il bombarolo, il festaiolo, l’uomo all’erta è
infinitamente più vicino; e più pronto, più disponibile; che lui piace di più;
che con lui ci si capirà meglio, ci si intenderà sempre. E poi è lui che è un
personaggio gradevole. Il padre di famiglia è un povero essere. Tirar su
solo tre bambini, pensa un po’. Che grottesco, che ridicolo. Tutte le forze
della società sono congiurate, si congiurano contro una cosa del genere. Ora,
il sacerdote è una forza della società, fa parte delle forze della società.
Allora tutti calpestano il padre di famiglia. Allora il sacerdote, ardito, lo
calpesta. Non ha che indulgenza, e che indulgenze, per tutti gli altri. Si
crede di solito che il celibe, l’uomo senza famiglia è un uomo di fortuna(e),
un avventuriero, che vive di avventure.
Invece è l’uomo di famiglia che è un avventuriero, che
vive non solo alcune avventure, ma una sola, una grande, un’immensa, una totale
avventura; l’avventura più terribile, la più costantemente tragica; la cui
vita stessa è un’avventura, il tessuto stesso della vita, la trama e l’ordito,
il pane quotidiano. Ecco l’avventuriero, il vero, il reale avventuriero.
Da
ALAIN FINKIELKRAUT, Le mécontemporain.
Peguy, lecteur du monde moderne, Gallimard, 1991, p. 34-41, traduzione)
Peguy rimprovera ai
cattolici del suo tempo o più precisamente ai chierici, ai “fondatori del
potere dell’eterno”, di avere commesso un “errore di mistica” nel disprezzare
il temporale e nel trascurare la creazione. Perché un errore di mistica? Perché quella che definisce
operazione mistica non è, come si dice comunemente, l’immediatezza del contatto
con il cielo, è il fatto, per l’anima, di tenere i piedi sulla terra. Et homo factus est. Gesù non si è
ritirato dal mondo, ci è entrato, ci si è avventurato, ha assunto “lealmente e
senza inganni” tutti i predicati, tutte le limitazioni della condizione umana.
“Gesù stesso è stato carnale, Gesù è stato un martire, un giusto e un santo,
non un angelo”. Giocando la regola contro il secolo, destituendo il quaggiù,
perpetuando il dualismo metafisico tra la carne e lo spirito, i chierici
moderni negano, anzichè meditare, il mistero dell’Incarnazione, vale a dire
dell’iscrizione dello spirituale nel carnale. Confondono, tale è il loro
controsenso e tale è la loro empietà, il
più grande dei santi per il primo degli angeli. C’è chi conduce questi
devoti a separare la devozione dall’impegno e a erigere a modello la
disincarnazione piuttosto che il disinteresse e il distacco dal mondo per amore
di Dio, piuttosto che il distacco da sé per amore del mondo.
Evasione dalla realtà,
disastrosa acosmia alla quale Peguy oppone inopinatamente la figura del padre di famiglia: “Non c’è che un
avventuriero al mondo, e particolarmente nel mondo moderno: è il padre di
famiglia. Gli altri, i peggiori avventurieri non sono niente, non sono nulla in
confronto a lui”. Questa affermazione è deliberatamente e indubbiamente
provocatoria, dato che al posto della santità fa l’elogio dell’avventura e come
avventuriero sembra scegliere M. Prudhomme. Peguy lo sa: niente è, in apparenza,
più pantofolaio, più (piccolo-) borghese del padre di famiglia. Egli sa anche
che i libertini, i festaioli, gli esploratori, quelli che bruciano le candele
da entrambe le parti, tutti quelli che rivendicano per sé l’aura
dell’avventura, scherniranno all’infinito questo zoticone goffo e pusillanime. Ma
lui conosce ugualmente, per averne fatto lui stesso esperienza, la strana
particolarità, la espropriante proprietà di cui è provvisto il padre di
famiglia: “Gli altri non soffrono che per se stessi. Ipsi. Al primo grado. Lui solo soffre per gli altri. Alii patitur”. Lui solo, detto
diversamente, supera i limiti della finitezza: il suo essere supera il suo io.
E ciò che gli procura questa prodezza ontologica, non è un potere maggiore, è
una vulnerabilità più grande. Egli soffre
per gli altri, che chiamiamo a torto i suoi, perché non sono loro per lui, ma
lui per loro: lui non è il loro possessore, è lui il loro possesso, egli
appartiene a loro, egli è consegnato a loro, egli è, arrischia lo stesso Peguy,
il loro ‘ostaggio’. Per dirla con un’altra metafora, questo capofamiglia non è
un pater familias, ma un re decaduto
che ha fatto, nel fondare un focolare, il sacrificio della sua libertà sovrana.
Prima di avere un carico di anime e di corpi, è stato il solo padrone della sua
vita; ed eccolo ormai assoggettato, dipendente, privato della possibilità di
trovare rifugio in se stesso: il conforto per quanto lo riguarda gli è
definitivamente interdetto.
Pertanto il borghese
non è colui che pensiamo: letteralmente e costantemente fuori di sé, il padre
di famiglia conduce un’esistenza nello stesso tempo la più avventurosa e la più
responsabile che si possa concepire. Da una parte, egli è esposto a tutto e il
destino, per raggiungerlo, non ha bisogno di cecchini d’elite, gli è
sufficiente colpire a caso uno qualunque dei suoi membri: “E’ lui, amico mio, che li ha, e lui solo, i legami pericolosi”. D’altra parte,
egli è responsabile di tutto, del medesimo avvenire, del medesimo mondo in cui
lui non entrerà: “Egli è assalito dagli scrupoli, straziato dai rimorsi, a
priori (di sapere) in quale città del domani, in quale società ulteriore, in
quale dissoluzione di tutta una società, in quale miserabile città, in quale
decadenza, in quale degrado di tutto un popolo lasceranno, consegneranno,
domani, stanno per lasciare, tra qualche anno, il giorno della morte, questi
figli di cui essi si sentono così pienamente, così assolutamente responsabili, di
cui sono temporalmente i pieni autori. Anzi, niente di loro li è indifferente.
Niente di ciò che passa, niente di storico è per loro indifferente”. Consumato dai rimorsi, dice Peguy, e ci
dà a intendere con questo partecipe allo stesso tempo del tormento e della goffaggine.
Infatti gli schernitori hanno ragione: il padre di famiglia è grossolano. È due
volte troppo grossolano. Troppo maldestro per decollare dal mondo e troppo
grossolano per evolversi con qualche chance di successo. Troppo grossolano per
salire al cielo e troppo grossolano per la corsa, la competizione e la
concorrenza, vale a dire per la legge politica del temporale. Troppo grossolano
per fuggire, troppo grossolano per vincere. In breve, è handicappato. Ma,
aggiunge subito Peguy in risposta al sarcasmo dei sottili, è precisamente
questo doppio impaccio, questa goffaggine e questa aderenza ontologica che
condannano il padre di famiglia all’avventura e che costituiscono il valore mistico della sua vita.
Vediamo: quando Peguy
parla di mistica, egli non si mette dalla parte della fede contro le opere, né
della morale convenzionale e della sua purezza di cuore contro il problema
d’efficienza inerente la morale della responsabilità. Egli difende la
responsabilità per il mondo davanti alla doppia tentazione del carrierismo e dell’angelismo,
del puro interesse e della pura spiritualità.
Sicuramente noi non
possiamo idealizzare di più il padre di famiglia con la stessa evidenza e la
stessa aplomb di Peguy, perché tra lui e noi c’è stato Himmler che non è stato
né un bohemien come fu Gobbels, né un criminale sessuale come Streicher, né un
fanatico pervertito come Hitler, né ancora un fanatico pervertito come Goering,
ma precisamente “un buon padre di famiglia fedele alla sua donna e preoccupato
di garantire un avvenire dignitoso ai suoi figli”. Più generalmente, noi oggi
sappiamo che le macchine totalitarie hanno trovato i loro esecutori più docili
in questi borghesi rispettabili e sistemi che assopiscono sulle famiglie il
loro amore del prossimo e che non provano per molto tempo scrupoli o
responsabilità che dentro la cerchia familiare. Con tutta la bellezza del suo
paradosso e le difficoltà della sua situazione personale, Peguy ha celebrato
l’uscita, per quanto riguarda lui, del padre di famiglia senza interrogarsi
sulle temibili potenzialità, per quanto riguarda noi, domestiche. Egli non ha
pensata alla contraddizione tra la preoccupazione borghese dei suoi e la
preoccupazione civica del mondo. Egli non ha visto, come dice Hannah Arendt,
“il grande criminale” che dorme nel grande avventuriero del mondo moderno. Egli
non ha visto, nello stesso tempo, con il concetto di ostaggio, che lui stesso ha dato la chiave di tale fenomeno. È
precisamente per il fatto che “soffre per altri” che il padre di famiglia è più
facile da tenere e da controllare di colui che non impegna che se stesso
allorquando si impegna nel mondo. Quand’anche non andasse così lontano
nell’obbedienza e nello zelo burocratico dei casi estremi o estremamente
ordinari meditati da Hannah Arendt, la sua famiglia è il suo punto debole, la
sua famiglia è la sua prigione. Lei lo blocca, lei lo inibisce, lei lo
incatena, lei gli mette –è Peguy che parla- “le manette alle mani, le ganasce ai
piedi”, lei lo trattiene, nel nome di ciò che deve ai suoi, dal rispondere alle
sollecitazioni esterne e dall’occuparsi dell’ingiustizia della città. È la
piccola ragione dello Stato interiore, l’immorale
Super-io che combatte le sue buone mosse e che lo richiama all’ordine
quando è tentato dalla rivolta oppure semplicemente dalla generosità. lo
rimuove, è vero, dalla sua sovranità, ma per farlo marciare dritto, non
all’avventura, e se egli si espone non è solamente ai rigori della sorte, è anche
e soprattutto al ricatto dei potenti. Se la vostra vita non vi appartiene
–definizione peguyniana del padre di famiglia-, come metterla in gioco quando
le circostanze, quando i tempi bui lo esigono? Come essere padre di famiglia e
resistente? Ce ne sono stati di certo, ma fu in disprezzo e non in virtù della
loro condizione.
La descrizione stessa
del padre di famiglia di Peguy ci impedisce di sottoscrivere le sue stesse
conclusioni, per quanto profonde e seducenti esse siano. Resta l’essenziale,
sapere che il disastro, per lui come del resto per Hannah Arendt, si definisce
come scomparsa del pro mundo nel pro domo, dell’amore del mondo
nell’interesse di sé, della virtù pubblica, vale a dire della politica, nel
senso che la Arendt ha contribuito a rendere a questo termine, nel calcolo
interessato e nel movimento egoista della vita, vale a dire la politica nel
senso di Peguy.