Limena, il simbolismo della Natività nell’oratorio della B.
V. del Rosario. Pastori, pellegrini, angeli e animali alla greppia di Betlemme
di Bruno Trevellin
(Limena, Oratorio
della B. V. del Rosario, predella dell'altare, Natività (sec. XVII)
La predella
dell’altare nell’oratorio della Beata Vergine del Rosario di Limena è un
pregevole bassorilievo marmoreo di autore anonimo del XVII secolo. In un’atmosfera
di solenne stupore troviamo rappresentata la Natività di Gesù Cristo a Betlemme.
Proprio perché l’oratorio è intitolato alla Vergine, la cui statua marmorea domina
alta sull’altare, la base dello stesso non poteva che essere la sua natività,
quasi a sottolineare la verità del parto verginale di Maria[1].
La scena centrale è
dominata da un giovane pastore imberbe (gli
altri tre hanno tutti la barba, compreso Giuseppe) inginocchiato e scalzo che, a mani giunte, contempla il Bimbo Gesù
nella greppia. La lieve veste sembra solo velare la giovane e forte
muscolatura. A tracolla tiene una bisaccia che pare contenga solo poche cose
essenziali, come dovrebbe essere per la vita di ciascun credente. L’umiltà che
caratterizza la sua vita, e che gli consente di accogliere da subito l’invito
degli angeli a recarsi alla grotta, è ben raffigurata dal piede scalzo e dal
ginocchio sicuro che aderiscono al terreno. È lui, infatti, un giovane pastore,
il primo uditore e testimone della Parola.
Maria sostiene il figlio seduto sulla paglia, avvolto
da fasce che gli coprono solo il bacino e le gambe e sembra offrirlo ai nuovi
arrivati. Le fasce sono infatti segno di
un’incarnazione verace, non illusoria e le fasce in cui
Maria avvolge il Bambino “provano che Dio ha «vestito» (per
cosi dire) la
condizione umana in maniera non fittizia, bensì reale”[2].
Giuseppe in piedi, alle spalle di Maria, è un uomo preso
dallo stupore per l’evento della nascita di quel suo figlio; lo dicono le mani
con le dita aperte, una in alto e una sul petto. La sua folta chioma chiude la
diagonale che parte dall’agnellino legato a terra, passando per le teste di
Gesù e di Maria.
Sopra il pastore, un viandante pellegrino sembra appena
giunto. È raffigurato nell’atto di togliersi il cappello a larghe tese (serviva
per ripararsi dal sole e dalla pioggia). Altri elementi che lo caratterizzano
come pellegrino sono la cappa (mantello per il freddo della notte e per le
intemperie), il bastone (chiamato ‘bordone’, utile per appoggiarsi, ma anche
per difendersi) e le scarpe robuste (indispensabili per percorrere sentieri spesso
accidentati). Anche l’altro personaggio che sta arrivando sulla destra è un pellegrino,
con in più, attaccato al bastone, un cesto con dentro omaggi per la sacra
famiglia (si riconosce una gallinella, viva, simbolo di fertilità, che non doveva essere proprio per un Gesù appena nato,
che nella scena, tra l’altro, sembra un bimbo di quasi un anno).
Ai lati della
predella stanno due angeli bambini in
piedi. Uno ha la bocca aperta e canta (il Gloria) tenendo in mano uno spartito e uno tutto nudo
suona uno strumento ad arco. Sono gli annunciatori della buona novella. Li
fiancheggiano altri due angeli che tengono in mano una corona di rose e di
altri fiori (l’oratorio è dedicato alla Madonna del Rosario). Le loro ali sono penne
e piume che assomigliano molto a fronde di palma. Sappiamo dal vangelo di
Giovanni che la palma indica la vittoria di Cristo sulla morte e la sua
resurrezione e nell’Apocalisse ricorda il trionfo dei martiri. Tutti e quattro
gli angeli rivolgono lo sguardo al Gesù Bambino.
Ai piedi della
greppia, vicino alle ginocchia del giovane pastore, è poggiato un mansueto agnellino con le gambe legate,
che il Bambin Gesù e sua madre sembrano guardare con inquietudine. L’agnello
legato nel presepe non è altro che una prefigurazione del sacrificio finale di
Cristo, vittima innocente per la salvezza dell’umanità. Nello stesso tempo
agnello e pastore sono anche metafora di Cristo buon pastore, che lascia le
novantanove pecore per cercare tra i dirupi quella smarrita.
Nella scena centrale
troviamo il bue e l’asino, calmi e
buoni, ad alitare sulla la testa di Gesù. Nelle rappresentazioni medioevali i
due animali hanno volti quasi umani e infatti anche nella nostra predella li
notiamo con ciuffi di capelli simili a quelli degli altri protagonisti. Sul
significato della loro presenza nel presepe facciamo nostra la lezione di papa
Ratzinger.
“Il
bue e l’asino del presepe non sono semplici prodotti della pietà e della
fantasia, ma sono diventati ingredienti dell’evento natalizio a motivo della
fede della Chiesa nell’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento. In Isaia
leggiamo: ‘il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma
Israele non conosce e il mio popolo non comprende’.
I padri della Chiesa videro in queste parole una profezia che
fa riferimento al nuovo popolo di Dio, alla Chiesa composta di giudei e pagani.
Davanti a Dio tutti gli uomini, giudei e pagani, erano come buoi ed asini,
privi di intelligenza e conoscenza. Ma il Bambino nella mangiatoia ha aperto
loro gli occhi, cosicché ora essi riconoscono la voce del proprietario, la voce
del loro Signore.
Ciò era perfettamente logico, perché essi avevano il valore
di segno profetico dietro cui si nasconde il mistero della Chiesa, il nostro
mistero, secondo il quale noi che di fronte all’eterno siamo buoi e asini, buoi
e asini cui nella Notte Santa sono stati aperti gli occhi, si chè ora riconoscono
nella mangiatoia il loro Signore”[3].
Sulla destra in basso lo scultore ha collocato un tronco d’albero
con delle foglie alla base. Anche questo ci sembra un richiamo cristologico al tronco di Jesse del profeta Isaia. “Un germoglio spunterà dal
tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici”[4]. Starebbe a testimoniare la discendenza davidica
del Salvatore (Davide è il più piccolo dei figli di Jesse e prima di diventare
re d’Israele faceva il pastore) e la sua regalità.
Non mancano in basso a sinistra alcune pietre di una casa già in
costruzione, la Chiesa. Quella in alto è solo appoggiata, non è ancora ben
sistemata. Aspetta la mano di qualcuno che continui l’opera iniziata con l’incarnazione
del Redentore del mondo.
Un ultimo particolare, che però non può passare
inosservato: il velo sul capo di Maria
lievemente mosso da un vento. È l’unica in questa Natività su cui sembra
soffiare una brezza proveniente non si comprende se da oriente o da sud, in
ogni caso solo su di lei, proprio perché “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma
non sai da dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv
3,7-8)”. Se consideriamo che lei è la ‘piena di grazia’ sulla quale è
intervenuto lo Spirito di Dio (e il vento nel Nuovo Testamento è simbolo dell’azione
dello Spirito Santo), troviamo spiegato quel suo velo sollevato che ci mostra
intero il volto della Madre di Dio.
[1] Il dogma
della verginità perpetua di Maria venne definito dal secondo concilio di
Costantinopoli (553). Per un approfondimento sullo stesso di veda http://www.latheotokos.it/modules.php?name=news&file=article&sid=190
[4] Isaia,
11.1